Hikikomori, chi sono e cosa fanno i giovani geni chiusi in casa
di Alvise Losi
Non c'è una parola italiana per dirlo. E per spiegarlo servirebbe una frase intera: persona, spesso giovane, che decide di autoescludersi dalla società per vivere reclusa nella propria stanza per mesi, anni o anche tutta la vita. Un po' lungo. Per questo ci si riferisce a questi adolescenti come hikikomori, che in giapponese significa appunto «isolarsi». In Giappone gli hikikomori sono almeno mezzo milione e i primi casi sono noti dagli anni Ottanta e si parla già di seconda generazione, perché la prima è composta da adulti ormai di 40 o 50 anni.
In Italia invece è un fenomeno relativamente recente e, soprattutto, ben poco conosciuto persino dagli psicologi e dagli addetti ai lavori. Anche se in base alle stime degli addetti ai lavori i casi potrebbero essere tra i 30mila e i 50mila. Spesso gli hikikomori passano molto tempo online sul computer e per questo la loro patologia può essere scambiata come una dipendenza, da Internet nel caso specifico. O ancora l' idea di reclusione può essere associata a una forma di depressione. Ma non sono né depressi né dipendenti, perché togliendo loro Internet o il computer hanno una reazione negativa ma poi iniziano a fare altro. Sempre nella loro stanza.
LE CAUSE
Non esiste un identikit dell' hikikomori. Ogni persona ha la sua storia ed essendo un fenomeno che dipende molto dalla cultura del proprio Paese, i casi possono essere diversi. Anche se alcuni punti in comune ci sono: oltre all' isolamento, spesso uno dei primi sintomi sono le assenze da scuola. Non di nascosto e all'insaputa dai genitori, ma per un rifiuto dichiarato. In Giappone, dove è stato effettuato un censimento e il fenomeno è studiato da anni, i dati parlano di una prevalenza nei maschi rispetto alle donne, con un rapporto di nove a uno. Inoltre nella maggior parte dei casi si tratta di figli unici o primogeniti investiti di grandi responsabilità e aspettative da parte della famiglia, che spesso è di un livello sociale alto. Ma è anche vero che la società giapponese è molto meno individualista di quella occidentale e lì il peso di dover avere un determinato ruolo nella collettività può essere più difficile da sostenere», spiega Marco Crepaldi, psicologo sociale che ha studiato il fenomeno e ha fondato il blog Hikikomori Italia (www.hikikomoriitalia.it) per supportare i ragazzi e le loro famiglie. «In Italia molte storie sono accomunate da episodi di bullismo, che probabilmente da noi è una delle cause principali di questo fenomeno. I ragazzi non riescono ad affrontare il peso della scuola e magari la portano a termine con grandi fatiche e quando arriva il momento di inserirsi con atteggiamento proattivo nella società si spengono e non riescono più a fare nulla».
L' ESCLUSIONE
Uno dei problemi principali è la scarsa conoscenza che si ha del fenomeno in Italia, persino tra gli addetti ai lavori. «Molto spesso quando si va a parlare nelle scuole si scopre che ci sono degli hikikomori che non sapevano nemmeno di esserlo e magari semplicemente pensavano si trattasse di qualcosa che avevano solo loro», continua Crepaldi. «Ci sono tante sfumature di hikikomori, non si tratta di una patologia e non è possibile etichettarlo.
È una tendenza, più o meno marcata, all'isolamento. Un impulso a non voler far parte della società. E può essere in fase avanzata o iniziale, ma non va considerata una categoria chiusa solo per chi ha un problema molto grave. Anzi, prima viene capita più è possibile agire. Ho creato una chat a partire dal mio blog (www.hikikomoriitalia.it) dove i ragazzi parlano tra di loro e si sentono inclusi. Ci sono anche alcuni che mi hanno contattato e raccontato la loro storia e ne sono usciti e vogliono aiutare gli altri. Per i ragazzi è più importante trovare il modo di sentirsi meno soli, mentre i genitori hanno l'esigenza di trovare una soluzione».
COME INTERVENIRE
Non esistono percorsi certi e sicuramente efficaci per fare in modo che un hikikomori esca dal suo isolamento: ognuno fa storia a sé. Ma in Giappone hanno capito che è più efficace un' azione territoriale di sensibilizzazione su ragazzi, famiglie e comunità che interventi sui giovani che si isolano. «Non esiste una bacchetta magica», conferma Crepaldi. «Non basta una seduta psicologica a settimana o spostarsi dove ci sono enti che si occupano del fenomeno, come a Milano o a Roma, con costi economici e sociali molto alti e spesso anche inutili. L'obiettivo dovrebbe essere fornire interventi in ogni territorio, come a Cuneo dove è stato attivato un programma a livello comunale. Anche perché, nonostante manchino dati precisi, la diffusione è nazionale e non riguarda solo le grandi città dove magari può essere più difficile integrarsi nei meccanismi di una società sempre più competitiva.