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sabato 23 gennaio 2016

"Danni neurologici ai bimbi italiani" Allarme a scuola: cosa rovina tuo figlio

"Danni neurologici ai bimbi italiani". Allarme a scuola: che cosa li rovina




I tablet a scuola? Provocano "demenza digitale" e gravi danni neurologici ai bambini, incapaci di scrivere a mano, specialmente in corsivo, e soggetti più facilmente a cali di attenzione e di autostima.

Posizioni - Tra i tecno-diffidenti c'è il regista Michael Moore, secondo cui il corsivo è uno stimolo alla creatività: "Non ci togliete l'unica cosa che tutti siamo in grado di fare ed è unica per ciascuno di noi. Il corsivo è l'impronta digitale della nostra creatività". Anche uno dei riferimenti accademici italiani, il professor Benedetto Vertecchi, difende a spada tratta la scrittura a mano. L'ha scritto in un recente dossier Alfabeto aperto. A proposito dei cosiddetti "nativi digitali", ovvero quelli nati dopo il '95 in poi, il neuroscienziato Manfred Spitzer coniò l'espressione "demenza digitale": "Quando si dichiara che a scuola si studia meglio grazie ai media digitali, non bisogna dimenticarsi che non esistono dimostrazioni di questa tesi. Anzi. Ci sono molte più ricerche che affermano quanto l'apporto della tecnologia informatica abbia un effetto negativo sull'istruzione". Il Giorno, che si è occupato della questione, ha sottolineato come il tema della scrittura a mano è delicatissimo e non si tratta di fare crociate contro i supporti digitali, ma di preservare le abilità e le competenze legate all'esplorazione fisica e mentale del mondo.

Scrivere a mano - Migliora la capacità di leggere e contare, potenzia l'attenzione e la facoltà di apprendimento. Stimola il pensiero critico, aiuta a costruire buone relazioni, incoraggia ad uscire dall'anonimato, migliora le capacità motorie e tante altri sono gli effetti positivi che la scrittura a mano si porta dietro. La diagnosi diventa difficile ma "l'uso dei mezzi digitali comporta l'attenuazione e talvolta la perdita delle capacità di coordinare il pensiero con l'attività necessaria per tracciare i segni", aggiunge Il Giorno.

Usa - Ma l'allarme "spaventoso" arriva dagli Usa. I bimbi non sanno più leggere il corsivo, viene insegnato solo in prima elementare. In seguito a questa ricerca che ha rilevato segnali negativi dopo l'introduzione dei tablet nelle scuole è stata creata una campagna per il corsivo proprio contro la linea federale in corso negli Usa. Sheila Lowe - scrittrice, grafologa e portavoce della Campagna per il corsivo - ha rilasciato un'intervista a Il Giorno sulla tragica questione: "La direttiva federale è stata adottata da molti stati. Alcuni, consapevoli del "danno" stanno indietreggiando e noi stiamo cercando di incoraggiarli a non smettere di insegnare il corsivo". "La scuola l'ha rifiutato perché a sua volta anche gli insegnanti hanno difficoltà con la scrittura e così si rifiutano di insegnarlo" - dice la portavoce - "Gli insegnanti non conoscono i rischi. Negli ultimi anni c'è stato un enorme aumento dei disturbi di apprendimento nei bambini". Alla domanda se esistono prove scientifiche di quanto si sta dicendo, la scrittrice menziona gli studi di Virginia Berninger e Karin James: hanno dimostrato che il cervello si "illumina" in più aree quando si scrive in corsivo, al contrario di quando si scrive con la tastiera. Sheila non esclude lo zampino dell'industria informatica, rispetto alla questione: "Mi risulta che Bill Gates abbia fatta pressione sul sistema educativo per spingerlo a utilizzare maggiormente il computer". La questione è tenere - per la portavoce - un posto per la scrittura a mano e un posto per i dispositivi elettronici". 

