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martedì 10 novembre 2015

La truffa su WhatsApp, è allarme rosso L'emoticon micidiale: addio smartphone

WhatsApp, l'ultima truffa: il messaggio che vi disintegra il cellulare




Il cavallo di Troia torna a colpire, e questa volta lo fa tramite WhatsApp. In questi giorni tutti gli utenti dovranno fare attenzione ai messaggi che riceveranno perché sta girando una truffa che minaccia di mandare in tilt il vostro smartphone. "Bellissime le nuove emoticon animate di WhatsApp. Le hai viste?", recita il messaggio virus. Ma questo è solo uno dei vari travestimenti che usa il cavallo di troia per adescarvi nella sua trappola e invogliarvi a cliccare. Una volta aperto il link, il virus viene scaricato sul dispositivo e automaticamente inoltrato a tutti contatti WhatsApp della propria rubrica. Per non farvi fregare dunque state attenti ad aprire i link sulle chat dei vostri amici: rischiate il cellulare.

L'intervista Ingroia inguaia Napolitano: "Vi svelo quelle strane telefonate"

Antonio Ingroia a Libero: "Vi svelerò le telefonate di Napolitano"


intervista a cura di Giacomo Amadori 



Di persona Antonio Ingroia è più basso di come appaia in tv. Ma è anche più simpatico. Lo studio spartano dell'avvocato Ingroia è a Roma in un ammezzato a pochi passi da Porta Pia. All'ingresso mi accolgono gli uomini della sua corte, gentili e adoranti nei confronti del Capo. Ingroia parla nell'altra stanza. Appare e scompare. I suoi collaboratori, compresi due (due!) cordialissimi addetti stampa, mi conducono in una sala riunioni attrezzata per l'intervista dove appoggio la borsa sul tavolo. Il factotum di Ingroia, Antonio pure lui, una specie di groupie dell'omonimo ex magistrato, mi fulmina: «Lì si siede il Presidente». Presidente di che? Domando io. «Di Azione civile». Il partitino fondato nel 2013 dallo stesso Ingroia e ormai ridotto al trastullo per feticisti della politica. Ubbidiente sposto la valigetta e quando arriva Ingroia mi rivolgo a lui in perfetto stile fantozziano: «Presidente, professore, avvocato, dottor Ingroia». Lui capisce lo sfottò e abbozza autoironico.
Si inizia.

Pochi giorni fa è arrivata la prima sentenza del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia ed è stata un' assoluzione per Calogero Mannino. L'ex ministro ha parlato di una persecuzione lunga 25 e a chi gli chiedeva se il suo sia stato un processo politico ha risposto che solo Ingroia aveva un' impostazione di quel tipo...

«Potrei dire che da un politico navigato come Mannino il giudizio sul mio "spessore politico" lo prendo come un complimento, quanto all' accanimento sarebbero troppi i persecutori, giudici compresi. La verità è un' altra: sono le prove dei suoi rapporti con i mafiosi che hanno inseguito Mannino per tutti questi anni, confermate persino dalla Cassazione che lo ha assolto. Ciò non toglie che sia stato giudicato innocente in modo definitivo dal concorso esterno e assolto in primo grado per la trattativa. Questo gli va riconosciuto, però non esageri».

In che senso? Un uomo innocente non può neppure lamentarsi dopo 25 anni di processi?

«Intendo che comunque la procura, pur sconfitta nella sua impostazione originaria di cui non disconosco la paternità, può contare su un bicchiere mezzo pieno: infatti quella di Mannino è stata una assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove, non per la loro mancanza. In più il giudice, con quel tipo di decisione, ha ammesso che la trattativa c' è stata e che costituisce reato».

Mannino ha anche detto che a voi interessava non tanto la verità quanto l' opera teatrale del "guitto" Marco Travaglio, in cui vi «impartiva gli indirizzi relativi al processo».

«Battuta per battuta noi pm potremmo lamentarci del fatto che siano stati realizzati spettacoli su indagini che ci sono costate sacrifici e sudore e che per questi non abbiamo preso neanche le royalties».

