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mercoledì 4 marzo 2015

La Carfagna seduce la platea dem Cosa è successo con la Boschi

Pari opportunità, applausi per Mara Carfagna, disapprovazione per Maria Elena Boschi





Fischi per la Maria Elena Boschi, applausi per Mara Carfagna. La platea, a maggioranza Pd, ad un convegno sulle Pari opportunità a Palazzo Giustiniani, non ha gradito l'intervento del ministro di Matteo Renzi ma ha elogiato la Carfagna. Succede ieri mattina, martedì 3 marzo, riporta la Stampa: al seminario l'ex ministro prende la parola. Inizialmente il pubblico è freddino, pochi applausi durante l'intervento. Finché ad un certo punto lei chiede al governo: "Perché non avete né un ministro, né un sottosegretario, né una delega alle questioni di genere?".

E lì, scroscio di applausi. Un lungo, forte applauso. La Boschi si innervosisce e quando tocca a lei prendere il microfono lo fa per mettere in chiaro una cosa: "Il nostro è il governo delle pari opportunità, tutto insieme". Ma la platea non apprezza e si lascia andare a rumorosi boati di disapprovazione. Il ministro finisce l'intervento, e visibilmente irritata si alza e se ne va. A quel punto Valeria Fedeli la richiama. Deve fare una foto con Mara Carfagna. .

"Cara Romina, adesso parlo io. Con Al Bano....", ecco la lettera della Lecciso alla Power dopo il riavvicinamento al Festival di Sanremo

Loredana Lecciso scrive a Romina Power: "Faremo una famiglia allargata"





Dopo il riavvicinamento tra Al Bano e Romina, dopo la loro esibizione a Sanremo che tanto ha fatto sognare gli italiani sulle note di Felicità, ecco che adesso parla Loredana Lecciso. Sul settimanale Chi scrive una lettera a Romina Power "Non è importante assegnare un ruolo a me, ad Al Bano e a Romina, ha un senso dare un futuro ai nostri figli". E ancora: “Mi fa sorridere leggere i commenti da tifoseria, come se fosse un incontro di calcio dove ci si schiera per l'una o l'altra squadra", continua Loredana. "Non esiste alcuna gara. Noi stessi non siamo padroni dei nostri sentimenti e a volte nemmeno li conosciamo fino in fondo. 'Libertà...fino a che avrà un senso vivere io vivrò per avere te...' Lo cantavano anche Al Bano e Romina. In nome di quella stessa libertà resto accanto ad Al Bano nel desiderio di realizzare una vera e solida famiglia allargata".

L'intervista al Pm di Trani, Michele Ruggiero Falsità, misteri, report a orologeria: "Tutta la verità sul golpe anti-Cav"

Standard & Poor's e Morgan Stanley, falsità e report a orologeria. Il pm di Trani: "Se questo non è complotto..."

Intervista a cura di Giacomo Amadori 



La vicenda del declassamento dell’Italia da parte dell’agenzia di rating Standard & poor’s (S&P) sta diventando un intrigo internazionale. Tanto da far gridare da più parti al complotto. Contro il nostro Paese e segnatamente, contro il governo di Silvio Berlusconi. Il pm della procura di Trani Michele Ruggiero è riuscito a condurre alla sbarra i vertici dell’agenzia statunitense con l’accusa di manipolazione del mercato. La prossima udienza sarà giovedì prossimo e il processo potrebbe concludersi entro fine anno. Le ultime carte depositate da Ruggiero individuano quello che potrebbe essere il movente di quei declassamenti: la clausola di rescissione anticipata di un contratto derivato che il governo italiano stipulò con la banca d’affari Usa Morgan Stanley. Un tesoretto da 2,567 miliardi di euro che il governo di Mario Monti pagò il 3 gennaio 2012, senza tentennamenti, nonostante il procedimento in corso a Trani contro S&P. 