Nuova tegola sul papà della Boschi Ora rischia un'accusa pesantissima

Banca Etruria, Pier Luigi Boschi rischia un'accusa per bancarotta fraudolenta




Già indagato (e poi archiviato) per estorsione turbativa d'asta nel 2010, il papà del ministro delle riforme Pier Luigi Boschi rischia ora una accusa gravissima in merito alla vicenda di Banca Etruria, che lo vede coinvolto in qualità di ex vicepresidente dell'istituto di credito: bancarotta fraudolenta. Per sapere se sarà così, scrive il quotidiano "Il Giornale", bisognerà attendere il prossimo 6 febbraio, quando il collegio fallimentare si riunirà e certificherà lo stato di insolvenza della banca. Allora si saprà se Pier Luigi Boschi sarà o no iscritto nel registro degli indagati. Dopo quella data le carte finiranno in procura e Rossi dovrà aprire un fascicolo contro gli ex vertici dell' istituto, compreso Boschi.

Cosa devono fare a Fabio Fazio" Filippo Facci azzanna il "giornalista"

"Cosa devono fare a Fabio Fazio": Filippo Facci azzanna il "giornalista"


di Filippo Facci
@Filippo Facci1



Su un piano logico, Fabio Fazio tra qualche giorno non dovrebbe più condurre Che tempo che fa, o perlomeno non dovrebbe più fare interviste. Sì, perché Fabio Fazio è un giornalista (benché pubblicista) ma ha deciso di lasciare l’Ordine dei giornalisti per fare da testimonial pubblicitario di Tim, ciò che l’Ordine proibisce. Pare che la paga sia buona e dunque saluta. E siccome l’Ordine dei giornalisti ha più volte tuonato contro Barbara D’Urso (per esempio) proprio perché non è una giornalista, lei che pure faceva svariate interviste televisive, beh, i due, Fazio e la D’Urso, ora sarebbero pari: entrambi indegni di esercitare la sacra facoltà di porre delle domande suggerite da alcuni autori. Succederà questo? Su un piano logico e formale sì, dovrebbe.

Fazio non è stato cacciato dall’Ordine, e neppure invitato ad andarsene: si è proprio dimesso lui, segno che continua a ritenere incompatibile un cachet pubblicitario e la professione giornalistica: che dunque non eserciterà più. Fazio non ha polemizzato: è stato coerente. Lo ha fatto a suo tempo, semmai, contro la non-giornalista Barbara D’Urso che si ostinava a fare interviste che il giornalista Fazio riteneva illegittime: per tutto il 2012, sul suo profilo twitter, Fazio rilanciò pesanti ironie sugli ospiti di Domenica live (tra questi un certo Berlusconi) aggiungendo peraltro che il suo Che tempo che fa faceva invece uno spettacolo di qualità senza la presenza di ospiti chiacchierati come Berlusconi, Michele Misseri ed Eva Henger. Niente sensazionalismi e nazional-popolare sulla Raitre di Fabio Fazio: il quale, del resto, stava soltanto per condurre l’elitario Festival di Sanremo 2013.

Peccato, per Fazio: come intervistatore - pardon, giornalista - nel suo genere era anche bravo. Ma forse ha ragione lui: occorre aver passato un esame di Stato, bisogna aver studiato per porre delle domande preparate che risultino palatabili al pubblico popolare della tv generalista del weekend. Ecco perché l’Ordine giunse a promuovere una legge che punisse addirittura con la galera (più confische e multe fino a 50mila euro) chi esercitasse abusivamente la professione come faceva la D’Urso e come farebbe d’ora in poi anche Fazio, se osasse.

«La signora», spiegava uno dei tanti esposti dell’Ordine dei giornalisti, «pur non essendo iscritta all’Albo, compie sistematicamente un’attività (l’intervista) individuata come specifica della professione giornalistica... Si chiede di avviare ogni accertamento di competenza, ivi compreso quello per esercizio abusivo di una professione ai sensi dell’articolo 348 del Codice». Una denuncia penale: non è un rischio che Fabio Fazio vorrà certamente correre.

A meno che, ecco, Fazio decida di accompagnarsi con un giornalista di sostegno: nel maggio scorso, infatti, l’ennesimo esposto faceva riferimento a un’intervista che era «stata effettuata dalla signora D’Urso senza la presenza di alcun giornalista», scriveva l’Ordine, lasciando intendere che la presenza di un professionista avrebbe potuto quantomeno mitigare l’atmosfera dilettantesca dell’intervista. Chissà, magari la presenza di Checco Zalone, pardon: di Massimo Gramellini potrebbe bastare.

