Visualizzazioni totali

lunedì 28 settembre 2015

Il "suicidio" di Renzi in diretta tv Profezia di Pansa: finirà malissimo

Giampaolo Pansa, fantasia d'autunno: il talk show di Matteo Renzi si rivelà un disastro


di Giampaolo Pansa



Volete una storia che nessuno vi ha mai raccontato? Eccola. Nel tardo autunno del 2015, Matteo Renzi, l’audace premier italico, si rese conto di una tragica realtà. I talk show televisivi delle reti pubbliche e private se ne infischiavano delle sue critiche. I vari Gruber, Floris, Giannini, Formigli, Porro, Telese, Merlino, Paragone e compagnia seguitavano imperterriti a presentare l’Italia renziana come una nazione a rotoli. Senza lavoro per i giovani, stracolma di clandestini, in mano alle bande della camorra, della ’ndrangheta e della mafia. Per non parlare dei mariti che sgozzavano le mogli con una ferocia che non aveva nulla da invidiare ai tagliagole del Califfato nero.

Renzi non ne poteva più di essere preso per i fondelli da una squadra di televisionisti cialtroni. Gli rovinavano le giornate e il fegato, al punto di farlo dubitare di se stesso. Si osservava di continuo nello specchio e ruggiva: «Mi sembra impossibile che i gufi, i rosiconi, i menagramo abbiano la meglio sul più grande premier italiano del dopoguerra. Non posso farmi mettere sotto da una banda di scansafatiche. Devo immaginare qualcosa per mandarli al tappeto».

Il qualcosa glielo suggerì il suo spin doctor, il consigliere più esperto e più fedele: Filippo Sensi. Una sera disse a Renzi: «Esiste un solo sistema per rottamare quei mangiapane a ufo». «E quale sarebbe?» domandò ansioso il Fiorentino. Sensi gli spiegò: «Dobbiamo inventarci un talk show renzista, del tutto favorevole a te, presidente. E farlo trasmettere dalla Rai a reti unificate. Quindi convincere i padroni delle emittenti private a mandarlo in onda, a scanso di guai. Sarà una sorpresa per tutti. E sono sicuro che avrà un successone sorprendente».

Ottenuto l’ok di Renzi, Sensi si mise subito all’opera, insieme a Luca Lotti, detto Truciolo d’Oro. In virtù del suo faccino da adolescente un tantino malvagio, Lotti sarebbe stato anche il conduttore del talk presidenziale. I due compari non ci misero molto a immaginare la struttura del programma. Doveva essere a blocchi, un personaggio dopo l’altro. Sensi disse: «In questo modo eviteremo la babele di ospiti e di opinioni che hanno un solo scopo: sputtanare Matteo e il nostro governo».

Per essere pronti all’esordio, venne preparato un numero zero del programma, una prova generale registrata in segreto nella sala delle conferenze stampa di Palazzo Chigi. Protetta da una pattuglia di guardie giurate, provvista di mitragliette. Fu anche deciso il nome del programma. Semplicissimo e molto popolare: “Viva l’Italia!”. Quindi si iniziò a girare un blocco dopo l’altro.

Il primo vip a essere intervistato fu Denis Verdini. L’ex consigliere di Berlusconi stava al meglio della forma. Aveva una chioma leonina e la faccia da simpatico barabba. Lotti lo interrogò su un tema spinoso: l’arte di cambiare sponda. Denis fu davvero grande. Sproloquiò sulla necessità di non restare mai uguali a se stessi: la vita è un succedersi di mutamenti, si nasce, si cresce, si matura, si cambiano amici, donne, partiti, premier. Confessò: «Non mi sono venduto a Renzi. Mi sono innamorato di lui. Se non fossi un incallito donnaiolo, vorrei passare notti furibonde con il Rottamatore».

Poi toccò al ministro Maria Elena Boschi, più splendente che mai. A Palazzo Chigi tutti erano invaghiti di lei. Anche Lotti stravedeva per la ragazzona di Arezzo. La passione per le curve di Maria Elena mandò in tilt Truciolo d’Oro. Cominciò a presentarle domande scabrose, sulla vita privata, gli amori, il sesso. La ministra si incavolò e mandò Lotti a spazzare il mare. Poi spiegò a Renzi: «Partecipo volentieri a “Viva l’Italia!”, ma non voglio avere tra i piedi quel maniaco pronto a molestarmi».