Lo scorso 10 febbraio Maria Cannata, a capo della direzione debito pubblico del nostro ministero dell’Economia, ha depositato alla Camera una relazione in cui si legge: «Tra le situazioni critiche che si è dovuto fronteggiare nei momenti peggiori della crisi emerge in particolare la ristrutturazione, funzionale alla successiva chiusura di diverse posizioni in derivati in essere con Morgan Stanley, realizzata tra dicembre 2011 e gennaio 2012. La peculiarita? di questo complesso di operazioni risiedeva nella presenza di una clausola di estinzione anticipata unica nel suo genere, in quanto attribuita non ad una singola operazione, bensì presente nel contratto quadro in essere con la controparte e ricomprendente tutte le operazioni sottoscritte con quella banca. Il contratto quadro (…) era stato sottoscritto nel gennaio 1994 e prevedeva (…) il diritto di risoluzione anticipata dei contratti derivati in essere, al verificarsi del superamento di un limite prestabilito di esposizione della controparte nei confronti della Repubblica. Tale limite era di importo contenuto: $ 150 mln ove la Repubblica avesse un rating tripla A, $ 75 mln in caso questo si collocasse in area doppia A, $ 50 mln in caso singola A». Dunque a mettere quel cappio al collo del nostro Paese fu il governo di Carlo Azeglio Ciampi. All’epoca il ministro del Tesoro era Paolo Barucci e il direttore generale del dicastero era un certo Mario Draghi che nel 2011 sarebbe divenuto presidente della Banca centrale europea. «Nonostante tali soglie fossero state superate da anni, la banca non aveva mai dato segno di voler far valere la clausola» aggiunge Cannata. «Tuttavia, alla fine del 2011 la situazione del credito della Repubblica appariva cosi? fragile che Morgan Stanley ritenne di non poter tralasciare di avvalersi della posizione di forza che la clausola le conferiva. Ignorare il vincolo contrattuale non era possibile, perche? il danno reputazionale che ne sarebbe derivato sarebbe stato enorme, e assolutamente insostenibile, soprattutto in un contesto di mercato come quello» ha concluso Cannata. Il pm di Trani non crede a quell’ineluttabilità. 

Però dottor Ruggiero la colpa di tutto questo sembra essere di gente del calibro di Draghi, Ciampi, Barucci… 

«A me non interessa chi ha assicurato quella clausola unilaterale, ma chi se ne è avvalso. Mi interessa dimostrare che il declassamento dell’Italia da parte di S&P era illegittimo e che il ministero dell’Economia (allora guidato dal premier Monti ndr) forse poteva aspettare un po’ a pagare quei soldi a una banca che faceva parte dell’azionariato di chi ci ha declassati».  

Si riferisce alla Morgan Stanley? 

«Io so che nel semestre in cui S&P, mi lasci usare un termine non tecnico, ha bastonato l’Italia, c’è stata una banca, Morgan Stanley, che ha battuto cassa con il nostro governo grazie a una clausola legata anche al nostro declassamento. E guarda caso questa banca partecipa all’azionariato di S&P. Questo dimostra l’enorme conflitto d’interessi in capo a queste agenzie».  

Qual è il suo obiettivo? 

«Mi interessa accertare gli effetti di quella gragnuola di colpi che abbiamo preso tra il maggio 2011 e il gennaio il 2102». 

A che colpi si riferisce? 

«Ci furono 4 o 5 azioni di rating nei confronti dell’Italia, compresa una bocciatura preliminare quando era ancora ufficiosa la manovra correttiva di Giulio Tremonti (il ministro dell’Economia del governo Berlusconi, ndr). Fu un semestre assolutamente caldo per l’Italia». 

Qual è il reato ipotizzato? 

«La manipolazione di mercato nella misura in cui un immeritato declassamento rappresenta un’informazione falsa al mercato. Infatti tutte le volte in cui sono partiti quei colpi contro l’Italia, l’agenzia sapeva che non li meritavamo». 

E come fa a dirlo?  

«Lo dicono le intercettazioni telefoniche e le email intercorse tra gli analisti di S&P che abbiamo sequestrato. Il responsabile italiano aveva avvertito i colleghi che quello che stavano scrivendo dell’Italia non corrispondeva a verità e per questo li pregava di togliere il nostro dai Paesi destinatari del rating negativo. Se questo lo mettevano nero su bianco loro stessi, è chiaro che quel declassamento è un’informazione falsa ai mercati». 

Ha altri elementi per sostenere che non meritassimo quei giudizi negativi? 

«All’attuale ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, allora autorevole capo economista dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), chiesi se fosse d’accordo con quella retrocessione. Rispose che non lo era assolutamente perché i dati economici fondamentali dell’Italia dicevano altro. Durante le indagini abbiamo raccolto un coro unanime di pareri simili. Tutti, dico tutti, da Monti a Tremonti a Draghi, hanno assicurato che l’Italia non doveva essere declassata». 

Perché il ministero dell’Economia non si è costituito parte civile nel vostro processo? 

«Se è per questo, neanche la Presidenza del consiglio lo ha fatto». 