Se è per questo Travaglio ha messo la copertina a una sua requisitoria e l' ha contrabbandata come un proprio libro. Il direttore del Fatto almeno in questo caso le avrà riconosciuto una percentuale?

(Sorride) «Non riuscirà a farmi litigare con Marco. È uno dei pochi amici che mi sia rimasto nel vostro mondo. Posso dire che grazie a lui ho avuto la soddisfazione di far conoscere il mio lavoro al grande pubblico».

Ultimamente alcuni giornali che l' hanno sempre sostenuta, come La Repubblica, sembrano averla un po' abbandonata.

«È vero che ho perso per strada più di un amico e questo è accaduto a causa del processo sulla trattativa che era scomodo non solo a destra ma anche a sinistra».

Quale critica al suo operato l' ha infastidita maggiormente?

«Il fatto che l' inchiesta sui rapporti Stato-mafia sia stata descritta come un mio personale trampolino di lancio verso la politica, mentre è stato un lavoro serio in quanto summa di quasi 20 anni di indagini sulle collusioni della politica con la mafia per cercare verità e giustizia sulla morte di uomini dello Stato traditi da quello stesso Stato. Oggi posso riconoscere che fosse una sfida forse troppo ambiziosa e dall' esito incerto vista la complessità anche giuridica della materia, difficile da sostenere in un' aula di giustizia».

Però a prendere le pernacchie per una simile scommessa adesso sono rimasti i suoi ex colleghi, Nino Di Matteo in testa, mentre lei, come dice Mannino, è «fuggito»...

«Io non sono abituato a fuggire dai miei processi come dimostrano i procedimenti contro Marcello Dell' Utri e Bruno Contrada, entrambi condannati definitivamente, dopo anni di indagini che ho seguito fino in fondo. Nel caso della trattativa ero diventato non solo un parafulmine, ma, a un certo punto, persino un peso. Attiravo continue polemiche che si scaricavano negativamente sul processo. Per questo ho ritenuto fosse utile, conclusa l' indagine, farmi da parte».

Veniamo alla sua nuova vita. Nei giorni scorsi ha riservato parole dure al giudice romano Caterina Brindisi, che non ha accolto una sua istanza: ha scritto che per la signora è «evidentemente meglio non sentire, non vedere, non sapere». Da avvocato sta rivedendo la sua opinione sui magistrati?

«In realtà mi è capitato anche da pubblico ministero di trovare giudici che non volessero né sentire, né vedere, né sapere. Un meccanismo di autodifesa corporativa che scatta spesso quando ci sono di mezzo magistrati o altri pezzi delle istituzioni».

Ogni riferimento al procedimento Stato-mafia è puramente casuale... Ritiene che in quel processo siano stati protetti pezzi di istituzioni?

«Più che nel processo lo si è fatto fuori dal processo perché quel processo non si celebrasse mai. E un ruolo lo hanno però svolto anche la magistratura associata e il Csm a colpi di procedimenti disciplinari nei confronti dei pm che doverosamente facevano quelle indagini».

Con il senno del poi insisterebbe ancora ad opporsi alla richiesta del Quirinale di distruzione immediata dei nastri con le intercettazioni tra il presidente Giorgio Napolitano e l' ex ministro Nicola Mancino?

«Per me la legge va applicata comunque anche di fronte alla richiesta di commissione di un abuso proveniente dalla più alta carica dello Stato, perché la richiesta di distruzione immediata era soltanto un abuso».

Non sono stati dello stesso parere i giudici della Corte costituzionale.

«Come ha detto il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky quella era una sentenza politica, perché, aggiungo io, quei giudici avevano come una pistola puntata alla tempia: se avessero smentito il Capo dello Stato sarebbe scoppiata una gravissima crisi istituzionale che avrebbe potuto portare alle dimissioni del Presidente della Repubblica».

Spengo il registratore. Mi confida che cosa diceva Napolitano di tanto grave ai suoi interlocutori?

«Non è ancora arrivato il momento, anche se, probabilmente, un giorno lo racconterò: credo che «tutte le verità» di uno Stato democratico vadano svelate ai cittadini. Ma non in un' intervista».