Andò meglio con il direttore dell’Unità, Erasmo D’Angelis. Sulle prime, l’audizione fu un disastro. Il giornalista aveva molte cose intelligenti da dire, sempre a favore del governo Renzi. Purtroppo il suo aspetto era terrificante. Terreo, pelato, stravolto dai tic, sembrava la comparsa di un film horror, appena uscito dal castello maledetto di Dracula. Il problema appariva senza rimedio. Ma Sensi, un vero genio dello spettacolo, scoprì come risolverlo.

Disse a Renzi: «Dobbiamo mettere sotto contratto Kevin Costner, l’attore americano. Si è già prestato a fare la pubblicità per un marca di tonno in scatola. E non rifiuterà di interpretare la parte del direttore di un giornale governativo». Sensi aveva ragione. Cavò il ragno dal buco e il risultato fu trionfale.

Pagato a peso d’oro, Costner imparò a memoria le risposte alle domande, poi venne doppiato da un attore italiano. L’intervista la registrarono nell’ufficio di D’Angelis all’Unità. E incantò tutto il personale femminile, a cominciare dalle donne addette alle pulizie. Ma il vero scoop Sensi lo realizzò portando davanti alle telecamere il campione italiano dei rosiconi. Era Mister Gufo 2015, il più implacabile dei menagramo. Venne presentato con il viso nascosto da un passamontagna, come succede con i latitanti. Sollecitato da Lotti, disse le peggio cose sul governo Renzi. Ma non risultò credibile, anche perché la voce distorta «per motivi di sicurezza» sembrava quella di un uomo delle caverne.

Il talk show di Renzi andò in onda su tutte le reti. Però si rivelò un flop disastroso. Ma non per colpa di Sensi, Lotti, Verdini, Boschi, D’Angelis-Costner e neppure di Mister Gufo 2015. Il motivo fu un altro. I talk messi all’indice dal premier si erano coalizzati, decidendo di fare ciò che non avevano mai fatto. Si gettarono su quelli che chiamarono “Super match”, vale a dire un succedersi di contrapposizioni tratte dall’Italia reale, quella di tutti i giorni.

Una famiglia mafiosa contro una camorrista. Due omofobi e due gay. Un nemico giurato dei migranti e una fanciulla della Caritas. Un miliardario e un poveraccio senza casa, costretto a dormire per terra alla stazione Termini. Un tifoso di papa Bergoglio e un ateo bestemmiatore. Ma il vero scoop dei talk anti Renzi fu ancora un altro.

Un giornalista sciagurato aveva appiccicato al premier un soprannome beffardo: Ciccio bomba cannoniere, per le continue promesse sparate a vanvera. Era l’inizio di una filastrocca recitata dai bambini. Bisognava completarla. Il vincitore di quel concorso sarebbe stato presentato in tivù da tutti i talk che non amavano il premier.

Il primo premio andò a un anziano geometra di Vigevano. La sua filastrocca recitava così: «Ciccio bomba cannoniere fa la cacca nel bicchiere. Il bicchiere si spaccò e Ciccio bomba lo leccò. Lo leccò col cucchiaino, Ciccio bomba maialino». L’audience s’impennò e raggiunse livelli mai registrati. Renzi rinnovò le scomuniche. I talk ribelli se ne infischiarono. E presentarono la filastrocca arrivata seconda: «Ciccio bomba cannoniere con tre pulci nel sedere. Con tre pulci nella pancia, Cicciobomba corre in Francia. Ma in Francia c’è la guerra e Cicciobomba cade a terra».

Arrivati a quel punto, il Rottamatore comprese che era inutile fare il braccio di ferro con i televisionisti. E si limitò a distruggere tutti gli apparecchi tivù di Palazzo Chigi. Giurando a se stesso: «Soltanto io posso vincere davanti a una telecamera. Devo soltanto perdere i dieci chili di ciccia che ho accumulato mangiando troppi spaghetti a Palazzo Chigi».