Lei ha dichiarato in aula di essersi «sorpreso» per questo… 

«Confermo l’aggettivo, ma non aggiungo altri commenti per non beccarmi un’azione disciplinare. E la prego di non insistere perché ho famiglia anche io (ride). Comunque ce la farò da solo a sostenere l’accusa in giudizio, senza bisogno del ministero, anche se penso che la sua costituzione sarebbe stata nell’interesse della comunità». 

Perché si è «sorpreso»? 

«Perché la manipolazione di mercato offende e danneggia dal punto di vista economico un Paese. I nostri titoli divennero investimenti non più graditi».  

Per quale motivo il nostro governo sembra non voler chiedere un risarcimento per quelle bocciature immeritate? Forse perché sono "ingombranti" i nomi di coloro che stipularono quei contratti derivati? 

«Questo lo domandi al governo».  

Draghi lo avete sentito? 

«Lo abbiamo ascoltato in un procedimento parallelo. E verrà citato come testimone in questo processo».  

C’è stato un complotto nei confronti dell’Italia e del governo Berlusconi? 

«Ho le mie idee sul punto, ma non posso esprimerle. In aula ho raccontato al giudice che nelle intercettazioni tra gli operatori di S&P emergeva che già nel giugno 2011 c’era interesse per alcuni movimenti». 

Quali movimenti? 

«Per esempio in una telefonata un indagato diceva: “Aspetta che Berlusconi sta andando al Quirinale” (a rassegnare le dimissioni da premier ndr). Le intercettazioni, che sono note, mandano segnali ben precisi». 

Quegli analisti sembravano contenti per le dimissioni del Cavaliere? 

«C’è un regolamento europeo che stabilisce che quando un’agenzia di rating ha maturato un report o altri atti di questo tipo, non può tenerli nel cassetto, deve subito riferirli al mercato, questi signori invece indugiavano, pilotavano la tempistica e questo significa influire anche sulla politica. Un progetto che qualcuno può chiamare anche complotto».  

Queste scelte hanno sfavorito il governo Berlusconi? 

«Non hanno favorito l’Italia e ovviamente ha pagato in particolar modo chi stava in quel momento al governo». 

Lei si aspetta che l’attuale esecutivo si costituisca parte civile? 

«Posso solo dire che lo spero». 

Così l'Europa ci frega un'altra volta: ci rispedisce i profughi sbarcati qua

Immigrazione, la beffa: l'Europa ci rispedisce i profughi sbarcati in Italia

di Brunella Bolloli 



Entrano, vanno, poi ritornano. Ce li rimanda l’Europa. Sono circa 15mila i profughi che, ogni anno, vengono rispediti qui dagli altri Paesi dell’Ue. Italia terra di frontiera e di prima accoglienza e, solo per alcuni, luogo dove fermarsi, mentre per molti altri dovrebbe essere solo un approdo sicuro prima di stabilirsi altrove. Dovrebbe se non comandasse in Europa il Trattato di Dublino, che impone e vincola il primo Stato di accoglienza ad assumersi ogni responsabilità nei confronti dei richiedenti asilo. Siamo noi, in virtù della nostra posizione geografica, la salvezza per chi fugge da guerre e persecuzioni in patria: somali, libici, eritrei, siriani, afghani e tanti altri. E siamo sempre noi, quindi, a prenderci cura di chi viene rispedito indietro da Francia, Germania, Svizzera e nord Europa o da quei Paesi dell’Unione diversi da quello in cui sono entrati. In pratica, un’assenza di libertà. 

