Mafia Capitale: proiettili, minacce e botte. Così agivano Massimo Carminati e soci
di Franco Bechis
Il 31 marzo Salvatore Buzzi, l’imputato chiave dell’inchiesta su Mafia Capitale, ha deciso di rilasciare dichiarazioni spontanee al pm di Roma che lo aveva arrestato. Come chiunque avrebbe fatto nei suoi panni, Buzzi ha tentato di difendersi, anche a costo di arrampicarsi sui muri. Quando si è trattato di spiegare cosa lo aveva spinto al sodalizio con Massimo Carminati, che aveva una fedina penale lunga come l’autostrada del sole, il capo della coop rossa di detenuti, ne ha detta una davvero fantastica. La sintetizzano così i magistrati nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere o agli arresti domiciliari 44 altri politici, dirigenti pubblici e manager di cooperative: «Quanto al Carminati, (Buzzi ndr) riteneva fosse diventato un onesto uomo di affari con l’ossessiva preoccupazione di indagini in corso». Il «Cecato» «un onesto uomo d’affari», in doppiopetto, magari frequentatore della City e dell’alta finanza. Gli inquirenti ovviamente si sono irrigiditi. Anche perché quel che da mesi andavano cercando i magistrati romani ruotava proprio intorno a Carminati.
La contestazione dell’associazione mafiosa, il 416 bis, poggiava su intercettazioni. Ma serviva qualcosa di più per affrontare un eventuale processo: la prova dei metodi di associazione mafiosa. Era difficile trovarla da Buzzi, ma la novità di questi mesi è stata quella. Il muro di omertà si è sgretolato ed è saltato fuori più di un teste chiave.
Il primo si chiama Flavio Ciambella, è un piccolo imprenditore di Castelnuovo di Porto indagato per la corruzione del sindaco della cittadina, Fabio Stefoni, nella vicenda del nuovo centro di accoglienza immigrati da aprire lì. Ciambella ha spiegato di avere provato a contattare con due mail la procura di Tivoli per rivelare fatti penali importanti. Mancavano circa due settimane agli arresti di Mafia Capitale, ma da Tivoli nessuno rispose: il procuratore capo, Luigi De Ficchy, stava per trasferirsi a Perugia, e aveva altro per la testa. Ai pm di Roma però ha portato a gennaio le prove della corruzione: mail, documenti, lettere, e il suo racconto. A metà marzo nella cassetta delle lettere Ciambella ha trovato una busta gialla con dentro un foglio scritto a stampatello: «Fatti i cazzi tuoi», e insieme un proiettile. Una intimidazione per ritrattare le dichiarazioni fatte. Una minaccia mafiosa che per gli inquirenti diventa importantissima. Ciambella tiene duro e non ritratta. E uno dopo l’altro spuntano altri testimoni, vittime di violenza e minacce, che raccontano ai pm cosa accadeva se sgarravi con Carminati.
Luigi Seccaroni, concessionario di auto, spiega di avere subito intimidazioni perché il gruppo voleva un suo terreno in via Cassia. «Cercavo di tergiversare e farli desistere, ma questo generava un radicale cambiamento di atteggiamento nei miei confronti che, col passare dei giorni, diveniva sempre più pressante e minaccioso tanto da indurmi uno stato d’ansia e preoccupazione costante di pericolo per me ed i miei cari. La mia soggezione nei loro confronti raggiungeva l’apice quando minacciarono palesemente di incendiarmi l’azienda, di picchiarmi e di far del male ai miei familiari, compresi mio fratello e mio padre. Un sabato mattina, mentre accompagnavo mia figlia a scuola, ho incrociato Carminati lungo corso Francia e lo stesso, dopo avermi seguito per un pezzo di strada, mi affiancava e mi guardava. La circostanza mi ha spaventato parecchio, tanto che sviavo lo sguardo e cambiavo corsia».
Riccardo Manattini racconta di essere stato minacciato da Carminati: «Mi disse che se facevo ancora in giro il suo nome mi avrebbe tagliato in due», e poi rivela un pestaggio subito dal gruppo per avere pagato buoni benzina con assegni non coperti: «Fui aggredito da un uomo alto circa 1,90 m che mi colpiva ripetutamente sul volto facendomi rovinare a terra e successivamente continuava a colpirmi con dei calci al costato. Nell’occasione notavo che il soggetto che mi percuoteva si accompagnava ad altri due uomini che rimanevano defilati preoccupandosi che nessuno intervenisse in mia difesa. Inoltre l’uomo che mi aveva colpito, allontanandosi e lasciandomi a terra, mi intimava con accento romano di comportarmi bene e di saldare il debito».