Fisco, ecco cosa controllano gli 007 Terme, estetista, automobili e pay tv

Fisco, come cambia il redditometro




Terme, centri benessere e centri bellezza, abbonamenti alla televisione a pagamento. Ma anche assegni periodici al coniuge, rette per gli asili nido e investimenti in fondi di investimento. Sono le voci contenute nella nuova versione del redditometro, il cui decreto è stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale. L'obiettivo è quello di combattere l'evasione fiscale tramite controlli incrociati tra il reddito e le spese effettuate, al fine di scoprire eventuali discrepanze tra l'effettivo tenore di vita ed il reddito dichiarato. L'accertamento si verifica solo nel caso in cui lo scostamento superi il venti per cento tra reddito dichiarato e le spese sostenute ma al contribuente è data la possibilità di difendersi. I nuovi criteri si applicano per gli accertamenti validi sui redditi a partire dal 2011 (in precedenza riguardava i redditi dal 2009) e riguardano oltre 100 voci di spesa che ricalcano quelle della precedente versione, divise in due grandi macro-aree: consumi e investimenti. La prima comprende gli alimentari, l'abitazione (mutuo, affitto, condominio e anche i compensi all'agente immobiliare), i combustibili, i mobili, la sanità e i trasporti, con un dettaglio che scende fino al costo al metro per le riparazioni dei natanti a motore o a vela.

Roberto Saviano, disfatta del copione Scaricato anche dai suoi: tutti i nomi

Roberto Saviano copione scaricato anche dai suoi: i vip e i fan che gli voltano le spalle


di Giuseppe Pollicelli 



Per un Gad Lerner che ne ha preso calorosamente le parti, arrivando a definire provinciali, mediocri, pecoroni e - con un ardito capovolgimento dei termini della questione - perfino scopiazzatori coloro che su siti e giornali hanno commentato le accuse di plagio giunte dagli Stati Uniti, Roberto Saviano sta assistendo stavolta al progressivo infoltirsi del novero di coloro che non sembrano più disposti a perdonargli l’appropriazione di articoli altrui senza menzionare la fonte. E al gruppo, questa è la novità più rilevante, si sono iscritte anche persone che fino a ieri avevano dimostrato stima e apprezzamento nei confronti dell’autore di Gomorra.

A dire il vero, già nel 2013, subito dopo l’uscita di ZeroZeroZero, il libro di Saviano a cui ha fatto le pulci il giornalista Michael Moynihan della testata americana Daily Beast, un intellettuale di sinistra come Christian Raimo notava con disappunto, sul sito Linkiesta, come Saviano avesse scelto di «eliminare qualunque riferimento bibliografico: né in una citazione del testo, né in nota, né alla fine nei ringraziamenti. Nemmeno in modo simulato viene citato un libro, una fonte giudiziaria, una statistica, un’ispirazione, un saggio dove approfondire o trovare conferma. (...). Questa mancanza di bibliografia per chi legge è spiazzante man mano che si va avanti nel libro proprio perché la ricostruzione della storia della criminalità internazionale è estremamente articolata. (...). Perché questi riferimenti mancano?».

La risposta è arrivata in questi giorni, a due anni di distanza da quando Raimo ha formulato il quesito: essenzialmente i riferimenti mancano perché Saviano ama presentare come originali contenuti che invece sono stati ripresi, talvolta in modo pressoché letterale, da lavori altrui.

Venendo all’oggi, è da notare che anche un sito di orientamento progressista come Il Post, giovedì scorso, ha scelto di non usare particolari cautele per informare i propri lettori del documentato attacco del Daily Beast: «L’articolo di Moynihan spiega che nel libro ci sono “diversi casi di apparente plagio”, oltre che alcune interviste con persone “che potrebbero non essere vere”. Dubbi simili erano già stati avanzati dal New York Times, ma l’articolo di Moynihan li circostanzia con esempi concreti».

