Il ritorno del Compagno G sempre fedelissimo al partito
di Luca Fazzo
La parabola di Greganti: negli anni Novanta la condanna per tangenti da amministratore del Pci-Pds, poi la nuova vita da consulente. Fino all'endorsement per Renzi e Chiamparino
Andò così. Che quel branco di lupi che erano i cronisti di Mani Pulite annusarono l'arrivo di un mandato di cattura sul fronte del Pds, e andarono dal giudice Ghitti a chiedergli: chi arrestate? E quello, sibillino: «Uno col nome che comincia per G». Nacque così la leggenda del «compagno G», il pomeriggio del 27 febbraio 1993. Prima ancora del suo arresto le cronache lo definivano «militante di scarsa fama ma di sicura fede». Due mattine dopo, lo arrestarono nel corridoio dell'ufficio di Ghitti. I cronisti si trovarono davanti un tipo «tarchiato, un po' sovrappeso, la barba brizzolata e il giubbotto sportivo gettato sulle spalle». «Li ha presi per sé o per il partito?», fecero in tempo a chiedergli prima che lo portassero via. Lui non rispose. E nei ventun anni successivi ha continuato a non rispondere.
Adesso che in nome di una desolante ciclicità della storia italica Primo Greganti è tornato in galera, sarebbe bello andare aldilà del cliché che in tutti questi anni gli è rimasto addosso, il comunista tutto d'un pezzo che si fa la galera senza cantare, e si immola per la causa incassando la condanna a tre anni di carcere. Ma come si fa? Ognuno è il marchio che gli cuciamo. Lui, il «compagno G», il suo marchio ha cercato in questi anni di scrollarselo di dosso in tutti i modi, sostenendo di non avere parlato solo perché non aveva nulla da dire, e che la vera storia di quei 621 milioni di lire girati sul conto «Gabbietta» da un manager del gruppo Ferruzzi era davvero una storia tutta sua, privata, soldi destinati a vaghi appalti in Cina e non a oliare il burosaurico apparato di Botteghe Oscure. Ma chi ci crede, chi ci ha mai creduto? I primi a non crederci erano i militanti del partito, che quando dopo la scarcerazione lo incrociavano ai festival dell'Unità si alzavano in piedi ad applaudirlo come un reduce se non un eroe.
Sono passati vent'anni, e lui non è cambiato. Ingrigito, ancora più cicciotto, questo sì. Ma sempre lì, dalla stessa parte, comunista e poi diessino e poi piddino, fino alla intercettazione di questi giorni «adesso voto Renzi», non c'è evoluzione o involuzione che non lo abbia visto d'accordo; d'altronde lui è uno di quelli «che condividono le decisioni del partito prima ancora che vengano prese» (copyright Fortebraccio): ma forse anche questo è un cliché, e Greganti è semplicemente un signore con i piedi per terra, consapevole che l'unica speranza di sopravvivenza per il suo partito è andare avanti, svecchiarsi. Di questa necessità di sopravvivenza fanno parte in fondo anche le esigenze di cassa di cui lui si è sempre fatto carico, a costo di defatiganti trattative con i compagni della Germania Democratica e con Paola Occhetto, sorella anch'essa baffuta del segretario del partito.
Greganti riappare lì dove lo avevamo lasciato, in quella terra di nessuno che sta a metà tra la politica e il business, e che è il suo vero terreno di militanza. Nella sua Torino, dove si era speso pubblicamente per la campagna elettorale di Chiamparino, ultimamente lo davano attivo nel campo dei lampioni intelligenti, che cosa siano esattamente non si sa, ma di sicuro vanno venduti alle amministrazioni pubbliche. Lui, a chi gli chiedeva quale fosse il suo lavoro, rispondeva: quello di sempre, consulenze, intermediazioni d'affari. E faceva capire che più che finanziare il partito gli stava a cuore oggi quadrare il bilancio familiare, reso traballante dalle sue irrequietezze. Ma al richiamo della foresta, al fare da pontiere tra casse pubbliche e casse di partito o di area non si resiste: e cosa quindi meglio dell'Expo, di cui nelle intercettazioni Greganti dimostra di sapere tutto o quasi tutto, e parla con precisione da tecnico di appalti, consorzi, partiti. Lo fa per se stesso, per la sua società che si chiama Seinco e che campa dell'1 per cento sulle commesse che procura; ma in questo modo, dicono i pm, «rappresenta gli interessi illeciti delle cooperative che rappresenta».
A conoscerlo, è un tipo simpatico che quando gli chiedi come è andata davvero la faccenda di Mani Pulite risponde: «Alla fine ho vinto io».
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