In che modo pensa di farlo?

«Magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben aldilà della più fervida immaginazione».

Ha già un' idea per il titolo?

«Potrebbe essere "Caro Giorgio come stai?". Come le pare?».

Torniamo al suo nuovo mestiere di avvocato. Lei aveva giurato che non avrebbe mai assistito mafiosi e corrotti e invece sta difendendo i presunti complici di Massimo Ciancimino, condannato in via definitiva per riciclaggio del patrimonio mafioso del padre (l' ex magistrato è in piedi e mi guarda in tralice).

«Niente di incoerente perché nessuno dei miei assistiti è incriminato per fatti di mafia. In più aggiungo che sono convinto dell' innocenza di questi imputati che sono rimasti stritolati da quello che io definisco il sistema Cappellano».

Ovviamente sta parlando dell' amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara, sotto indagine a Caltanissetta per corruzione e altri reati... Perché dice che sono stati schiacciati da questo sistema?

«Su tutti i giornali è scritto che dall' inchiesta nissena emerge che Cappellano Seminara aveva l' interesse a enfatizzare se non addirittura a inventare l' origine "mafiosa" di certi patrimoni, specie se di ingente valore, per ottenere incarichi e onorari che venivano poi parametrati sul valore della aziende confiscate. Un sistema che gli consentiva di elargire incarichi e prebende a famigliari e amici dei magistrati che spesso erano quelli che lo avevano nominato amministratore e gli avevano liquidato lauti onorari».

Uno di quei magistrati è Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione. Sul suo conto in queste settimane sono emerse intercettazioni imbarazzanti. La sensazione è che ci sia un' Antimafia che più che gli ideali persegua interessi particolari.

«Per anni abbiamo cercato di convincere i cittadini che combattere la mafia non solo è giusto, ma è anche utile. Non immaginavo che dei professionisti di questa lotta avrebbero cercato sì l'utile, ma per se stessi, come sta emergendo».

Non trova che sia quanto mai attuale l' invettiva di Leonardo Sciascia contro i professionisti dell' Antimafia?

«Sciascia sbagliò obiettivo, colpendo Paolo Borsellino, ma ebbe un' intuizione profetica».

In tanti citano Giovanni Falcone e Borsellino. Quali sono, secondo lei, i veri eredi e chi, invece, si fa bello con i loro nomi a sproposito?

«Per me non ci sono veri eredi, ma ci sono troppi aspiranti eredi».

Faccia qualche nome...

«L' elenco è troppo lungo e non basterebbe lo spazio di questa seppur lunga intervista. E mi riferisco anche a qualche importante ex magistrato oggi in politica».

Per alcuni il processo in corso a Roma contro i presunti complici di Ciancimino rischia di trasformarsi in una specie di resa dei conti tra lei e il procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone, suo ex collega a Palermo.

«Non credo nella personalizzazione della giustizia, però è noto che negli anni io e Pignatone ci siamo trovati più volte su posizioni diverse, come in questo caso. Pignatone è "affezionato" ai procedimenti che riguardano la famiglia Ciancimino. Si era occupato prima del padre e poi del figlio. Persino quando era procuratore di Reggio Calabria e venne fuori l' intercettazione bufala di Massimo Ciancimino che si vantava di fare da padrone di casa nel mio ufficio a Palermo. La cosa bizzarra è che in questi anni sono stato accusato io di essere troppo affezionato a Ciancimino junior, mentre sono stato l' unico a farlo arrestare quando ero procuratore aggiunto a Palermo».

Lei è indagato dalla procura del capoluogo siciliano per abuso d' ufficio per il suo ruolo di commissario della E-servizi, società partecipata dalla Regione. Si sente un perseguitato dalla giustizia?

«Per altre cose sì, ma non è questo il caso, visto che la procura aveva già chiesto l' archiviazione. Il procedimento è rimasto aperto a causa di una contestazione della Corte dei conti. Però, siccome i giudici contabili un mese fa mi hanno prosciolto, confido che la cosa si chiuda anche al palazzo di giustizia».