Spostandosi sui social network, appare ancora più chiaro come lo sconcerto abbia colto anche chi di Saviano è (o era) un ammiratore. La giornalista Simona Zecchi, collaboratrice del Fatto Quotidiano, ha per esempio affermato su Facebook che «Saviano ha plagiato e si è spacciato per giornalista d’inchiesta. Si può essere scrittori e rendere meglio dei giornalisti la realtà, ma ci vuole metodo». Le ha fatto eco Angela Azzaro, vicedirettrice del Garantista: «Saviano non fa niente per rendersi simpatico: scrive cose di un narcisismo mostruoso, pontifica su tutto. (...). Sta a lui smettere di giocare a fare l’autore onnisciente e onnipotente».

E ancora, sempre su Facebook, Paola Tavella, ex redattrice del manifesto ed ex firma di Noi donne, storica rivista femminista: «Però Saviano ha copiato contenuto e forma. E pure da giornalisti di inchiesta messicani e russi che per trovare quelle fonti e citarle hanno rischiato l’osso del collo, senza scorta al seguito. Non si fa. Non ci piove che non si fa. Puoi mettere in discussione la separazione fra giornalismo e letteratura, ma se del giornalismo butti via solo la deontologia, beh, non ti stimo mica tanto».

Anche sulla pagina ufficiale di Saviano, in mezzo a tanti che lo difendono, non sono pochi, fra le persone comuni, quelli che esprimono la propria delusione. Da Raffaele Pellegrino, che scrive «Invece di contestare le accuse nel merito, alzi una cortina fumogena fatta di autocelebrazione, vittimismo e accuse di persecuzione», a Duccio Mondanelli («Il problema, Saviano, è che non hai citato manco una volta le tue fonti. Va bene usarle, l’abbiamo fatto tutti nella tesi di laurea, però vanno citate. Non spacciare come tue interviste o fonti i lavori di altri, dai!»).

A Saviano non resta che sperare nel soccorso di qualche big, magari il suo omonimo Benigni, che già anni fa si spese a favore di Daniele Luttazzi (rivelatosi gran plagiatore di battute) ricordando come anche i grandi della poesia e del teatro, a cominciare da Dante, abbiano copiato. Ma pure in questo caso, a pensarci bene, saremmo di fronte a qualcosa di già visto, cioè a una copia. Per cui, forse, è meglio soprassedere.

Nuova tassa: i tuoi soldi per i profughi Il calcolo: ecco quanto dovrai pagare

Onu, eurobalzello su transazioni bancarie per aiutare i profughi



di Andrea Morigi 


Arriva la tassa sugli immigrati. Parte da lontano, dal Palazzo di Vetro di New York, ma promette di colpire i pochi cittadini europei che hanno ancora qualche soldo residuo da investire.

A partorire l’idea, neppure tanto originale e innovativa, è il vice-segretario generale delle Nazioni Unite, il francese Philippe Douste-Blazy, insieme a Giusi Nicolini, il sindaco di Lampedusa.

La affidano a The World Post, intervenendo a gamba tesa nel dibattito sulle politiche comunitarie di accoglienza, nel bel mezzo dell’emergenza rifugiati. Il progetto, spiegano, è reperire fondi da destinare a un “piano Marshall” per risolvere la crisi dovuta ai flussi migratori, attraverso l’imposizione fiscale su transazioni e strumenti finanziari.

Comunemente, quello strumento va sotto il nome di Tobin Tax, perché nel 1972 fu l’economista keynesiano James Tobin a proporlo per primo. Grande trovata, che valse allo studioso anche un premio Nobel. Peccato che quasi nessuno abbia poi voluto metterla in pratica. Da allora è oggetto di acceso dibattito fra i suoi fautori e i suoi critici. Di fatto non si è mai raggiunto il consenso generale, necessario a rendere la misura efficace in tutto il mondo. Non avevano considerato, i geni del prelievo forzoso, che alla notizia di una tassazione aggiuntiva in una piazza finanziaria gli investitori sarebbero prontamente fuggiti verso mercati meno esosi oltre che più redditizi.

