Antonio Martino: "Forza Italia si sta dissolvendo. Ma a risollevarla ci penso io"
Intervista a cura di Giancarlo Perna
«Forza Italia è in dissolvimento. Appena smaltiti i postumi dell’influenza, mi impegnerò nel dibattito del partito per rimediare a una situazione di totale friabilità». È la prima cosa che mi dice Antonio Martino dopo i convenevoli. L’influenza cui si riferisce l’ex ministro, tessera numero due di Fi, essendo Silvio Berlusconi la numero uno, è di quelle che avrebbero atterrato un bufalo. Una settimana a letto, febbre a trentanove e spossatezza prossima al deliquio. «Ora tiro le cuoia, mi dicevo pensando ai miei settantadue anni mentre ero scosso da brividi», racconta di buonumore Martino, tornato in forma seppure con la raccomandazione medica di riguardarsi ancora per qualche giorno. Ha fatto uno strappo per venire nel suo ufficio di parlamentare di fronte a Montecitorio e sottoporsi all’intervista.
Dietro il vestito scuro con panciotto si intravedono le bretelle, ha il distintivo di Fi sul bavero della giacca e, seduto allo scrittoio, rappresenta a pennello la schiatta dei Martino, ministri degli Esteri da due generazioni. Lo fu il padre, Gaetano, negli anni ’50. Lo è stato lui, nel 1994, col primo governo Berlusconi. Esperienza che lo gratificò lasciandogli una maniacale cura dei dettagli, tra i quali spicca il rito della barba per il quale usa pennelli venuti apposta da Londra e un sofisticato rasoio con lama che surclassa quelle dell’Isis. Ancora di più gli piacque essere ministro della Difesa, sempre col Cav, tra il 2001 e il 2006. Dopo di allora la vita del professor Martino - già esimio docente di Economia alla Sapienza e alla Luiss - ha preso un andamento più quieto, conforme al suo carattere. Ora però, la sensazione di avere perso tempo con l’influenza in un momento critico per Fi, gli ha dato un fervore inusitato. «Sto pensando, caro dottore, di avere una colpa emendare: non ho mai fatto attività politica nel partito. Ho lavorato per me, secondo la mia indole individualista. Ma oggi Fi è in tale stato, senza una vera classe dirigente, da spingermi da subito a occuparmene».
«Che intende fare?», chiedo. «Inizierò da “Rivolta l’Italia”, movimento di cui sono cofondatore con Giuseppe Moles (giovane ex deputato, da un ventennio braccio destro di Martino, ndr), la cui finalità è quella di aggregare le anime liberali, ripeto liberali, di Fi. Nascemmo nel 1994 con l’obiettivo di diventare un partito liberale di massa. Abbiamo invece dirazzato, diventando altro. Mi batterò per tornare alle origini». «Mi compiaccio per l’attivismo», dico. «Si è ringalluzzito perché nelle settimane scorse il suo nome è stato fatto per il Quirinale?». «Mi ha fatto piacere. Ma non sono mancate ombre», replica. «Che ombre?», domando. «Silvio si è comportato malissimo. Quando ha proposto ai grandi elettori di Fi di votare il mio nome per il Colle c’è stato un applauso fragoroso. Poi però, uscito dalla riunione, ha cominciato a fare una gran pubblicità per Giuliano Amato, il suo vero candidato». «Si è sentito preso in giro?», domando. «Mi aveva appena proposto e già mi accantonava per un uomo di tutt’altra storia politica. Per di più, era recidivo. Una decina di anni fa, quando ero ministro della Difesa, gli Usa puntavano su di me come segretario generale Nato. Quando l’ambasciatore americano lo disse a Silvio, che allora era premier, lui replicò: «Perché non Amato?».
L’ambasciatore rispose: «Non ci siamo capiti. Noi non vogliamo un italiano. Vogliamo Antonio Martino». Declinai poi io stesso perché avevo da fare alla Difesa. Però...». «Ora che so il retroscena capisco la sua reazione di fronte al giornalista che le chiese quale sarebbe stata la sua prima mossa in caso di elezione al Quirinale. “Mi dimetterò”, fu la sua replica, sgarbata e non da lei. La verità è che era offeso?», chiedo. Martino si appoggia allo schienale e dice: «Sdrammatizzavo. Un modo per dire che non mi struggevo per andare al Quirinale. Sette anni sul Colle, come dice mia moglie Carol (americana, ndr), sono peggio di una condanna a morte. La battuta, “mi dimetterò”, non è nemmeno mia. Fu un autorevole deputato yankee, Buckley, che alla domanda: “Se fosse eletto sindaco di New York, che farebbe?”, rispose: “Chiederei di ricontrollare le schede”». Martino ride e io gli faccio compagnia.