È sotto inchiesta, per calunnia, pure a Viterbo. Non ha mai paura di finire vittima di uno sbaglio dei suoi ex colleghi togati?

«Sinceramente sì. Soprattutto oggi che faccio l' avvocato mi rendo conto di tanti errori giudiziari. Le inefficienze del sistema sono più gravi di quanto non sospettassi da magistrato. Nel caso del procedimento che sto seguendo a Roma, per esempio, anche se dimostreremo l' errore degli inquirenti, ci troveremo di fronte a danni irreversibili con società fallite, uomini ammalati e imprenditori rovinati».

Ci sono delle furbizie che i pm usano per incastrare gli indagati? Mi resulta che non di rado i nomi sul registro generale vengano iscritti il più tardi possibile per allungare i termini delle investigazioni…

«Ci sono le astuzie dei difensori, ma anche quelle dei sostituti procuratori. E ora che sono dall' altra parte della barricata ho il vantaggio rispetto ai miei colleghi avvocati di poter smascherare certi espedienti furbetti».

Me ne può svelare uno?

«Ci sono i cosiddetti stralci a catena che permettono con un gioco di scatole cinesi di tenere aperto un filone d'indagine facendolo emigrare da un fascicolo in scadenza a un altro».

Forse anche da una procura all'altra?

«Qualche volta è accaduto pure questo».

Da pm che cosa ha sbagliato? C'è un errore che si sente di ammettere?

«Con il senno del poi mi sono sempre chiesto se si potesse fare di più per prevenire la morte di due uomini».

Di chi sta parlando?

«Di Borsellino e del giudice Luigi Lombardini. Del primo ero stato collega a Palermo e del secondo mi sono occupato da pm: era accusato di complicità in estorsione per il sequestro di Silvia Melis. Paolo è stato ucciso dalla mafia e da altro, dentro a un intrigo di Stato e avremmo potuto «proteggerlo» meglio. Lombardini si è suicidato dopo un mio interrogatorio. Stavamo andando a perquisire la sua stanza, dove poi trovammo documenti importanti a suo carico, e lui stava camminando davanti a me. All' improvviso, con un balzo felino, si è chiuso nel suo studio e dopo pochi attimi abbiamo sentito un colpo di pistola. Sono episodi che non si dimenticano e che ti cambiano».

È meglio la vita da magistrato o quella da avvocato?

«L'esistenza blindata del pm antimafia è infernale. Di quegli anni mi mancano solo... le intercettazioni (sorride e attende la reazione del cronista, nda). Sto scherzando, ma non troppo. Da avvocato accertare la verità è molto più difficile, perché si combatte con armi spuntate contro una magistratura che spesso è un muro di gomma rispetto alle istanze della difesa».

Almeno le mancherà il suo vecchio ruolo da star?

«Devo essere onesto: era una vita molto stancante, così fitta di impegni».
(Squilla il telefono e Ingroia tuba: «Amore, sono ancora impegnato nell' intervista, raggiungimi in studio»).

Mi scusi, ma lei è sposato?

«No, ho una nuova compagna».

La domanda sorge spontanea: si cucca di più da legale o da magistrato?

«Non posso rispondere, Giselle è gelosissima. E poi l'ho conosciuta nel "trapasso" tra le due carriere».

Ripensando a quel periodo, rientrerebbe in politica, candidandosi a premier, come fece nel 2013?

«No, in quelle condizioni avrei fatto meglio a restarmene in Guatemala. Però grazie a quella scelta sbagliata oggi mi ritrovo a fare l' avvocato e il nuovo lavoro mi piace molto».

Eppure per il prossimo 28 novembre ha indetto quella che ha pomposamente chiamato «l' assemblea nazionale» del suo partito. Pensa di non presentarsi?

«Vuole farmi fare il congresso da solo? Azione civile è un movimento piccolo, ma combattivo. Non lo posso abbandonare».

Non si chiamava «Rivoluzione civile»? Anche lei è nato incendiario ed è finito pompiere?

«Mi sono reso conto che la rivoluzione non si può fare in due mesi. Partiamo dall' azione e vediamo se si può fare la rivoluzione».