Se non che, in questo controverso campo, l’Italia si pone all’avanguardia, con la legge 228 del 2012, entrata in vigore il primo marzo 2013, al crepuscolo del governo presieduto da Mario Monti. Quanto alla sua efficacia, è già abbastanza eloquente il gettito: circa 300 milioni di euro l’anno, ben al di sotto delle aspettative del Tesoro, che inizialmente stimava almeno un miliardo e 200 milioni di introiti per l’Erario e poi ha sistematicamente ridotto le pretese. Se le allineassero alla popolarità della tassa, arriverebbero a zero. Anzi, sotto zero, perché la sua applicazione ha coinciso con un crollo del volume d’affari da 184 miliardi, per limitarsi alla Borsa italiana.

In Francia, il secondo partner europeo ad avere introdotto la Tobin Tax, le cose non sono andate meglio. Tanto che nei palazzi di Bruxelles si è ormai smesso di parlarne.

Eppure sono proprio un’italiana, la Nicolini, e un francese, anzi l’ex sindaco cattolico di Lourdes ed ex ministro degli Esteri nel governo de Villepin fra il 2005 e il 2007, Douste-Blazy, a tornare alla carica. La loro intenzione è di colpire tutti i 28 Paesi comunitari, con una percentuale dello 0,1% sulle compravendite di titoli azionari e obbligazionari, riservando invece un più modesto 0,01% ai prodotti derivati. Equivale a dire che si privilegiano i grandi capitali alla George Soros con una tassazione più leggere, accanendosi invece con un carico dieci volte superiore contro privati e famiglie che affidano i loro risparmi ai gestori e alle banche.

Sarebbe perfettamente inutile rispolverare una proposta del genere, se non si trattasse di «prevenire un pericoloso aumento di razzismo e xenofobia». Con quel pretesto, potrebbe passare qualsiasi patrimoniale. Per sbaragliare ogni resistenza è sufficiente accusare chi vi si oppone di volere lo scontro di civiltà.

L’attuale tentativo di mettere le mani nelle tasche dei contribuenti europei si nasconde dietro una facciata umanitaria: il 25% degli incassi dovrebbero tornare ai Paesi d’ingresso dei migranti, sotto forma di assistenza finanziaria e tecnica, come proposto dall’Ocse, mentre una metà andrebbe nel Terzo Mondo, come aiuti alimentari, assistenza sanitaria, igienica ed educativa. Al rimanente 25%, i proponenti non fanno nemmeno cenno. Ma Douste-Blazy, che ricopre la carica di consigliere speciale dell’Onu per le fonti innovative dei finanziamenti allo sviluppo, certamente potrà dispensare qualche suggerimento su come spenderli.

In ogni caso, sostengono i due firmatari, è «l’unica soluzione che renderà possibile accogliere rifugiati politici con dignità e integrarli nelle nostre società» e allo stesso tempo consentirà di «evitare l’enorme ondata migratoria che incombe per la distanza sempre più larga fra i ricchi e i poveri, in un’epoca in cui la comunicazione è sempre più globalizzata».

È un’utopia che, per una strana concezione della funzione sociale della proprietà, confusa con la politica della sostituzione etnica, farà trasferire agli stranieri i guadagni dei cittadini europei.

Caos Vaticano, 11 cardinali contro il Papa Il documento e le (durissime) accuse

Vaticano, undici cardinali contro Papa Francesco: il (duro) documento in vista del Sinodo




Undici prelati di peso contro Papa Francesco, un Pontefice che - e non è certo una novità - non è gradito a tutti tra le alte gerarchie vaticane. Un documento, con cui gli oppositori rispondono alle aperture di Bergoglio. Una pubblicazione che viene anticipata da Repubblica, e in cui si parla della "fase di disfacimento che non ha eguali nella storia" nella quale, nel mondo occidentale, sono entrati "il concetto di matrimonio come anche l'istituzione della famiglia". Una dura accusa, in vista del Sinodo, dal titolo: Matrimonio e famiglia. Prospettive pastorali di undici cardinali. Tra i firmatari anche Camillo Ruini e Carlo Caffara, oltre a Cleemis, Cordes, Duka, Eijk, Meisner, Onaiyekan, Rouco Varela, Sarah e Urosa Savino.