Non certo quella di un Fabio Volo, che pure tre anni orsono faceva reportage da tutta Europa proprio perché «inviato» dal pubblicista Fabio Fazio. E neppure quella di una Ilaria Cucchi, che pure tempo fa fu annunciata come «inviata» dalla pensosa Raitre: nonostante risultasse amministratrice di condominio.

Chissà, forse il destino incrociato di Fabio Fazio e di Barbara D’Urso potrà sciogliere una matassa che cominciò a intricarsi quando le interviste le faceva ancora Mara Venier, o le proseguì Paola Perego, o ancora Eleonora Daniele: tutte non giornaliste, aiuto, ma l’elenco è ben più lungo.

Senza contare il più complicato mondo della carta stampata, laddove tutto è più sommerso: a una prorompente intervistatrice del Fatto Quotidiano, neanche un me se fa, scappò addirittura di dire: «Quando cito nomi di aziende per colorire un pezzo, le aziende, nel giro di mezza giornata, mi riempiono di regali per ringraziarmi della citazione. Ecco, lì più che delirio di onnipotenza realizzo di avere un gran culo, perché so di essere viziata».

Radiatela subito. Tutti fuori: come la D’Urso, Fazio, Giampiero Mughini, la Venier, la Perego. Tutti fuori: compreso l’Ordine. Dalla realtà.

giovedì 21 gennaio 2016

Caso Mancini-Sarri Quel "finocchio" al Mancio, parla il Cav Le sue parole a sorpresa sul rosso Sarri

La sentenza del Cav sul "frocio" a Mancini. Le parole a sorpresa: che ha detto




Al suo Milan Silvio Berlusconi non aveva voluto Maurizio Sarri sin dalla scorsa estate. Il tecnico toscano era troppo lontano dallo stile rossonero tanto caro al Cavaliere, lui sempre in tuta che fosse un allenamento o una partita ufficiale. E poi Sarri non aveva mai fatto segreto del suo essere di sinistra, un difetto non proprio trascurabile per Berlusconi. Ma nella polemica sugli insulti "frocio" e "finocchio" partiti dal tecnico del Napoli contro quello dell'Inter Roberto Mancini, Berlusconi non ha avuto dubbi su chi difendere. Durante la presentazione del libro della giornalista Myrta Merlino, il Cav ha detto: "Sono cose che nel campo possono accadere, ma è sbagliato metterle sui giornali e renderle pubbliche". La linea di Berlusconi è la stessa espressa da Sarri subito dopo la denuncia a Raisport di Mancini. Quindi il tecnico interista secondo Berlusconi ha sbagliato: "Penso proprio di sì" ha tagliato corto e chissà che ora le porte del Milan per Sarri possano essere un po' meno chiuse.

Fino a 100 euro non è corruzione Come e perché è legale la mazzetta

Fino a 100 euro non è corruzione. Come e quando puoi pagare un agente




Non si commette reato se si offre a un pubblico ufficiale una banconota da 100 euro. Non può bastare una cifra così bassa perché si possa parlare di corruzione, almeno secondo i giudici della Cassazione. In una sentenza del 19 gennaio (la n.1935), un automobilista è stato assolto dall'accusa proprio di corruzione perché, dopo essere stato trovato alla guida in stato di ebbrezza, aveva provato a evitare la multa offrendo all'agente del posto di blocco un biglietto da 100 euro. Niente carcere per l'automobilista, perché secondo i giudici quella cifra non può provocare nel pubblico ufficiale un concreto ed effettivo turbamento e spingerlo a chiudere un occhio. Secondo la sentenza quindi, il valore di una cifra in denaro non può essere considerata in relazione alla capacità di reddito. Resta un mistero però quale debba essere la quantità di denaro necessaria perché si possa parlare di corruzione davanti a un pubblico ufficiale. E secondo l'originale sentenza della Cassazione, oltre alla taccagneria, anche lo stato di ebbrezza potrebbe salvare l'aspirante corruttore dalla galera. L'automobilista assolto, infatti, è stato ritenuto incapace di intendere e volere quando è stato fermato dal posto di blocco. Quel suo gesto di accompagnare ai documenti anche una banconota da 100 euro potrebbe essere stato involontario e irrazionale.

