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lunedì 28 settembre 2015

Nuova tassa: i tuoi soldi per i profughi Il calcolo: ecco quanto dovrai pagare

Onu, eurobalzello su transazioni bancarie per aiutare i profughi



di Andrea Morigi 


Arriva la tassa sugli immigrati. Parte da lontano, dal Palazzo di Vetro di New York, ma promette di colpire i pochi cittadini europei che hanno ancora qualche soldo residuo da investire.

A partorire l’idea, neppure tanto originale e innovativa, è il vice-segretario generale delle Nazioni Unite, il francese Philippe Douste-Blazy, insieme a Giusi Nicolini, il sindaco di Lampedusa.

La affidano a The World Post, intervenendo a gamba tesa nel dibattito sulle politiche comunitarie di accoglienza, nel bel mezzo dell’emergenza rifugiati. Il progetto, spiegano, è reperire fondi da destinare a un “piano Marshall” per risolvere la crisi dovuta ai flussi migratori, attraverso l’imposizione fiscale su transazioni e strumenti finanziari.

Comunemente, quello strumento va sotto il nome di Tobin Tax, perché nel 1972 fu l’economista keynesiano James Tobin a proporlo per primo. Grande trovata, che valse allo studioso anche un premio Nobel. Peccato che quasi nessuno abbia poi voluto metterla in pratica. Da allora è oggetto di acceso dibattito fra i suoi fautori e i suoi critici. Di fatto non si è mai raggiunto il consenso generale, necessario a rendere la misura efficace in tutto il mondo. Non avevano considerato, i geni del prelievo forzoso, che alla notizia di una tassazione aggiuntiva in una piazza finanziaria gli investitori sarebbero prontamente fuggiti verso mercati meno esosi oltre che più redditizi.

Se non che, in questo controverso campo, l’Italia si pone all’avanguardia, con la legge 228 del 2012, entrata in vigore il primo marzo 2013, al crepuscolo del governo presieduto da Mario Monti. Quanto alla sua efficacia, è già abbastanza eloquente il gettito: circa 300 milioni di euro l’anno, ben al di sotto delle aspettative del Tesoro, che inizialmente stimava almeno un miliardo e 200 milioni di introiti per l’Erario e poi ha sistematicamente ridotto le pretese. Se le allineassero alla popolarità della tassa, arriverebbero a zero. Anzi, sotto zero, perché la sua applicazione ha coinciso con un crollo del volume d’affari da 184 miliardi, per limitarsi alla Borsa italiana.

In Francia, il secondo partner europeo ad avere introdotto la Tobin Tax, le cose non sono andate meglio. Tanto che nei palazzi di Bruxelles si è ormai smesso di parlarne.

Eppure sono proprio un’italiana, la Nicolini, e un francese, anzi l’ex sindaco cattolico di Lourdes ed ex ministro degli Esteri nel governo de Villepin fra il 2005 e il 2007, Douste-Blazy, a tornare alla carica. La loro intenzione è di colpire tutti i 28 Paesi comunitari, con una percentuale dello 0,1% sulle compravendite di titoli azionari e obbligazionari, riservando invece un più modesto 0,01% ai prodotti derivati. Equivale a dire che si privilegiano i grandi capitali alla George Soros con una tassazione più leggere, accanendosi invece con un carico dieci volte superiore contro privati e famiglie che affidano i loro risparmi ai gestori e alle banche.

Sarebbe perfettamente inutile rispolverare una proposta del genere, se non si trattasse di «prevenire un pericoloso aumento di razzismo e xenofobia». Con quel pretesto, potrebbe passare qualsiasi patrimoniale. Per sbaragliare ogni resistenza è sufficiente accusare chi vi si oppone di volere lo scontro di civiltà.

L’attuale tentativo di mettere le mani nelle tasche dei contribuenti europei si nasconde dietro una facciata umanitaria: il 25% degli incassi dovrebbero tornare ai Paesi d’ingresso dei migranti, sotto forma di assistenza finanziaria e tecnica, come proposto dall’Ocse, mentre una metà andrebbe nel Terzo Mondo, come aiuti alimentari, assistenza sanitaria, igienica ed educativa. Al rimanente 25%, i proponenti non fanno nemmeno cenno. Ma Douste-Blazy, che ricopre la carica di consigliere speciale dell’Onu per le fonti innovative dei finanziamenti allo sviluppo, certamente potrà dispensare qualche suggerimento su come spenderli.

In ogni caso, sostengono i due firmatari, è «l’unica soluzione che renderà possibile accogliere rifugiati politici con dignità e integrarli nelle nostre società» e allo stesso tempo consentirà di «evitare l’enorme ondata migratoria che incombe per la distanza sempre più larga fra i ricchi e i poveri, in un’epoca in cui la comunicazione è sempre più globalizzata».