Perdoni la battuta: vi incontrerete in una cabina telefonica?

«Spiritoso. Ci riuniremo al Centro Congressi Frentani, lei ovviamente è invitato, ma onestamente non abbiamo prenotato l' aula da mille posti (ride di nuovo)».

Mi tolga una curiosità: lei, «toga rossa» per antonomasia, è comunista?

«No. Non lo sono mai stato. Sono un movimentista».

Le posso chiedere che cosa pensa dei giudici in politica?

«Ritengo che anche i magistrati abbiano il diritto di mettersi in gioco nella Cosa Pubblica e che la loro esperienza possa essere e sia stata utile. Credo pure che chi ha fatto politica per molto tempo non debba più rientrare in magistratura. Sul piano personale sono sempre rimasto stupito che tra i critici più aspri della mia scelta ci siano dei politici che non si sono mai dimessi dalla magistratura, mentre io non ho neppure messo piede in Parlamento».

Sta parlando di Luciano Violante?

«Non solo di lui, anche di Anna Finocchiaro, ad esempio, e di altri».

A proposito di porte girevoli, lei ha provato a rivestire la toga e ha rinunciato dopo che l' hanno spedita a mangiare la mocetta ad Aosta.

«Proprio perché il Parlamento è ancora pieno di magistrati in aspettativa, in quel momento non vedevo perché solo io che avevo fatto politica per due mesi dovessi rinunciare alla mia vecchia professione. Comunque ora posso dire grazie al Csm per quella porta sbattuta in faccia perché oggi, come ho detto, faccio l' avvocato con soddisfazione ed entusiasmo».

Nella stanza appare una giunonica e affascinante valchiria bionda più alta di Ingroia di 20 centimetri e a occhio e croce più giovane di almeno 20 primavere. È lei la nuova compagna dell' ex pm. Che sembra divertito per lo stupore del cronista: «Su un giornale l' hanno definita la bionda misteriosa sopra il cielo di Ingroia», ridacchia. E indica con la mano la differenza d' altezza. Immagino le battute invidiose di certi ex colleghi del magistrato, ma Giselle chiosa: «Antonio non è un uomo complessato». Cuoricini nell' aria. L' intervista è finita. E il cronista chiude la porta.

L'accusa infamante a capitan Totti "Pagava in nero i vigili urbani per..."

Luca Odevaine: "Totti pagava vigili in nero per fare scorta al figlio"




Il calciatore della Roma, Francesco Totti, avrebbe pagato "in nero" alcuni vigili urbani di Roma per l’attività di vigilanza ai figli. La circostanza, tutta da verificare, è stata raccontata da Luca Odevaine, già componente del Tavolo per il coordinamento nazionale sull’accoglienza ai richiedenti asilo, nell’interrogatorio reso nel carcere di Terni il 15 ottobre scorso. "È vero che dei
vigili urbani facevano vigilanza ai figli di Totti" ha affermato Odevaine, ribadendo quanto già detto a suo tempo da Salvatore Buzzi ma lo facevano fuori dall’orario di lavoro e venivano pagati in nero, dallo stesso Totti".

Secondo Odevaine, "l’esigenza era nata dal fatto che era giunta una voce di un progetto di rapimento del figlio di Totti. Ne parlai con il colonnello Luongo dei carabinieri, il quale, tenuto conto della genesi e della natura della notizia, convenne con me che non era il caso di investire il comitato per la sicurezza ma che si poteva trovare un modo per provvedere».

lunedì 9 novembre 2015

Napoli: Amministrative Sta nascendo un nuovo Polo locale?