L'interista - L'imprenditore Starace a Libero: "Vi spiego come Flavio Carboni lavorava per papà Boschi"

L'imprenditore Starace a Libero: "Vi spiego come Flavio Carboni lavorava per papà Boschi"


intervista a cura di Giacomo Amadori



Da ragazzo spaccava ossa giocando a rugby nelle Fiamme oro della Polizia di Stato, oggi le aggiusta nei centri di riabilitazione di cui è proprietario. La voce è gioviale: «Premetto: non sono massone. Io non c’entro nulla». Inizia così la conversazione con il quarantaduenne romano Riccardo Starace, l’uomo che avrebbe dovuto trovare un direttore generale e un fondo arabo per salvare la Banca dell’Etruria. 

Lei conosce Valeriano Mureddu, il «grembiulino» indagato a Perugia per associazione segreta e amico di Flavio Carboni?  

«Non l’ho mai visto. Carboni invece lo avevo conosciuto, due settimane prima degli incontri dell’estate del 2014 di cui voi di Libero state scrivendo in questi giorni, al Piccolo mondo antico, un ristorante vicino al suo ufficio romano di via Ludovisi. Il proprietario del locale mi presentò questo signore anziano... era con la figliola». 

Lei sapeva chi fosse Carboni? 

«All’inizio no, ammetto la mia ignoranza (ride ndr). Il mio amico mi disse: “Guarda Riccardo è una persona con una grande esperienza, ti può essere utile conoscerlo”. Ho detto: “Va bene”. È cominciata così questa storia». 
Perché è rimasto in contatto con Carboni?  

«Chiacchierando gli dissi che avevo rapporti con un fondo impegnato nel settore della sanità, l’Enterprises di Sheikh Bin Ahmed Al Hamed. Allora mi parlò subito di un suo progetto, il grafene, un materiale rivoluzionario che dovrebbe servire a pulire e rendere potabile l’acqua, risolvendo il problema della sete in Africa, e mi disse di andare a trovarlo in ufficio. Il suo fu in pratica un monologo. Però prima di andare controllai su Internet chi fosse e vidi che era una persona di un certo peso per la storia dell’Italia, nel bene e nel male». 

Ha una condanna di tipo definitivo per il crac del Banco Ambrosiano ed è imputato per la P3... 

«Ecco... appunto. Si trattava di cose abbastanza delicate e visto che io ho lavorato sette anni nella Polizia di Stato, ci andai cauto. In ufficio mi coinvolse subito riparlandomi di questa storia del grafene e chiedendomi informazioni sul fondo di Abu Dhabi. Poi mi disse che c’era una banca in difficoltà finanziaria e io gli risposi: “M’informo con gli arabi”».  

Non doveva andarci cauto? 

«La verità è che io non ho avuto nemmeno il coraggio di parlare di questa cosa a Sheik Alamed, ma con Carboni non potevo essere scortese. Con me fu subito gentilissimo, avvolgente, non avevo motivo per essere scortese con lui. L’avevo visto dieci minuti al tavolo e improvvisamente mi chiedeva di salvare una banca. Le sembrerò un ballista, ma è andata così».  

Però lei non parlò solo del fondo con Carboni, ma anche del nuovo direttore generale... 

«A un certo punto, in quella chiacchierata di mezz’ora, Carboni mi accennò a una nomina da fare per la banca. Quindi mi chiese il numero di telefono e io a una persona tanto gentile come potevo negarlo? Pensavo che avrei saputo difendermi dalla sue avances... Invece iniziò a bombardarmi di telefonate, anche la domenica: mi chiedeva di questo fondo e poi di ritornare nel suo ufficio. Mia moglie in quel periodo non mi telefonava così tante volte. Poi un giorno ci siamo rivisti, casualmente, in via Ludovisi, subito dopo pranzo. Mi acchiappò sul marciapiede e mi disse: “Come stai carissimo, sali un attimo con me, ti devo parlare della posizione della banca”. E io salii con lui...». 