Così, siamo finiti a Mattarella, cattocomunista, antiliberale, nemico del Cav.
«Un piccolo capolavoro di masochismo. Mattarella è garbato ma non vedo perché farlo presidente. Se si eleggessero tutte le persone garbate, sarebbe un mondo invivibile: non avremmo che cafoni in giro».
Solo adesso il Cav ha capito che Renzi è una lenza?
«Dubito che ne avesse davvero fiducia. Altri lo hanno indotto ad accordarsi con Renzi per attenuare il danno che lo strapotere del Pd poteva arrecare a lui e alle sue imprese».
Le aziende sono il tallone di Achille del Cav.
«Da quando lo hanno condannato, Silvio è stato preso dal terrore irrazionale di essere diventato povero. Un tempo regalava cravatte di Marinella. Oggi ha cambiato fornitore per risparmiare».
Lei come ha preso la rottura del patto del Nazareno?
«Era basato su due riforme sbagliate: l’Italicum e l’abolizione del Senato. Con l’Italicum, Renzi si farà un partito unico di centro, tipo Dc, circondato da una congerie di partitini. Con il nuovo Senato saranno rafforzate le Regioni che sono l’organo più corrotto dell’Amministrazione pubblica».
Ora, come niente fosse, il Cav ripudia tutto ciò che ha fatto con Renzi.
«Non è il suo primo ripensamento. Fece voltafaccia anche ai tempi della Commissione per le riforme di D’Alema negli anni ’90».
Riconoscere gli errori non è nelle sue corde.
«Per farlo dovrebbe avere la fiducia in se stesso che invece a Silvio manca. Paradossale per un uomo che ha fatto tanto come lui. La prova è che, oltre a circondarsi di complimentatori, vanta di continuo i propri successi».
L’amicizia che ha per lui non le fa velo.
«L’amicizia è senza veli».
Un leader tentennante e perdente è ancora un leader?
«Chi è incerto sulla linea da seguire, non è più un leader».
È il caso del Cav?
«Non lo so. Con lui nulla è mai scontato. Certo, è imprigionato in una cerchia di persone che non valgono niente, a parte Dudù. Eliminati, invece, chi gli voleva bene: la segreteria Marinella, Valentino Valentini, il portavoce, Paolo Bonaiuti».
E col Nazareno ha perso metà elettorato.
«Senza contare tutti i nostri che non vanno più a votare».
Che motivo ha oggi un liberale per tifare Cav?
«Pochi. Ma, con l’antiliberalismo degli altri partiti, Fi resta ancora il luogo più ospitale per noi».
Il Cav è vero liberale?
«Istintivamente, sì. Gli manca qualche lettura. Ha però due convinzioni profonde: è anticomunista e filoamericano. Entrambe essenziali, ma non sufficienti per dirsi liberali».
L’ha mai preso per il bavero per ricondurlo sulla retta via?
«Sarebbe inutile. Riesce ad ammansire chiunque. Fa il sorriso giusto, trova il giusto argomento. Alla fine molli».
Più il Cav declina, più si pensa stia in politica per le aziende, anche per la continua presenza di Fedele Confalonieri.
«Non l’ho mai pensato, neanche quando entrò in politica. Confalonieri c’è, perché è un cervello di prima classe. Sarebbe stato un ottimo uomo di governo».
Riallearsi con Angelino Alfano?
«Controproducente. L’elettore di Fi è rancoroso. Ha cacciato Gianfranco Fini senza appello. Allearsi con Alfano può diventare un autogol».
Matteo Salvini?
«Mi sembra un esagitato estremista. Inoltre, come alleato di Marine Le Pen non è l’ideale per uno che vota Fi. Sull’Ue però dice cose sensate, abbandono dell’euro a parte».
Renzi è la nostra ultima speranza?
«È una preoccupazione. Ha vitalità, eloquio e capacità di persuasione. Non ha però la stoffa del riformista solutore di problemi. Con una spesa dello Stato abnorme e le aziende tassate al 65 per cento contro il 41 della media Ue, non si rilancia l’economia».
Ha ancora voglia di fare politica?
«Mi basta mezzora alla Camera per perdere ogni voglia. C’è una costante, puntuale come gli acciacchi in vecchiaia: ogni legislatura è peggiore della precedente».
Se lascia che fa?
«Ho più musica che non ho potuto ascoltare e libri che non ho letto degli anni che mi restano da vivere».