Onu, eurobalzello su transazioni bancarie per aiutare i profughi
di Andrea Morigi
Arriva la tassa sugli immigrati. Parte da lontano, dal Palazzo di Vetro di New York, ma promette di colpire i pochi cittadini europei che hanno ancora qualche soldo residuo da investire.
A partorire l’idea, neppure tanto originale e innovativa, è il vice-segretario generale delle Nazioni Unite, il francese Philippe Douste-Blazy, insieme a Giusi Nicolini, il sindaco di Lampedusa.
La affidano a The World Post, intervenendo a gamba tesa nel dibattito sulle politiche comunitarie di accoglienza, nel bel mezzo dell’emergenza rifugiati. Il progetto, spiegano, è reperire fondi da destinare a un “piano Marshall” per risolvere la crisi dovuta ai flussi migratori, attraverso l’imposizione fiscale su transazioni e strumenti finanziari.
Comunemente, quello strumento va sotto il nome di Tobin Tax, perché nel 1972 fu l’economista keynesiano James Tobin a proporlo per primo. Grande trovata, che valse allo studioso anche un premio Nobel. Peccato che quasi nessuno abbia poi voluto metterla in pratica. Da allora è oggetto di acceso dibattito fra i suoi fautori e i suoi critici. Di fatto non si è mai raggiunto il consenso generale, necessario a rendere la misura efficace in tutto il mondo. Non avevano considerato, i geni del prelievo forzoso, che alla notizia di una tassazione aggiuntiva in una piazza finanziaria gli investitori sarebbero prontamente fuggiti verso mercati meno esosi oltre che più redditizi.
Se non che, in questo controverso campo, l’Italia si pone all’avanguardia, con la legge 228 del 2012, entrata in vigore il primo marzo 2013, al crepuscolo del governo presieduto da Mario Monti. Quanto alla sua efficacia, è già abbastanza eloquente il gettito: circa 300 milioni di euro l’anno, ben al di sotto delle aspettative del Tesoro, che inizialmente stimava almeno un miliardo e 200 milioni di introiti per l’Erario e poi ha sistematicamente ridotto le pretese. Se le allineassero alla popolarità della tassa, arriverebbero a zero. Anzi, sotto zero, perché la sua applicazione ha coinciso con un crollo del volume d’affari da 184 miliardi, per limitarsi alla Borsa italiana.
In Francia, il secondo partner europeo ad avere introdotto la Tobin Tax, le cose non sono andate meglio. Tanto che nei palazzi di Bruxelles si è ormai smesso di parlarne.
Eppure sono proprio un’italiana, la Nicolini, e un francese, anzi l’ex sindaco cattolico di Lourdes ed ex ministro degli Esteri nel governo de Villepin fra il 2005 e il 2007, Douste-Blazy, a tornare alla carica. La loro intenzione è di colpire tutti i 28 Paesi comunitari, con una percentuale dello 0,1% sulle compravendite di titoli azionari e obbligazionari, riservando invece un più modesto 0,01% ai prodotti derivati. Equivale a dire che si privilegiano i grandi capitali alla George Soros con una tassazione più leggere, accanendosi invece con un carico dieci volte superiore contro privati e famiglie che affidano i loro risparmi ai gestori e alle banche.
Sarebbe perfettamente inutile rispolverare una proposta del genere, se non si trattasse di «prevenire un pericoloso aumento di razzismo e xenofobia». Con quel pretesto, potrebbe passare qualsiasi patrimoniale. Per sbaragliare ogni resistenza è sufficiente accusare chi vi si oppone di volere lo scontro di civiltà.
L’attuale tentativo di mettere le mani nelle tasche dei contribuenti europei si nasconde dietro una facciata umanitaria: il 25% degli incassi dovrebbero tornare ai Paesi d’ingresso dei migranti, sotto forma di assistenza finanziaria e tecnica, come proposto dall’Ocse, mentre una metà andrebbe nel Terzo Mondo, come aiuti alimentari, assistenza sanitaria, igienica ed educativa. Al rimanente 25%, i proponenti non fanno nemmeno cenno. Ma Douste-Blazy, che ricopre la carica di consigliere speciale dell’Onu per le fonti innovative dei finanziamenti allo sviluppo, certamente potrà dispensare qualche suggerimento su come spenderli.
In ogni caso, sostengono i due firmatari, è «l’unica soluzione che renderà possibile accogliere rifugiati politici con dignità e integrarli nelle nostre società» e allo stesso tempo consentirà di «evitare l’enorme ondata migratoria che incombe per la distanza sempre più larga fra i ricchi e i poveri, in un’epoca in cui la comunicazione è sempre più globalizzata».
È un’utopia che, per una strana concezione della funzione sociale della proprietà, confusa con la politica della sostituzione etnica, farà trasferire agli stranieri i guadagni dei cittadini europei.