In ufficio c’era anche lo scienziato russo, il presunto coinquilino di Carboni? 

«Non ho mai incontrato russi in quello studio. Quando entrammo mi disse: ho delle persone che mi attendono, vieni che te le presento. Io ero nell’imbarazzo più totale».  

Chi c’era insieme a Carboni in ufficio? 

«Tutti quelli che ha raccontato nell’articolo, così facciamo prima».  

L’ex presidente Lorenzo Rosi, il suo vice Pier Luigi Boschi e l’imprenditore Mauro Cervini? 

«Sì c’erano loro tre».  

E Gianmario Ferramonti, l’imprenditore amico di Licio Gelli? 

«Non in quell’occasione, forse in altre...» 

Dove erano Boschi e Rosi? 

«Erano seduti amabilmente in una grande sala riunioni e Carboni mi ha presentato come un amico imprenditore con ottimi contatti con un fondo arabo». 

I due banchieri che persone le sembrarono? 

«Timidi e taciturni. Ricordo che erano vestiti elegantemente, con l’abito. Sembravano stupiti, quasi imbarazzati per la mia età. Probabilmente non si immaginavano un “salvatore” così giovane. Quando Boschi mi ha detto il suo cognome, visto che la figlia era appena stata nominata ministro, ho fatto due più due e ho intuito chi fosse».  

Che cosa vi siete detti? 

«Ci siamo solo salutati. Anche in quell’occasione ci fu quasi un monologo di Carboni».  

Perché hanno chiesto a lei il nome del direttore generale? 

«Non ne ho idea, ma la cosa mi lasciò incredulo. Era come se mi dicessero: tu ci trovi il fondo che porta i soldi e noi facciamo un favore a un tuo amico». 

Lei propose il vicedirettore generale della Popolare del Frusinate Gaetano Sannolo... 

«L’ho conosciuto quando era direttore della filiale della Cassa di risparmio di Firenze di cui ero cliente. Con me è sempre stato carino e corretto. Io feci il suo nome così, in modo quasi goliardico, anche se pensavo che fosse una persona giovane e dinamica. Inizialmente non avevo dato peso a quella richiesta».  

Neanche quando le presentarono Pier Luigi Boschi? 

«In quel caso rimasi veramente stupito. Dentro di me pensai: “Andiamo bene”, perché non aveva senso tutto quello che stava accadendo. Capisco che le possa sembrare assurdo, ma andò così».  

Che spiegazione si è dato? 

«Forse venni presentato a Rosi e Boschi come una persona più importante di quella che in realtà fossi. A Carboni, invece, devo essere entrato in simpatia e per questo fatto del fondo mi si era pure un po’ attaccato, questo sì».  

Quanto durò l’incontro con Boschi e Rosi? 

«Pochi minuti, meno di una decina. Poi andai via». 

Avete discusso anche del direttore generale? 

«Sulla questione venne fatto un accenno, ma non ne parlammo approfonditamente in quell’occasione». 

E quando lo avete fatto? 

«In un terzo incontro, in cui presentai il mio amico Gaetano al dottor Carboni. Sorridendo gli dissi: “Dai andiamo a sentire”. Ma successivamente Sannolo fu chiamato davvero a fare il colloquio ad Arezzo. Non ci potevamo credere. In quei giorni ci sentivamo in continuazione per scherzare. Gli suggerii di chiedere un super stipendio, pensavamo che il mondo si fosse capovolto. Il suo nome è uscito pure sul Sole24ore».  

Quella mi risulta sia stata una fuga di notizie orchestrata all’interno della banca per bruciare il nome del suo amico... 

«Lo immaginavo. In ogni caso Carboni improvvisamente cambiò atteggiamento». 

Forse perché lei gli aveva detto che il fondo non era disponibile... 

«Infatti. Da quel momento iniziò a diradare le chiamate, quindi ha proprio smesso. Non lo vedo e non lo sento più dalla fine di quell’estate».  