Napoli: Amministrative Sta nascendo un nuovo Polo locale? 



di Gaetano Daniele



Sergio Angrisano
Coordinatore nazionale di Federazione Movimenti base

NAPOLI - Si è svolto, presso il Grand Hotel Europa, l’incontro politico a cui hanno partecipato, movimenti, associazioni e comitati civici, tra cui la Federazione Movimenti Base, Movimento Terra di Riscatto, "Primavera Castellana", "Insorgenza Civile", "Movimento Piú Sud", Movimento Popolare per il Mezzogiorno”, Forza Sociale, Associazione Noi Polizia, Associazione Guardie Italiane Ambientali, Generazione Identitaria, Secondigliano Futura, Movimento Itinerari, Movimento per la Campania, Comitato Civico Porta Capuana, Associazione Territorio Flegreo, FAST (Sindacato Operatori delle Ferrovie) e alcuni imprenditori come liberi ascoltatori. Sul tavolo lo scottante tema delle “Amministrative, Napoli capofila”. “Sta nascendo un nuovo polo locale? Chissà vedremo, adesso è ancora presto per poterlo dire, di sicuro un “Polo” equidistante tra Centrodestra e Centrosinistra”, commenta Sergio Angrisano, coordinatore nazionale di Federazione Movimenti Base;  “Siamo stanchi delle vecchia politica, oggi mettiamo in campo una serie di movimenti formati da uomini del fare, che da sempre sono in mezzo alla gente per  ascoltare e risolvere i problemi seri che affliggono i napoletani”, aggiunge Gaetano Graziano, dirigente d’azienda.

Ferrari, bomba atomica di Marchionne scoppia il putiferio nel mondo dei motori

Ferrari, Sergio Marchionne: "Il tetto ai costi di Jean Todt un concetto osceno"




Al Mugello, domenica, c'erano 50mila persone. Tre volte tanto rispetto all'affluenza attesa per le finali del mondiale del monomarca Ferrari. Ad attirarli, la presenza in pista di Sebastian Vettel e Kimi Raikkonen, ma soprattutto i maxi-schermi sui quali è stata trasmessa l'amara gara di Valencia dell MotoGp. Nonostante la delusione per Valentino Rossi, in casa Ferrari c'era aria di festa. Una festa alla quale ha preso parte il presidente, Sergio Marchionne, che ha spiegato di aspettarsi "una grande stagione" il prossimo anno. Marchionne ha aggiunto: "I risultati fino adesso, considerando da dove siamo partiti, dimostrano che abbiamo fatto enormi passi in avanti. Ho fiducia nella nuova vettura, vedrete a marzo quando inizierà a correre".

Le parole più dure, però, sono quelle riservate a Jean Todt, presidente della Fia e vecchio team principal della Ferrari, che ha aspramente criticato in pubblico il diritto di veto esercitato dalla Ferrari contro il tetto economico alle forniture di motori ai team minori. Marchionne spara: "La nostra posizione è di una chiarezza incredibile e cercare di illuderci che sia la Fia sia la Fom possano passare ai costruttori l'obbligo, l'impegno e l'onere economico di finanziare altre squadre è è un concetto assolutamente osceno e al di fuori di ogni logica industriale". E ancora, il presidente Ferrari aggiunge: "L'idea che abbiamo un obbligo morale di dare le power unit la trovo veramente ai limiti. Se sapeste quale è lo sforzo finanziario della Ferrari per lo sviluppo, i costi di cui si è parlato non coprono nulla". Parole durissimi, quelle del presidente, ormai ufficialmente in guerra con i vertici dell'automobilismo mondiale.

Meredith e la regola del 3 Perché Bossetti può sperare

Meredith e la regola del 3, ora Bossetti spera


di Luca Telese 



«Avvocato, lei mi chiede di risponderle sui test che riguardano il campione G20. Ma io in questo momento non posso...».
- «Cerchi tra le sue carte, fra i dati che ci avete fornito voi stessi».
- «Purtroppo adesso non sono in grado di farlo. Ho bisogno di tempo. Quei dati vengono immagazzinati nel nostro sistema insieme ad altri dati, che appartengono a pratiche relative ad altri processi. Adesso non siamo in grado di distinguere, ci serve tempo».
Così parlò Fabiano Gentile, superesperto dei Ris per gli esami sul Dna. Non solo a caldo, dunque, durante l' udienza di venerdi pomeriggio quando per la prima volta - durante un controinterrogatorio della Difesa di Massimo Bossetti - i due ufficiali scientifici dei carabinieri aveva chiesto una sospensione per provare a trovare il modo di rispondere in modo esatto alle domande agli avvocati.