È un’utopia che, per una strana concezione della funzione sociale della proprietà, confusa con la politica della sostituzione etnica, farà trasferire agli stranieri i guadagni dei cittadini europei.

Caos Vaticano, 11 cardinali contro il Papa Il documento e le (durissime) accuse

Vaticano, undici cardinali contro Papa Francesco: il (duro) documento in vista del Sinodo




Undici prelati di peso contro Papa Francesco, un Pontefice che - e non è certo una novità - non è gradito a tutti tra le alte gerarchie vaticane. Un documento, con cui gli oppositori rispondono alle aperture di Bergoglio. Una pubblicazione che viene anticipata da Repubblica, e in cui si parla della "fase di disfacimento che non ha eguali nella storia" nella quale, nel mondo occidentale, sono entrati "il concetto di matrimonio come anche l'istituzione della famiglia". Una dura accusa, in vista del Sinodo, dal titolo: Matrimonio e famiglia. Prospettive pastorali di undici cardinali. Tra i firmatari anche Camillo Ruini e Carlo Caffara, oltre a Cleemis, Cordes, Duka, Eijk, Meisner, Onaiyekan, Rouco Varela, Sarah e Urosa Savino.

I passaggi - Gli undici, insomma, non lasciano spazio alle aperture di Francesco. Secondo Cordes, per esempio, "l'ordinamento della Chiesa deve restare fedele al Vangelo e non ha il diritto di deformarlo". E ancora: "I divorziati risposati - attacca - hanno infranto un inequivocabile comandamento di Gesù e vivono una situazione che contraddice in maniera oggettiva il volere di Dio. Ecco perché non possono ricevere l'eucarestia". E sempre sul tema della divorzione ai divorziati, il "no" più netto arriva dal cardinale Eijk, arcivescovo di Utrecht: "Una volta accettata - spiega -, accetteremo pure che il mutuo dono degli sposi non debba essere totale, né a livello spirituale né a livello fisico. Conseguentemente - prosegue - saremmo costretti a cambiare la dottrina della Chiesa riguardante il matrimonio e la sessualità".

Il sogno proibito della Boccassini La "poltronissima" che vuole Ilda

Milano, tre in lizza per il posto di procuratore generale: c'è anche Ilda Boccassini




Una lotta a tre a palazzo di giustizia, a Milano. Una lotta tra i protagonisti degli ultimi vent'anni di inchieste. I nomi: l'arcinemica del Cav, Ilda Boccassini, napoletana di 65 anni; Francesco Greco, altrettanto napoletano, 64 anni; Alberto Nobili, romano, 63 anni. Il trio è in lizza per il posto di procuratore capo a Milano, la poltrona che il prossimo 16 novembre Edmondo Bruti Liberati, grande protagonista - al pari di Ilda - dell'inchiesta Ruby dovrà lasciare. Una poltrona che come ricorda Il Giorno fu di Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio e Manlio Minale. Bruti, da par suo, ha appena confermato: il 16 se ne andrà, una decisione anticipata in una lettera ai colleghi spedita quest'estate. Un tempismo perfetto, quello scelto da Bruti per lasciare la poltrona: il 7 dicembre, infatti, la Boccassini compirà 66 anni, superando il limite anagrafico imposto per accedere a nuove cariche direttive. Il bando per diventare procuratore capo sarà aperto a breve, e i candidati avranno tempo fino al 15 ottobre per proporsi. Secondo Il Giorno, infine, oltre ai tre nomi resterebbe una quarta possibilità: un "Papa straniero", un procuratore capo che arrivi da fuori, una possibilità resa un poco più concreta dai dissidi degli ultimi anni tra Bruti ed Alfredo Robledo. Un "Papa straniero", dunque, per domare le correnti del pool di Milano. Tra poche settimane, il v
erdetto. Ilda, intanto, spera.

domenica 27 settembre 2015

La Rai in ginocchio da Matteo Renzi Dagli Usa, i numeri della vergogna

Matteo Renzi alle Nazioni Unite: la Rai gli manda cinque giornalisti al seguito




Non c'è due senza tre, si dice. E così, dopo i precedenti di Israele e Australia (dove la delegazione di inviati Rai costò alle casse pubbliche circa 60mila euro), ecco arrivare gli Stati Uniti. Per la missione all'Onu del premier Matteo Renzi, infatti, la televisione di Stato ha mandato a New York la bellezza di cinque giornalisti, con tanto di operatori al seguito. Come scrive "Il Fatto Quotidiano", ci saranno inviati del Tg1, Tg2, Tg3, RaiNews24 e Radiogiornale Rai.

