Marchi Igp, la verità sulla provenienza geografica in etichetta: non tutti la...
di Attilio Barbieri
Un manicomio chiamato Indicazioni geografiche protette. Il marchio Igp indica i prodotti agricoli e gli alimenti per i quali una ben determinata qualità, la reputazione o un'altra caratteristica dipende dall'origine geografica. Si tratta di ortaggi, frutti e preparazioni alimentari la cui produzione o trasformazione avviene in una zona ben precisa d'Italia. Può trattarsi di una o più province ma anche di un' intera Regione, come nel caso dell' olio extravergine Toscano Igp. Tutte le referenze alimentari che si fregiano del bollino Igp - distinguibile per i colori giallo e blu - devono avere un disciplinare di produzione che regola tutto: il luogo di trasformazione, gli ingredienti, la ricetta, la tradizione storica. O almeno, dovrebbe regolare tutto. Già, perché in realtà è così fino a un certo punto.
Ma andiamo con ordine. Per i prodotti agricoli tal quali, ad esempio il cappero di Pantelleria, la castagna di Cuneo, la cipolla rossa di Tropea, in effetti, leggendo il disciplinare è possibile individuare la zona di origine senza ombra di dubbio. Con le preparazioni alimentari accade esattamente il contrario. A complicare la ricerca, poi ci sono le fonti. Non tutti i disciplinari sono accessibili sul sito web dei consorzi di tutela. Così, l'unica fonte certa è il portale della Commissione europea. Ma vi si trova un po' di tutto: disciplinari dattiloscritti e salvati in formato immagine, domande in cui i consorzi chiedono il riconoscimento dell'indicazione geografica, modifiche ai disciplinari più datati, elencate però in maniera tale che per capire di cosa si tratti bisogna salvare sul proprio computer il documento in formato pdf e poi aprirlo. In caso di cambiamento del disciplinare di partenza può accadere anche di non trovare il nuovo emendato, ma soltanto le modifiche successive.
Un vero manicomio, insomma. Ma è soltanto l'inizio. Non c'è un disciplinare uguale all'altro, né come forma grafica né tantomeno come disposizione dei contenuti. Se poi li si legge per capire quale sia l'origine delle materie prime utilizzate, c'è da farsi venire il sangue alla testa. Tranne pochi casi, tre o quattro in tutto, trovare il luogo di coltivazione o allevamento degli ingredienti utilizzati, assomiglia molto ad una caccia al tesoro. Incredibile, visto che la materia prima, oltre al luogo di trasformazione e alla ricetta tradizionale, è uno dei tre elementi su cui si può basare la concessione dell' indicazione geografica. E per prodotti nel cui nome c' è quasi sempre il toponimo del luogo a cui fanno riferimento, non è poco.
La situazione è quella che si può vedere nella tabella pubblicata in questa pagina che comprende le Igp più diffuse e le più note sulle 123 indicazioni geografiche riconosciute dalla Ue al nostro Paese. Sulle 22 che ho censito solo tre, l'Aceto balsamico di Modena, la Finocchiona e il Lardo di Colonnata, dichiarano in maniera chiara e comprensibile l'origine interamente italiana degli ingredienti. Negli altri casi ho avuto difficoltà perfino io, che vivo di etichette, a capire la loro provenienza. Fa eccezione il Prosciutto di Norcia che scrive papale papale: «Non vi è limitazione geografica all'origine dei suini». Possono arrivare cioè da ogni parte del mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi l'indicazione dell' origine è del tutto assente. E non scriverla, nella semiotica comunitaria, equivale a dire che non sussiste alcun vincolo.
Devo confessare che non mi meraviglia per nulla la provenienza forestiera della carne utilizzata per la Bresaola e la Mortadella Bologna. Se ne parla da tempo. Mi stupisce, invece, che la celebratissima Pasta di Gragnano si possa fare con farina importata. Come la Burrata di Andria può utilizzare latte proveniente da ogni dove.
C'è poi un vero e proprio giallo. Quello della Coppa di Parma, un salume cha ha ottenuto il bollino giallo-blu meno di sei anni fa. Nel disciplinare scaricabile sul portale della Commissione europea si parla di «carni provenienti dal tipico suino pesante italiano», mentre nel disciplinare consultabile fino a venerdì mattina (ora la pagina è offline) sul sito del consorzio di tutela, coppadiparmaigp.com, non c'era un riferimento esplicito alla provenienza della carne. E altre versioni del medesimo disciplinare accessibili sul web parlano di «suini nati in Italia e macellati nel territorio riconosciuto per le Dop Prosciutto di Parma e Prosciutto San Daniele».
Se si trattasse dei «finti salumi» made in Italy che affollano i banconi dei supermercati, sarebbe naturale non riuscire a risalire al luogo di allevamento dei maiali. Da una Igp mi aspetterei ben altro.