Non la stupì che Rosi e Boschi si fossero messi nelle mani di Carboni?  

«Molto. Mi sembrò una situazione surreale».  

Quando capì che il padre della ministra era lì a farsi consigliare il direttore generale della sua banca da lei che cosa pensò? 

«“Non è possibile”. Non ci volevo credere, era inverosimile...». 

Ha conosciuto Ferramonti l’uomo che consigliò il nome dell’altro candidato alla direzione generale, il banchiere Fabio Arpe? 

«Sì, nel 2014, a Roma, mentre ero impegnato nel lancio di un neonato movimento politico. Si presentò lui, mostrandosi interessato a quella mia iniziativa. L’ho rivisto qualche volta nella Capitale. In una di quelle occasioni incontrammo casualmente Carboni nel solito ristorante. Sembrava che i due non si vedessero da tempo e si scambiarono il numero di telefono davanti a me. Parlarono anche di questa cosa della banca».  

In pratica la Popolare dell’Etruria era una delle ossessioni di Carboni? 

«Con me ha discusso solo di quella e del grafene». 

E per salvarla si è affidato a due che aveva incontrato al ristorante? 

«Lei ride, ma all’epoca ho riso di più io. Certo non vorrei apparire come una persona incapace di intendere e di volere, ma è andata proprio così».

L'intervista - Bordate Di Battista, il grillino a Libero: l'atto d'accusa contro Boschi e premier

"Atto d'accusa alla Boschi". Di Battista parla a Libero: le bordate contro il ministro


intervista a cura di Pietro Senaldi



«Truffati di tutta Etruria, e delle Marche, e di Ferrara, e di Chieti, unitevi. Domenica si va ad Arezzo, a reclamare la restituzione dei 780 milioni di euro in obbligazioni subordinate (3,6 miliardi se si aggiunge il valore delle azioni perse; ndr) evaporati con il cosiddetto salvataggio delle quattro banche a opera del governo». Ma l'onorevole Di Battista, che ad Arezzo inaugurerà il tour di Cinquestelle nei territori delle quattro Popolari andate gambe all'aria, ha un invito particolare da recapitare. «Al ministro Boschi, che mi dicono da un po' di tempo chissà come mai si fa vedere poco o nulla nella sua città natale. Le organizziamo noi un cordone di sicurezza, non abbia timori, salga sul nostro palco e dia spiegazioni alla sua gente su Etruria e su suo papà, vediamo se avrà la stessa disinvoltura esibita in Parlamento in occasione della mozione di sfiducia e se riceverà gli stessi applausi».

Cosa chiederebbe al ministro se l' avesse sul palco?

«Beh, per esempio se suo padre è andato a piedi anche dal massone Carboni a chiedere un aiutino su Etruria, come andava a piedi a scuola da ragazzo, facendo così tanti chilometri, come la ministra ci ha spiegato nella sua accorata difesa».

È facile presumere che le risponderebbe «e io che ne so?»

«L'ufficio del massone condannato è a poche centinaia di metri da quello del ministro. Non credo che la Boschi ignorasse le puntatine romane di papà».

Il ministro difese il padre sostenendo che «è una brava persona»…

«E io non ne dubito. Ma qui sta il punto: evidentemente né lei né il padre pensano che possa esserci qualcosa di sbagliato nel bussare alla porta di una persona indagata per associazione segreta e già condannata a otto anni per il fallimento del Banco Ambrosiano e a chiedergli consiglio proprio in merito a una banca. Una vicenda incredibile, che secondo me dimostra che c' è totale disinvoltura da parte loro quando si tratta di affari».

Ma perché secondo lei si sono affidati a un massone, pure piuttosto datato, come Flavio Carboni?

«Per cialtroneria di certo. Forse anche per consuetudine. Gliel' ha presentato il vicino di casa, a sua volta massone, di babbo Renzi, questo Mureddu di cui parlate nell' inchiesta di Libero e che avete pure intervistato, che ha fatto affari immobiliari con i Renzi e conosceva anche papà Boschi…».

Il ministro a questo punto dovrebbe dimettersi?