Senza considerare che nella Grande Mela, viale Mazzini ha già due corrispondenti fisse: Tiziana Ferrario e Giovanna Botteri. "Ma le due corrispondenti, in questi giorni, stanno seguendo il viaggio di Papa Francesco. E poi nessuno vuole rinunciare a una immagine del premier" è la giustificazione della Rai riportata dal quotidiano di Marco Travaglio. Ironico, con uno dei suoi tweet, Maurizio Gasparri di Forza Italia: "Rottamazione, cambiamento, tagli di spesa, giù le mani della politica dalla Rai... le chiacchiere. Questa è la realtà". La 'triste' realtà, viene da dire.

Paura all'inter, grave incidente d'auto per un giocatore: ecco come sta

Inter, incidente d'auto per Danilo D'Ambrosio: è sotto osservazione




Grande paura per Danilo D'Ambrosio, terzino dell'Inter che ieri, dopo l'allenamento con la sua squadra, si è trovato coinvolto in un incidente automobilistico di ritorno dagli allenamenti di  Appiano Gentile all'altezza di Turate sulla strada Milano-Como. E' stato un grande spavento, ma le conseguenze sono state minime. Il giocatore verrà comunque tenuto sotto osservazione per fare tutti i controlli necessari. D'Ambrosio salterà la partita contro la Fiorentina. 

LA LIBIA CI FA LA GUERRA La pesante accusa di Tripoli La Farnesina: "Tutto falso"

Libia, capo del Parlamento: il boss dei migranti ucciso dagli italiani, la Farnesina smentisce




Il presidente del Parlamento parallelo di Tripoli, Nouri Abu Sahmain, ha accusato le forze speciali italiane di essere dietro all’uccisione di Salah al-Mashkout, considerato uno tra i più importanti boss del traffico di migranti in Libia. La notizia è resa nota dal quotidiano britannico The Guardian. Nel dare la notizia il quotidiano Libya Herald aveva precisato che non sarebbero stati identificati i componenti del commando autore dell’attacco letale, nel quale hanno perso la vita anche gli otto uomini della scorta di Mashkout, un ex ufficiale dell’Esercito sotto il regime di Muammar Gheddafi. Stando al The Guardian, gli assalitori erano armati di pistole e sarebbero stati perfettamente addestrati. Sahmain è legato al governo rivale rispetto a quello internazionalmente riconosciuto, che ha sede a Tobruk.

La replica - "È tutto falso". Lo sottolineano all’Adnkronos fonti militari italiane replicando alla notizia, rilanciata da alcuni media, secondo cui forze speciali italiane sarebbero coinvolte nell’uccisione a Tripoli di Salah al-Mashkout, considerato uno dei boss del traffico di esseri umani a Zuwara, da dove partono i barconi che attraversano il Mediterraneo diretti in Europa. A puntare il dito contro gli italiani anche il presidente del Congresso libico, Nuri Abu Sahmain, che, in una nota citata dal britannico "Guardian", ha sostenuto che al-Mashkout è stato ucciso da uomini delle forze speciali del nostro Paese. Abu Sahmain, originario anche lui di Zuwara, ha detto che conosceva personalmente al-Mashkout e che era a capo di un’amministrazione rivale al governo di Tobruk, quello riconosciuto dalla comunità internazionale. Una fonte della Nato ha detto allo stesso quotidiano che nessuno dei militari dell’Alleanza è coinvolto nell’attacco che haportato alla morte di quello che era considerato un boss dei trafficanti.

sabato 26 settembre 2015

"Quel dossier sexy di Verdini..." Porno complotto, l'ultima soffiata

Stefano Caldoro: "Denis Verdini mi avvertì del sexy-dossier che mi riguardava"




Riavvolgiamo il nastro fino al 2010, quando Stefano Caldoro si candidava alle regionali in Campania. Vinse, Caldoro, nonostante una falsa notizia su uno scandalo sessuale che lo riguardava. Una balla spaziale. Una notizia che finì su un blog, per poi fare il giro d'Italia. Ora, dallo stesso Caldoro, arrivano importanti dichiarazioni: un mese prima della pubblicazione del falso dossier, spiega, "incontrai in Parlamento Verdini, che aveva con sé dei fogli, mi parlò di uno scandalo di carattere sessuale simile a quello che aveva coinvolto Marrazzo". Così a Roma, nel corso del processo per la P3: la deposizione di Caldoro, parte offesa in un filone del processo, rende così attuale un caso di cinque anni fa. Secondo lui, Verdini, sapeva di quel dossier e cercò in qualche modo di aiutare e difendere l'allora candidato governatore. Sul caso, Caldoro afferma che secondo lui ancora non è possibile individuare "il mandate di quel dossier che avrebbe potuto costarmi la candidatura". E ancora, su Verdini, spiega: "Gli dissi di stare tranquillo, che erano fesserie. Verdini mi rispose che mi credeva ma che doveva comunque informare Berlusconi. Non so come Verdini ebbe quelle carte ma io non persi la calma. Quando circa un mese dopo quell'incontro un blog pubblicò le notizie, presentai la denuncia".