Ma anche alla ripresa, in serata, prima che a fine udienza la Presidente Bertoja, con un ennesimo colpo di scena, proponesse una nuova sospensione e un accordo di tregua: la difesa ha sette giorni di tempo per scrivere le sue domande, i Ris altrettanto per rispondere. Così è suonato il gong, ma proprio sul più bello del match, mentre la partita è aperta e ancora in corso. La Difesa è convinta di aver trovato la prova di quello che ripete da un anno, l' accusa frena i dubbi rispondendo che alla fine di questo «contest» tutto sarà chiarito.

I RIS TEMPOREGGIANO 
Ma cosa vuol dire quella frase sibillina dell' ufficiale dei Ris sui dati non reperibili? Perché i Ris prendono tempo? È solo una tattica o ci sono delle ragioni? Per capire cosa sta accadendo davvero, in queste ore concitate è necessario provare a rispondere a queste domande. Enrico Mentana, parlando del caso Yara nel suo tiggì, pochi giorni fa, ha coniato questo titolo carlogaddiano: «Quel Pasticciaccio brutto dei furgoni dei Ris». Bene, quello che si è verificato in aula venerdì, durante la battaglia sul Dna di ignoto uno è un nuovo pasticciaccio ancora più complesso, ma forse anche un punto di svolta del processo. Riassunto delle puntate precedenti per chi se l' è perse: i due ufficiali dei Ris che hanno fatto la perizia più importante, quella sugli indumenti di Yara - Nicola Staiti e Fabiano Gentile - mentre erano controinterrogati dalla difesa, hanno alzato le mani dicendo che non erano in grado di rispondere alla domande sugli stessi dati che avevano fornito, il cosiddetti Raw data degli esami sul Dna, la «brutta copia» dei test decisivi che hanno incastro Bossetti.

I due super esperti dei Ris, che fino a quel momento erano stati chiari ed efficaci, si sono come impallati mentre venivano interrogati sul numero di esami che avevano fatto sul campione G20, quello ormai noto a tutti, il frammento di mutandina dove gli esperti dei carabinieri dicono di aver trovato il dna del muratore. Fino a venerdì sopravviveva una leggenda metropolitana diffusa dall' accusa, e scritta persino in alcuni documenti ufficiali. Uno dei motivi per cui quell' esame era attendibile, dicevano gli inquirenti, è che era stato ripetuto, con risultati concordi, in ben quattro diversi laboratori (quelli che si erano occupati delle diverse analisi del caso). Ebbene, Staiti e Gentile ieri hanno dissolto questa leggenda. Domanda di Salvagni: «Siete voi l' unico laboratorio che ha lavorato sul campione G20?». Risposta di Staiti: «Sì, solo noi». Quindi gli altri laboratori non possono aver lavorato né sulla materia dei reperti, né sui dati grezzi delle analisi, ma solo sulla sequenza del Dna isolata dal nucleo scientifico dei carabinieri.

IL SUPER DOCUMENTO
E qui si arriva al primo problema che, comunque la si pensi sul caso, tutti si devono porre. I Raw data studiati da Marzio Capra, il superesperto della difesa (a sua volta un ex ufficiale dei Ris, un vero mago dei numeri e dei digrammi) secondo il genetista, dicono che i carabinieri hanno realizzato in laboratorio «solo» quattro «Amplificazioni». Ovvero: quattro diversi esami per mettere a fuoco la sequenza del Dna. Persino su quel «solo» c' è stata battaglia: un aggettivo contestato con una obiezione dal Pubblico ministero Letizia Ruggeri perché lo trovava già tendenzioso. E aggettivo perfettamente calzante invece, secondo Capra, perché a suo parere quel numero limitato di prove metterebbe in discussione la validità dell' esame.
Proviamo a capire perché.