«Per noi avrebbe dovuto dimettersi da subito. Non è una questione di condanne penali o iscrizione nel registro degli indagati, è una questione politica. Oltre che di conflitto d' interessi: la Boschi fa parte di un governo che ha bruciato i risparmi di cittadini ingannati dalla banca di cui suo padre era vicepresidente. E alzandosi dal consiglio dei ministri che decretava sulle banche, ha provato con il suo comportamento il conflitto d' interessi».

Però una figlia che si dimette per supposte responsabilità del padre ancora da accertare completamente non è eccessivo?

«Non si tratta solo di questo, ripeto. Quel che è avvenuto è chiarissimo. Delle banche fallite sono state azzerate a spese dei risparmiatori e affidate a gente di fiducia, che le rivenderà pulite al miglior offerente, sicuramente qualcuno vicino al governo. Non dimentichiamoci poi che quando a essere sfiorato dall' ombra della massoneria fu un sottosegretario di Berlusconi, Giacomo Caliendo, Franceschini e tutto il Pd insorsero chiedendone a gran voce le dimissioni».

Anche oggi una parte del Pd sembra alzare la voce contro la Boschi…

«Non ci credo, è una commedia. Speranza e compagni alzano la voce per reclamare qualche concessione dal premier. Quando l' avranno ottenuta, torneranno a cuccia. Più che altro è interessante osservare come perfino Renzi stia sfruttando le disavventure del clan Boschi, per ridimensionare l' unica persona del suo inner circle che avrebbe potuto fargli ombra e, un domani, insidiarlo».

Perché il Pd ha questo feeling con le banche?

«Di feeling non parlerei, visto che come si muovono fanno danni. Diciamo che dopo decenni di opposizione, dove restavano limitati alle Coop e alla cultura, hanno potuto assaporare il potere e ne sono stati travolti. Al punto che oggi non saprei dire se il Pd si è infiltrato nelle banche, le banche si sono infiltrate nel Pd o addirittura il Pd è diventato una banca…».

Sospetta che Banca Etruria sia servita a fare favori a qualche amico del Giglio Magico?

«Ne sono certo. I magistrati facciano luce sui destinatari dei fidi concessi da Banca Etruria quando già stava per fallire. Non vorrei che si scoprisse che tra di loro ci sono finanziatori delle fondazioni del premier. Insomma, che in parte si tratti di una partita di giro. Saremmo ai limiti dell' associazione a delinquere; forse li avremmo sorpassati».

Un' accusa pesante...

«Sì ma quando c' è di mezzo il Pd ormai non mi stupisco di nulla. Tre anni fa, prima di entrare in Parlamento, non l' avrei mai detto ma poi, avendoci a che fare tutti i giorni, mi sono reso conto che sono i principali responsabili di ogni ingiustizia del Paese».

Non crede di esagerare?

«No, perché sono campioni di disonestà intellettuale. Sono del tutto antitetici a Cinquestelle, altro che le accuse che fanno di inciuciare con loro. Berlusconi faceva meno promesse di Renzi, che ha mentito sul peso dell' Italia in Europa, su dati economici, sulle tasse, sui numeri del Jobs Act, sulla spending review, sul taglio dei vitalizi, delle pensioni d' oro, degli stipendi dei parlamentari, dei finanziamenti ai partiti…».

A proposito di promesse, i truffati rivedranno i loro soldi?

«Avranno un bonus, non credo di più. È la strategia del premier: bonus scuola, bonus cultura, bonus 80 euro. È scaltrissimo, lui non risolve i problemi, compra consenso con i bonus e ha una stampa complice che enfatizza le sue mance e le sue menzogne senza chiederne conto. Dei media così di regime non si erano mai visti. Un errore però lo sta facendo, e grosso…». Quale? «Lo stesso che è stato fatale a Berlusconi. Si circonda di mediocri, persone deboli che può controllare facilmente. Bata vedere in politica estera, fra la Gentiloni e Mogherini è una pena. Prendiamo schiaffi da tutti; anche in Libia, che è a 300 chilometri di distanza, non contiamo nulla. Berlusconi e i suoi rapporti con Putin non erano chiari ma almeno erano efficaci anche per l' Italia».