Corte Costituzionale, l'assegno all'ex coniuge non deve garantire lo stesso tenore di vita
di Chiara Giannini
Era sempre stato una sorta di luogo comune: dopo il divorzio, al coniuge economicamente più debole va garantito lo stesso tenore di vita con cui si era vissuti surante il matrimonio. No, non è così. O perlomeno non è l’unico fattore per quantificare l'assegno di mantenimento. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, che ha così consentito che la legge sul divorzio passasse l’esame al grado più alto.
In sostanza, è stata dichiarata erronea l’interpretazione che alla norma aveva dato il Tribunale di Firenze, il quale per l’appunto sosteneva la versione del mantenimento dello stesso tenore di vita dopo il divorzio. No: la Consulta ha chiarito che l’importo dell’assegno va valutato caso per caso tenendo anche conto di altri fattori essenziali, quali quelli legati alle variazioni di reddito successive della parte che sborsa i soldi, il contributo personale e anche economico che ciascuno dei due ha inserito per formare il patrimonio comune, ma anche la durata del matrimonio stesso e le ragioni che hanno portato alla separazione. «Tali criteri - scrivono i giudici - agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, e possono valere anche ad azzerarla». Senza contare che la Costituzione stabilisce di tener conto di criteri di ragionevolezza e solidarietà. Come dire: se è dimostrato che il coniuge non ce la fa, a corrispondere quei soldi, non è tenuto a farlo. Una svolta per i tanti padri e mariti separati che, proprio causa delle spese di manenimento, sono letteralmente finiti sul lastrico.
«E dunque - spiega un avvocato divorzista - se da sposati si viveva all’interno di una bolla dorata, godendo appieno del patrimonio del coniuge, oggi non si dovrà avere per forza un assegno da capogiro, ma ogni caso dovrà essere valutato singolarmente dal giudice. E se un tempo si versavano cifre anche altissime per il mantenimento del coniuge, oggi ogni singolo caso potrà essere adattato ai parametri di cui si deve tener conto».
Una decisione che riguarda davero tante persone: i padri separati in Italia, secondo un recente studio, sono più di 4 milioni. Di questi, 800mila vivono sotto la soglia di povertà, proprio perché, oltre che a provvedere al mantenimento dei figli, devono anche occuparsi del sostentamento dell’ex coniuge con cifre che spesso non sono in grado di sostenere. E li costringono a recarsi alla Caritas o altre associazioni di assistenza per chiedere aiuto. La media dell’assegno versato è di poco meno di 500 euro, anche là dove ci siano stipendi che non arrivano al doppio della cifra. Intendiamoci, il pronunciamento della Consulta vale anche per le exmogli che devono mantenere l’ex marito. Ma, in effetti, sono casi molto meno frequenti.
La questione è sorta in seguito ai fatti riguardanti una coppia toscana senza figli. Lui proprietario di due appartamenti a Capo Verde, dove trascorrevano assieme lunghi periodi a spese sue, con un reddito di 56mila euro provenienti da immobili di proprietà; lei dentista con sette dipendenti e due collaboratrici esterne e proprietaria di altri immobili. Il 7 novembre 2012 arriva la sentenza definitiva di separazione giudiziale, con liquidazione di un assegno mensile di 750 euro rivalutabile annualmente da pagare da parte dell’uomo all’ex moglie. Lui si appella al Tribunale di Firenze, in quanto la moglie può cavarsela da sola. Ma lei pretende 5mila euro al mese proprio «per mantenere lo stesso tenore di vita» e invoca l’articolo 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 (Fortuna-Baslini), modificato dall'articolo 10 della legge n. 74/1987. «In pratica - prosegue l’avvocato divorzista - ci si è posti il dubbio della legittimità costituzionale di quest’articolo». E la Consulta l’ha per l’appunto giudicato incostituzionale.
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