Il fenomeno dei «profughi di ritorno» è in costante crescita. Loro sono i dubliners, ossia i casi Dublino, come li chiamano le associazioni umanitarie: migranti soggetti ai regolamenti seguiti alla prima Convenzione di Dublino del ’90, poi rivista nel 2003. In base a questi accordi lo Stato europeo competente per la decisione su una domanda d’asilo è quello in cui il richiedente è sbarcato per primo. Una norma che penalizza l’Italia più che altri, visto che non ci vuole un genio a capire che è sul nostro suolo che tanti migranti mettono piede per primo. Qui, dopo i soccorsi, si procede con l’identificazione tramite fotosegnalazione e impronte digitali, si cominciano le pratiche per lo status di rifugiato richiedente asilo e qui si deve restare, dice la regola europea. Molti cercano di scansare questa operazione che li condanna a un legame con l’Italia: il loro obiettivo è raggiungere parenti o amici in Olanda, Svezia, Francia, Germania dove c’è più lavoro e si può pensare di ricominciare una vita. Puntano a lasciare Roma senza lasciare tracce, come dei fantasmi fuori controllo. Ma è il trattato di Dublino, o meglio la rete Eurodac che poi li ricaccia in Italia. Eurodac è la banca dati delle impronte digitali: se è in Italia che si è stati «schedati» allora torneranno qui tutti coloro che il principio del non-refoulement (non respingimento) stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 tutela. In base a questo criterio, chiunque sia fuori dal proprio Paese per timore di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le sue idee politiche, ha diritto a essere protetto e non respinto. Non può essere certo ricondotto in patria, per cui viene accompagnato nel primo Paese d’accoglienza. E dove se non in Italia com’è avvenuto per i profughi rimandati con il Dublin transfer? La richiesta di «riammissione passiva», nei primi 11 mesi del 2014, è stata stimata per 15.760. Di questi, ha scritto Avvenire, ne sono stati accolti 13.300. La Francia è stata la più “generosa”: ci ha rimandato 8mila migranti, l’Austria 4.800, la Svizzera ce ne ha rispediti 1.282. Dalla Germania della Merkel, invece, solo 6 richieste: sorprendente se pensiamo che a giugno il premier Matteo Renzi era tornato da Bruxelles sconfitto in tema di immigrazione. Renzi era andato convinto di spuntarla con il documento del «mutuo riconoscimento» delle decisioni sul diritto d’asilo (cioè lo status di rifugiato spendibile in tutta l’Ue e non solo in Italia), invece la Cancelliera lo aveva gelato. E con lei i governi del nord. Morale: Italia obbligata dall’Ue a tenersi i profughi. Grane in più per il ministro dell’Interno, Angelino Alfano e per i coordinamenti territoriali delle varie prefetture chiamati a gestire i centri per i «dublinanti».

Un sistema, quello del trattato di Dublino, definito «inefficace e inumano» perfino dal Cir, Consiglio italiano per i Rifugiati. «È evidente che l’attuale sistema europeo d’asilo non funziona», ha dichiarato il direttore Christopher Hein. «Un rifugiato riconosciuto dall’Italia deve esserlo anche per la Germania: deve avere diritto come ogni cittadino europeo di muoversi liberamente». Lo status di rifugiato dovrebbe cioè essere valido in tutta l’Unione senza legare le persone che hanno bisogno di protezione a un singolo Paese, l’Italia il più delle volte. Basta guardare le tabelle Eurostat sui trasferimenti con il sistema Dublino nel 2013: noi abbiamo «esportato» 5 profughi, l’Ue ce ne ha rimandati 3.460. Zero alla Norvegia, zero alla Svezia, 834 in Francia, 751 in Svizzera. E nel 2014 le presenze si sono moltiplicate. 

martedì 3 marzo 2015

Manuale di Renzi per i giornalisti: ecco come devono usare la lingua

Matteo Renzi ruba il mestiere a Laura Boldrini: vuole la lingua politicamente corretta

di Marco Gorra 



Ogni generazione si ritrova con la neolingua di imposizione governativa che si merita. Ai nostri nonni era toccata quella autarchico-mussoliniana, in forza della quale il blues di St. Louis andava chiamato «tristezza di San Luigi» e per ordinare un cocktail si doveva chiedere al titolare della mescita (guai infatti anche solo a pronunciare la parola bar) di preparare una «bevanda arlecchina». A noialtri contemporanei rischia di andare persino peggio: con l’italianizzazione passata (fin troppo) di moda e la classifica delle tendenze del momento indiscutibilmente comandata dal politicamente corretto, il governo ha deciso di imprimere al vocabolario di noi tutti una decisa sterzata socialmente responsabile.

A dare l’annuncio è il dipartimento per le Pari opportunità di Palazzo Chigi. Dove con palpabile soddisfazione si rende nota «l’approvazione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri del decreto che costituisce un gruppo di esperti che abbia il compito di sensibilizzare la società sull’uso corretto della lingua italiana in un’ottica rispettosa di entrambi i generi». Il compito di coordinare il pool di esperti (che almeno eserciteranno a titolo gratuito), toccherà alla consigliera del premier per le pari opportunit, onorevole Giovanna Martelli. La quale non sta più nella pelle dalla felicità: «Educare e sensibilizzare a una comunicazione e informazione rispettosa e priva di stereotipi e visioni degradanti del femminile», sostiene, «fa parte della rivoluzione culturale che è necessaria per la lotta alla violenza sulle donne». Per fortuna, la rivoluzione culturale è in buone mani: «Il gruppo», spiega la parlamentare, «sarà composto da esperte ed esperti del linguaggio di genere, del mondo del lavoro, di modelli educativi e di sociologi» e produrrà «delle linee guida per promuovere il linguaggio di genere presso la pubblica amministrazione e nel settore dei media».

