Alla firma del “Buongiorno” il prestigioso premio fondato da Montanelli, Biagi e Bocca “Oggi l’attenzione è sbriciolata, i quotidiani non sono più vangelo. Ma c’è bisogno di voci autorevoli”
a cura di Beniamino Pagliaro
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Mario Calabresi e Massimo Gramellini sono il direttore e il vice direttore del quotidiano «La Stampa». In questo dialogo affettuoso ricordano i loro inizi
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È iniziato tutto dal Toro, e da un mal di denti, e oggi Massimo Gramellini riceve il premio è Giornalismo. Un dialogo con il direttore della Stampa, Mario Calabresi, intreccia inizi di carriera e grandi attese in cerca della notizia, fino ai consigli a chi comincia oggi un mestiere cambiato e «totalizzante». Gramellini non conosceva nessuno «nel mondo dei giornali». «Un’estate fui costretto a restare a Torino in agosto per un mal di denti - racconta Gramellini -, andai a vedere una partita del Toro con Alberto Pastorella, che scriveva per il Corriere dello Sport. Arrivato a casa scrissi degli appunti, e glieli diedi, per gioco. Lui li fece leggere al caporedattore, Enzo D’Orsi, il quale commentò: “Questo qui o è un genio o è un cretino”. Poi aggiunse: “Una cosa non esclude l’altra”».
Gramellini aveva 25 anni e si stava per laureare in giurisprudenza. Un mese dopo fu chiamato al giornale. «D’Orsi mi accolse con un discorso memorabile: “Tu sarai un collaboratore esterno, i pezzi li scrivi a casa e ce li dai attraverso lo zerbino. Non puoi superare la porta della redazione. Le notizie sono pagate mille lire, i pezzi cinquemila. Non hai nessuna possibilità di avere un aumento. Non hai nessuna possibilità di diventare collaboratore fisso”».
«Quello di essere assunti è un periodo ipotetico dell’irrealtà. E anche nel caso disperato in cui un giorno tu diventassi giornalista, sappi che questo è un mestiere di merda. Allora che fai, accetti?”. Io dissi di sì».
Calabresi: Il più grande motore della mia passione giornalistica è stato proprio leggere i giornali, affezionarmi alle firme, fare ritagli. Già al liceo ero pieno di ritagli. Mi piacevano le storie americane di Furio Colombo, di Vittorio Zucconi, i primi racconti che faceva Gianni Riotta, le storie di cronaca. Uno degli incontri più stupefacenti è stato quello con Indro Montanelli. Ricordo una sua frase che misi anche nel primo editoriale quando diventai direttore de La Stampa: «I giornalisti sono al servizio dei giornali, e i giornali sono al servizio dei lettori. Chi pensa il contrario farebbe bene a cambiare mestiere».
Gramellini: Tu avevi i ritagli, io avevo la libreria di mio papà. La parte centrale era coperta da un vetro, con i libri che non dovevano prendere polvere: l’intera storia d’Italia di Montanelli, l’intera geografia di Biagi, e tutti i libri di Bocca sull’Italia e sul terrorismo: i tre fondatori del premio è Giornalismo. Per me erano i tre miti, a cui aggiungerei un quarto, Gianni Brera con la Storia critica del calcio italiano. Il momento della consacrazione professionale fu nel 2000: avevo cominciato il Buongiorno da un anno, e mi cercò Montanelli. Mi fece i complimenti: «Vedi, quelli come noi non devono fare gli editoriali, per cui serve il panno curiale. Quelli come noi devono fare i corsivi, gli elzeviri». Di questa frase quel che mi colpì era ovviamente quel «quelli come noi». Mi aveva messo nel suo stesso gruppo!
Calabresi: Beh, quel giorno sei cresciuto di venti centimetri! Oggi guardiamo a Biagi, Bocca e Montanelli e ci rendiamo conto che il giornalismo tradizionale ha un impatto sulla società inferiore a un tempo. Ma la caratteristica del nostro tempo è che l’attenzione è sbriciolata, non ci sono più i quotidiani come cattedrali che ogni giorno distribuiscono il loro vangelo. Oggi ci sono mille rivoli che portano informazione. Ed è anche finito un modo di essere giornalisti che io ho soltanto intravisto. Un maestro, anche in maniera scherzosa, è stato Gian Antonio Stella. Quando ero un giornalista dell’Ansa imparai subito che c’era poca letteratura, ma molta praticità, asciuttezza e velocità. Stella mi dava il tormento: bisognava svegliarsi presto la mattina, aver letto tutti i giornali, essere i primi ad arrivare in Parlamento. Per un lungo periodo mi telefonava alle sette per vedere se fossi sveglio.
Gramellini: Anche oggi, nonostante tutte le rivoluzioni digitali, vai a cercare la voce di un testimone autorevole, affidabile. Anch’io da lettore continuo a guardare le firme, sono un punto di riferimento, una certezza. Il vero valore aggiunto di un giornale è nelle firme, quelli che lo pensano e lo scrivono.