I passaggi - Gli undici, insomma, non lasciano spazio alle aperture di Francesco. Secondo Cordes, per esempio, "l'ordinamento della Chiesa deve restare fedele al Vangelo e non ha il diritto di deformarlo". E ancora: "I divorziati risposati - attacca - hanno infranto un inequivocabile comandamento di Gesù e vivono una situazione che contraddice in maniera oggettiva il volere di Dio. Ecco perché non possono ricevere l'eucarestia". E sempre sul tema della divorzione ai divorziati, il "no" più netto arriva dal cardinale Eijk, arcivescovo di Utrecht: "Una volta accettata - spiega -, accetteremo pure che il mutuo dono degli sposi non debba essere totale, né a livello spirituale né a livello fisico. Conseguentemente - prosegue - saremmo costretti a cambiare la dottrina della Chiesa riguardante il matrimonio e la sessualità".

Il sogno proibito della Boccassini La "poltronissima" che vuole Ilda

Milano, tre in lizza per il posto di procuratore generale: c'è anche Ilda Boccassini




Una lotta a tre a palazzo di giustizia, a Milano. Una lotta tra i protagonisti degli ultimi vent'anni di inchieste. I nomi: l'arcinemica del Cav, Ilda Boccassini, napoletana di 65 anni; Francesco Greco, altrettanto napoletano, 64 anni; Alberto Nobili, romano, 63 anni. Il trio è in lizza per il posto di procuratore capo a Milano, la poltrona che il prossimo 16 novembre Edmondo Bruti Liberati, grande protagonista - al pari di Ilda - dell'inchiesta Ruby dovrà lasciare. Una poltrona che come ricorda Il Giorno fu di Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio e Manlio Minale. Bruti, da par suo, ha appena confermato: il 16 se ne andrà, una decisione anticipata in una lettera ai colleghi spedita quest'estate. Un tempismo perfetto, quello scelto da Bruti per lasciare la poltrona: il 7 dicembre, infatti, la Boccassini compirà 66 anni, superando il limite anagrafico imposto per accedere a nuove cariche direttive. Il bando per diventare procuratore capo sarà aperto a breve, e i candidati avranno tempo fino al 15 ottobre per proporsi. Secondo Il Giorno, infine, oltre ai tre nomi resterebbe una quarta possibilità: un "Papa straniero", un procuratore capo che arrivi da fuori, una possibilità resa un poco più concreta dai dissidi degli ultimi anni tra Bruti ed Alfredo Robledo. Un "Papa straniero", dunque, per domare le correnti del pool di Milano. Tra poche settimane, il v
erdetto. Ilda, intanto, spera.

domenica 27 settembre 2015

La Rai in ginocchio da Matteo Renzi Dagli Usa, i numeri della vergogna

Matteo Renzi alle Nazioni Unite: la Rai gli manda cinque giornalisti al seguito




Non c'è due senza tre, si dice. E così, dopo i precedenti di Israele e Australia (dove la delegazione di inviati Rai costò alle casse pubbliche circa 60mila euro), ecco arrivare gli Stati Uniti. Per la missione all'Onu del premier Matteo Renzi, infatti, la televisione di Stato ha mandato a New York la bellezza di cinque giornalisti, con tanto di operatori al seguito. Come scrive "Il Fatto Quotidiano", ci saranno inviati del Tg1, Tg2, Tg3, RaiNews24 e Radiogiornale Rai.

Senza considerare che nella Grande Mela, viale Mazzini ha già due corrispondenti fisse: Tiziana Ferrario e Giovanna Botteri. "Ma le due corrispondenti, in questi giorni, stanno seguendo il viaggio di Papa Francesco. E poi nessuno vuole rinunciare a una immagine del premier" è la giustificazione della Rai riportata dal quotidiano di Marco Travaglio. Ironico, con uno dei suoi tweet, Maurizio Gasparri di Forza Italia: "Rottamazione, cambiamento, tagli di spesa, giù le mani della politica dalla Rai... le chiacchiere. Questa è la realtà". La 'triste' realtà, viene da dire.