Giampaolo Pansa: siamo in guerra, ma senza armi per combatterla
di Giampaolo Pansa
Non ci sono dubbi. Quanto è accaduto in questi giorni a Parigi si ripeterà. Forse in Francia o in un altro paese europeo. E dovunque accada, a cominciare dall’Italia, riscopriremo una verità: non sapremo difenderci e il terrorismo islamico farà di noi quello che vorrà. Dopo daremo la caccia ai killer, forse li uccideremo o si potrà catturarli. Ma intanto il danno sarà fatto. E altri terroristi al servizio del Califfato nero dell’Isis, di Al Qaeda, o di qualche gruppo di tagliagole senza nome, si preparerà a fare di noi le nuove vittime di questa nuova guerra mondiale.
Sono abbastanza anziano per essere vissuto nel ricordo di almeno quattro conflitti armati. Mio padre Ernesto, classe 1898, si era fatto tutta la prima guerra mondiale come soldato del Genio. Un paio di cugini il fascismo li aveva mandati a combattere in Grecia e in Africa settentrionale. Un altro cugino era stato partigiano nella guerra civile. Il quarto conflitto l’ho visto e raccontato da giornalista: la lunga guerriglia delle Brigate rosse, un’altra storia coperta di sangue.
In questi giorni dominati dalle dirette televisive sul massacro di Parigi, ho ripensato più volte all’interminabile guerra dichiarata dalle Br, da Prima linea e da una fungaia di bande minori. Di quell’epoca piena di morti accoppati, di gente gambizzata e resa invalida, di drammi politici e di amicizie finite, che cosa rammentiamo oggi? Poco o niente. Eppure la memoria può aiutarci a non essere impreparati di fronte a quanto rischiamo.
Molti si domandano se la guerra islamica contro l’Occidente durerà a lungo. È un interrogativo inutile. Durerà sino a quando non avranno vinto loro o noi. Siamo entrati in un percorso senza altri sbocchi. Dunque l’unica risposta razionale è che dobbiamo prepararci a vivere in una condizione sconosciuta a tanti italiani. Dove la sicurezza sarà più importante della libertà.
Le Brigate rosse apparvero sulla scena nei primissimi anni Settanta. Si pensò a un incendio che si sarebbe spento quasi subito. Una previsione sbagliata. I due primi delitti dei brigatisti arrivarono nel 1974 a Padova e da allora il terrorismo rosso non smise di uccidere. Nell’aprile 1988 a Forlì venne assassinato un senatore democristiano, Roberto Ruffilli. E tutti pensammo che fosse l’ultimo delitto delle Br. Non era così. Nel maggio 1999 le nuove Br uccisero Massimo D’Antona, consulente del governo. E nel marzo 2002 fu assassinato il professor Marco Biagi.
A conti fatti, il terrorismo brigatista è rimasto sulla scena per un trentennio. Se applicassimo lo stesso metro alla guerra islamica, collocandone l’inizio nel 2014, arriveremmo al 2044! Con quale esito? Nessuno può dirlo. Anche le guerre che sembrano perdute per uno dei due fronti in lotta, possono riservare sorprese. Non è escluso che il vincitore risulti l’Occidente, sia a pure a costo di mutamenti profondi nel suo modo di vivere.
Perché l’Italia riuscì a battere le Brigate rosse? Le ragioni sono tante. Per cominciare, i grandi partiti, la Dc e il Pci, non persero la testa. Il dissenso con il Psi durante il sequestro Moro, non arrivò mai a una rottura drammatica. Tennero anche i sindacati e gli operai delle grandi fabbriche. La sinistra si gingillò con la teoria dei «compagni che sbagliano». Poi cambiò opinione, anche a prezzo di vedere che non tutti i suoi militanti si schieravano contro il terrorismo brigatista.
Fu decisiva la figura di un militare: il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. A sinistra molti lo consideravano un potenziale golpista. Furono costretti a ricredersi. Il suo prestigio e i risultati ottenuti nella guerra contro le Br affermarono l’importanza di quella che oggi si chiama l’intelligence. Un’arma indispensabile per entrare nella testa e nei programmi del terrorismo, prevenirne le azioni e catturarne i capi.