La comparsa dell’«io»
Gramellini: Negli ultimi anni è anche crollato un grande tabù: quello di non usare mai l’«io». Una volta era vietato. Un esempio emblematico del cambiamento è stato Terzani: dopo una vita da inviato, fa un libro sulla propria malattia, tutto in prima persona. Un esempio ancora più eclatante è Gomorra: Saviano non racconta niente di inedito, le cose che ha detto erano anche in libri già usciti, però non li aveva letti nessuno. Così il giornalista diventa l’io in cui il pubblico si identifica.
Calabresi: Il rapporto con il lettore è cambiato anche con la Rete: il lettore cerca un’esperienza e vuole che il contenuto abbia un autore, che quella persona sia credibile, affidabile. Un giornalista che è perfettamente al passo con i tempi è Domenico Quirico, anche se Domenico è quanto di più lontano dalle nuove tecnologie uno possa immaginare. È un inviato vecchio stile, ma si infila nell’acqua della realtà e la racconta. Quando prende il barcone dalle coste del Nord Africa e naufraga davanti a Lampedusa, il lettore è insieme a lui. Non è un caso che anche online i suoi pezzi siano tra quelli che hanno i tempi di lettura più lunghi. Le persone riconoscono l’esperienza, la credibilità: si fidano e ti seguono.
Sempre meglio che lavorare
Calabresi: Penso che il giornalismo non sia un lavoro, è un mestiere. Sono felice di averlo fatto e lo rifarei altre cento volte: è un modo di vivere. Cammino per strada e guardo la realtà con le lenti del giornalismo, e non riesco a smettere, mi sembra che tutto sia giornalismo. È totalizzante, la gioia che ti dà riuscire a capire una cosa, avere un’intuizione. Tra le cose più noiose della vita ci sono le attese, ma poi ripenso a quelle che hanno portato a una notizia, e ritrovo alcune delle gioie più grandi.
Gramellini: Qual è stata l’attesa più lunga?
Calabresi: Nel 1998 andavo all’alba sotto casa di Cossiga per capire se sarebbe nato il governo D’Alema. Ero sicuro che la nascita del governo sarebbe avvenuta là. Aspettavo e aspettavo, finché un giorno alle sette vidi uscire Minniti dal portone. Suonai a Cossiga, lui mi offrì il caffè, e gli dissi di aver visto tutto. Inizialmente negò, era sorpreso: «Ma l’ho fatto venire alle sei del mattino!». Risposi che da giorni ero sotto casa sua alle sei. «Allora ti meriti che ti racconti che sta per nascere il governo, con il mio sostegno. Questo per me è il vero compromesso storico». Avevo la mia notizia.
Gramellini: Una mia attesa lunghissima fu sempre nel 1998, quando Murdoch andò a casa di Berlusconi in via dell’Anima. Minzolini scoprì la notizia e mi disse di andarci. Stetti da solo sotto casa dalle nove del mattino alle otto di sera. Non avevo più alcuna speranza, e invece Murdoch scese e riuscii a fare tre battute. Altre grandi attese furono quelle sotto la casa di Maradona a Napoli: mi infrattavo tra i cespugli. Vedevo il retro del bagno e della camera di letto di Maradona: ho visto cose che voi umani... però non c’erano ancora i telefonini per scattare le foto.
Calabresi: Quali sono i difetti della categoria? Penso che per dare un futuro al giornalismo dovremmo partire dai difetti. Il più grosso secondo me è il cinismo, l’idea che l’unico motore di curiosità giornalistica possa essere l’indignazione.
Gramellini: Sono d’accordo e aggiungo: la maggioranza dei giornalisti non vive a contatto con i lettori, ma con il potere da cui prende le notizie. Inevitabilmente finisce per scrivere pensando ai potenti. E questo è il modo per allontanare il lettore. Si accorge se parli a lui o a qualcun altro. La cartina al tornasole è in libreria: giornalisti che hanno un’enorme popolarità nei giornali fanno un libro e non lo compra nessuno.
Calabresi: Massimo, consiglieresti a un ragazzo di fare il giornalista oggi?
Gramellini: È sempre più difficile. Per Montanelli e Bocca fare il giornalista era come essere una star. Per noi è un mestiere, il rischio in futuro è di diventare degli impiegati. Io dico: sì fare i giornalisti, ma non dentro a un giornale, bisogna trovare uno spazio esterno, dove poter avere sempre la propria voce. Non bisogna fare quello che fanno gli altri meglio degli altri. Non basta. Devi fare meglio che puoi qualcosa che non ha ancora fatto nessuno.
Calabresi: Io sono più ottimista, e mi spaventa per i ragazzi l’idea di stare fuori dai giornali, perché corrisponde alla difficoltà di sopravvivere. Gli spazi ci sono e ci saranno ancora nelle organizzazioni giornalistiche, ma penso che i ragazzi debbano imparare a essere figli del loro tempo. Quando io andavo in vacanza a diciotto anni e speravo di fare il giornalista, avevo le cartoline e le telefonate. Oggi un ragazzo comunica le emozioni con foto, video, testi, su Facebook e Whatsapp. Deve diventare un professionista del modo di comunicare di oggi.