Fabio Fazio tratta con La7: quanto guadagnerà da Cairo
Funesti interrogativi scuotono la primavera, tempo di rondini sotto i tetti e di tetti sopra i cachet, e di figliol prodighi che tornano, e di contratti che scadono: Fabio Fazio va a La7? Fabio Fazio si trasferisce a Sky? Fabio Fazio s' imbuca a Discovery?
E, se sì, quanto ci perderà, «l'artista-giornalista» (straordinario ossimoro) dal suo lussuoso stipendio da 2 milioni di euro?
«Credo che sia venuto il momento di andare a disturbare la mia balenga venerdì 21 aprile...», twitta amabilmente Fabio annunciando la sua ospitata a Italia' s Got Talent, programma Sky dove siede in giuria Luciana Littizzetto, la dopolavorista Rai più pagata della storia (800mila euro per due monologhi settimanali a Che tempo che fa, senza esclusiva, of course...). E, subito, le agenzie - e la brava Antonella Nesi dell' Adnkronos - si scatenano: non è che, vista la malaparata in Rai, la banda di Fazio ora se la papperà Rupert Murdoch?
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Ed è istantanea la risposta di un' altra autorevole voce che racconta il mercato televisivo, Tv Blog: ma no, dai, hanno visto Fazio da Urbano Cairo, probabilmente traslocherà a La7, fidati. Dicono, sussurrano, suggeriscono i gossippari del video. Ah, ci mancava, il buon vecchio mercato delle vacche in tv. E intanto, come ad ogni afrore di scadenza contrattuale, l' agente di Fazio, l'inesausto Beppe Caschetto, briga, tesse trame, prende appuntamenti, prepara i cronisti amici allo scoop, fa come il Clint Eastwood di Per un pugno di dollari: alza il prezzo e tenta di piazzare la sua merce al miglior offerente.
In attesa che il 30 aprile si decida sulla limitazione agli stipendi degli artisti a 240mila euro l'anno («In Rai il silenzo ora assorda, si attende la politica...», sibilano da Endemol, la casa di produzione di Fazio) già si congettura. Le congetture tra addetti ai lavori televisivi sono meravigliose, possiedono l'antico sapore del suk. Per dire. «Anche se non sarà a stipendio pieno, magari il conduttore di Che tempo che fa potrebbe chiudere un nuovo contratto a meno della metà, 8/900mila, che è sempre tanto». O magari Cairo «lo contrattualizzerà legando il cachet allo share» - come sta già facendo per altre sue star-. O magari «si piazza a Discovery, dove c' è già, pagatissimo, Crozza» di cui s' era prima liberato Cairo perché il Crozza Show costava un accidente (300mila e passa a puntata, dicono).
O magari «Fazio potrebbe lasciare la portaerei Endemol e tentare davvero l'avventura della autoproduzione, come Michele Santoro». Che, poi, però, Santoro alla fine, non è mica andato tanto bene. Ma, allora, scusate, «se Cairo s'è già scottato con Crozza e Santoro, perché dovrebbe accollarsi il rischio di Fazio con tutta la sua allegra banda di autoroni»? Dice: Fazio, però, porta pubblicità. Vero. Finché fa il 17% su Raitre nei week end.
Ma la pubblicità segue l'ascolto, mica l'artista: siamo sicuri che Fazio possa toccare quell'audience media a La7 o a Sky? E siamo sicuri che basterà un unico palinsesto, diverso da quello di Raitre per far fare a Fazio Che tempo che fa, Che fuori tempo che fa, Le parole della settimana, il Rischiatutto, come vuole, con chi vuole, nei giorni che vuole? Ecco, cose così. I discorsi del settore, adesso, sono tutti di questo tono.
Mentre i partiti si preparano alle elezioni a botte di populismo, le star della Rai - non solo Fazio, ma anche Clerici, Insinna, Giletti - si appendono alle strategie dei loro pigmalioni e dei loro procuratori. Mi rendo conto che allo spettatore medio, passato il refolo del pettegolezzo da calciomercato, sono cose che, dopo un po', stuccano. Eppure il discorso dei cachet è sempre lo stesso. Fazio e gli altri sono bravissimi, per carità. Ma la Rai deve decidersi. O fa il servizio pubblico e segue la legge, giusta o ingiusta che sia, e cioè: i dipendenti non possono percepire più del presidente della Repubblica. Oppure agisce come un soggetto privato e si privatizza, e toglie i tetti, e si butta sul mercato; permettendo però agli altri player di accedere alla concessione pubblica o al canone.
Ci sarebbe, poi, anche un'altra soluzione: legare, appunto, i contratti dei produttori allo share. Non sarà il metro della qualità dei programmi, potrebbe almeno esserlo dello loro commerciabilità. Comunque vada, non sarà l'apocalisse. Nell' 87, quando, pure allora, i cachet lievitarono alle stelle, dalla Rai transumarono, in blocco a Mediaset Baudo, Carrà, Carlucci, Bonnacorti. I menagrami - e gli agenti- sentenziarono: «Così la Rai è morta». Quell'anno l'ascolto della tv di Stato superò quello della diretta concorrente. Sic transeat...
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