Risultò essenziale anche la legge che prevedeva sconti di pena per i pentiti disposti ad aiutare gli inquirenti. In totale furono più di sessanta. Molti di loro, benché ritenuti colpevoli di una serie di omicidi, scontarono soltanto pochissimi anni di carcere. Un beneficio che a gran parte dell’opinione pubblica sembrò eccessivo. Ma la casta politica di allora non arretrò. Insieme alla carota, si continuò a usare il bastone. Ossia la mano dura nelle indagini e negli interrogatori.
Anche in questo caso si confermò l’importanza del nucleo speciale di Dalla Chiesa. Non più di sessanta o settanta uomini, fra carabinieri e agenti di polizia, selezionati con cura. Il generale rispondeva soltanto al ministro dell’Interno. Non fu un affare da poco ottenere il consenso delle forze politiche. I dibattiti in Parlamento furono molto accesi, ma venne trovata un'intesa.
In questo 2015 i nostri partiti sono in grado di ripetere l’esperienza positiva del ceto politico di quel tempo? Ho molti dubbi in proposito. Oggi la politica ha le ossa rotte. Sa di essere screditata nei confronti dell’opinione pubblica. È frantumata e divisa come non mai. Di certo non possiede l’energia necessaria ad affrontare un’emergenza simile a quella che ha incendiato Parigi. La debolezza anche morale si manifesta in ogni occasione. Venerdì il ministro dell’Interno che illustrava a Montecitorio i provvedimenti decisi per stoppare i combattenti islamici residenti o in transito in Italia, ha parlato davanti a una distesa di scranni vuoti.
Anche il presidente del Consiglio non sembra l’uomo adatto per questi tempi di ferro. Sempre venerdì sera, a Otto e mezzo di Lilli Gruber sulla Sette, si è prodotto in un monologo torrenziale, recitato a velocità supersonica. Parlava, strillava, scherzava e rideva senza offrire nessuna proposta seria per affrontare la tempesta che può investire anche l’Italia e mandare a ramengo il suo governo.
Mentre lo ascoltavo, mi sono domandato se Renzi sia in grado di essere il leader di una nazione che, da un giorno all’altro, potrebbe trovarsi sotto il fuoco del terrorismo islamico. Non voglio sembrare un critico ingeneroso. Ma esiste un dato di fatto: Renzi ha conquistato Palazzo Chigi in un’epoca ormai da considerare al tramonto. Tutti i suoi infiniti programmi erano immaginati per un paese in pace e non in guerra. L’infantile parola d’ordine per il 2015, «Ritmo», ha un suono ridicolo se la pronunciamo nel frastuono delle raffiche di kalashnikov sparate a Parigi. E davanti al sangue che scorre dagli assalti di questi giorni, di fronte ai giornalisti morti nel primo assalto, ai poliziotti uccisi, agli ostaggi ebrei giustiziati.
La storia del mondo procede senza tener conto delle beghe italiane sulla riforma del Senato, sull’Italicum e le sue trappole, sulla pubblica amministrazione da mettere in riga, sui codicilli fiscali a vantaggio di Tizio o di Caio, sui Patti del Nazareno e la riabilitazione di Berlusconi. E soprattutto sull’ottimismo forzato che il premier continua a predicare e le promesse che seguita a ripetere con la petulanza del ragazzino presuntuoso.
Il sangue di Parigi non si ferma alla frontiera tra la Francia e l’Italia. Arriva anche in casa nostra. Ci fa aprire gli occhi su un paese debilitato dalla crisi economica, alle prese con il nuovo mostro della deflazione. E in pratica indifeso contro un attacco sferrato da qualche altra coppia di fratelli pronti a uccidere e a morire per l’Islam. Siamo alle corde, amici di Libero. Auguriamoci di non essere costretti a rinchiudere papa Francesco in un bunker segreto nel sottosuolo di Roma.