Gli avvocati Claudio Camporini e Claudio Salvagni brandiscono da mesi un documento importante, partorito da un altro processo. Si stratta della sentenza di Cassazione sul processo che ha coinvolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox. In quel testo, che per ora fa giurisprudenza, i magistrati dell' alta Corte hanno fissato un principio di garanzia, per rispondere ai tanti problemi aperti dai molteplici casi di errore nella fase analitico emersi in questi anni (a partire dal ribaltamento della prova del reggiseno, grazia a cui l' avvocato Giulia Buongiorno ha vinto il processo). Secondo la Cassazione, perché un esame del Dna sia valido deve essere ripetuto almeno tre volte. Qual è il grande problema dello slip di Yara, il reperto che incastra Bossetti? Che quando è stato esaminato il muratore di Mapello, come è noto, non era nemmeno stato individuato. Quindi l' esame non è avvenuto (non era possibile) né alla presenza dei suoi avvocati, come si dice, «in garanzia». Ma nemmeno alla presenza dell' uomo che all' epoca era indagato, l' operaio Mohammed Fikri, che dopo quella data è stato riconosciuto innocente, prosciolto, e risarcito per ingiusta detenzione. Chi e cosa, dunque, si chiedono gli avvocati, può garantire Bossetti dall' idea di un possibile errore? Contrariamente a tutte le altre prove, quel test del dna non è stato nemmeno filmato. È diventato, insomma, un dogma di fede dei Ris. Ed è per questo stesso motivo che la Corte ha riconosciuto agli avvocati il diritto di visionare i dati grezzi. Incalzati sulla base dalla dinamica che Capra ha ricostruito su quei documenti, gli uomini dei Ris hanno preferito non rispondere alle domande sul numero di prove effettuate. Prima di quel momento, però, avevano spiegato le loro metodologie, raccontando di aver adoperato otto diversi kit di analisi, «i migliori reperibili sul mercato».

Vero: ma quelli reperibili all' epoca. I kit più moderni - ci hanno spiegato sempre Staiti e Gentile - arrivano ad individuare oltre venti elementi distintivi di un Dna. Quelli che hanno adoperato i Ris all' epoca, perché gli altri non essitevano ancora, non più di 17. Ma per tracciare tutta la sequenza servivano almeno tre esami: uno che disegnasse la struttura del Dna in almeno tredici elementi, uno che stabilisse il sesso, uno che individuasse l' aplotipo X, ovvero quello che nella sequenza distingue l' identità che proviene dal genitore. I Ris, agendo correttamente, ma seguendo la priorità di allora (che era tracciare un profilo di un possibile sospetto), hanno fatto tutto questo con quattro esami, senza porsi il problema che tre anni più tardi avrebbero dovuto rispondere ai diritti di un indagato. E adesso quella risposta su «solo» quattro esami diventa cruciale: se dicono che sono «solo» quelli salta il processo, se dicono che sono di più ma non risultano dai Raw Data, rischiano che salti lo stesso (perché non li hanno forniti alla difesa malgrado la prescrizione della presidente).

IL MISTERO ESAMI
E qui arriviamo agli altri risultati, e alla difficoltà di distinguerli, che Capra chiarisce con un esempio illuminante. «È legittimo che i Ris stessero facendo anche altre analisi e anche su altri casi, e anche in contemporanea. È come se tu porti la macchina dal meccanico, e scopri che quello adesso lavora sulla tua Multipla, e in serata si dedica alla Mercedes del tuo vicino di casa...». E allora? «Allora - spiega Capra - il problema è che deve avere ben chiare e distinte tutte le operazioni: se vai a riprendere la macchina e tu gli chiedi se ti ha sostituito la frizione, non ti può rispondere: so che ho cambiato una frizione, ma adesso non so dirti se alla tua macchina o ad un' altra. Perché nel primo caso ha fatto bene - conclude Capra - nel secondo ha fatto un pasticcio». Ecco, adesso i Ris dovranno chiarire come hanno lavorato senza venire meno al registro fatture dei Raw Data. Tutti pensano a Bossetti, ma quello che accade in questa officina meccanica farà scuola sui casi dei prossimi venti anni.

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Fincantieri, erede della grande tradizione italiana in campo navale e uno dei gruppi cantieristici più grandi al mondo, è attivo nella progettazione e costruzione di mezzi navali a elevata complessità e alto valore aggiunto, dalle navi mercantili a quelle militari, dall’offshore ai mega yacht. 

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