Permanendo il mistero su come si faccia a diventare «esperte ed esperti del linguaggio di genere» (basta un buon vocabolario? Esistono dei corsi? Bisogna sapere anche il neutro?), e preso atto di come Matteo Renzi sia riuscito nel capolavoro di superare a sinistra Laura Boldrini e similari sacerdoti della gender equality (gente per cui il tabù linguistico è tutto ma che alla commissione di esperti ancora non erano arrivati), resta da capire come funzioneranno le linee guida di cui sopra. Finché si tratta di pubblica amministrazione, il problema ancora non si pone: la PA è affare statale, e se lo Stato decide che in nome della lotta dura alla discriminazione da oggi in poi bisognerà obbligatoriamente dire ingegneressa e direttora, è un problema suo. Più scivoloso il discorso sui media, che affare statale non sono e a cui non si capisce quale titolo avrebbe il governo per imporre il birignao politicamente corretto. A meno che, insieme all’italianizzazione, non sia passata di moda anche l’idea che i mezzi di informazione abbiano il diritto di decidere liberamente come chiamare le cose. Roba da mettere tanta di quella tristezza che a San Luigi se la sognano.

In pensione prima con meno soldi Ecco come sarà il tuo assegno

Pensioni, si andrà prima ma con assegni più leggeri





II presidente dell'Inps Tito Boeri, economista dell'Università Bocconi, in un'intervista al Corriere della Sera spiega come saranno le pensioni del futuro. Ma prima spiega quali saranno i suoi guadagni come presidente dell'Istituto di previdenza. "Prenderò 103 mila euro lordi l' anno, uno stipendio elevato, ma pur sempre meno di quanto prende un dirigente di seconda fascia all' Inps e molto meno di quanto guadagnavo prima. Ad eccezione del Festival dell' Economia di Trento, per il quale quest' anno sono ancora il direttore scientifico, ho sospeso tutti i miei lavori precedenti per questo incarico che mi ha già cambiato la vita". Il neopresidente racconta poiu come cambierà l'ente. Un cambiamento che si può sintetizzare in poche parole: età pensionabile più flessibile, una maggiore consapevolezza da parte dei lavoratori di quella che è la loro situazione contributiva per poter pianificare il loro futuro. Boeri che annuncia che "ai lavoratori senza connessione internet manderanno una lettera con la stima della pensione, per gli altri ci sarà invece un "pin" con cui accedere attraverso il sito Inps al proprio conto e simulare la pensione futura, secondo diversi scenari di carriera e di crescita dell' economia".

Più flessibilità - Boeri annuncia che nel 2015 "daremo questa possibilità a tutti i lavoratori dipendenti privati. Per quelli pubblici ci vuole più tempo perché è più difficile ricostruire i versamenti. Nel 2016 dovrebbe essere possibile anche per i parasubordinati. Boeri si sofferma poi sulla flessibilità dell'età pensionabile sui cui c'è ampio consenso nel governo e sugli esodati: " Finora il tema degli esodati è stato affrontato con sei decreti di salvaguardia  che spesso però aiutano anche chi ha redditi elevati mentre ci sono tante altre situazioni non protette. Bisognerebbe insomma spendere meglio le risorse pubbliche, prevedendo per esempio un reddito minimo per contrastare le situazioni di povertà, finanziato dalla fiscalità generale. Poi, dal lato della previdenza, è chiaro che, usando il calcolo contributivo, si potrebbero introdurre forme di flessibilità".

Uscire prima dal lavoro ma con pensioni più leggere. E' questa l'idea anche se precisa Boeri "prima bisogna convincere la Commissione europea, perché purtroppo i conti pubblici vengono considerati nella loro dimensione annuale anziché sul medio-lungo periodo. Per l' Ue se si consentono i pensionamenti anticipati risalta solo l' aumento immediato della spesa ma non il fatto che poi si risparmierà perché l' importo della pensione sarà più basso. Bisogna battersi in Europa per arrivare a una valutazione intertemporale del bilancio" E ancora: " Faremo anche qui un' operazione trasparenza: uno studio per categorie mettendo a confronto l' importo delle pensioni in pagamento con quello che si ottiene dal ricalcolo col metodo contributivo. Sulla base di questi dati potremo formulare proposte d' intervento.

Italiani in fuga verso i nuovi paradisi fiscali Ecco dove va chi vuole "nascondere" il suo tesoretto

Italiani in fuga verso i paradisi fiscali, ecco dove vanno





Dopo la Svizzera e il Liechtenstein con cui sono stati siglati gli accordi sul segreto bancario e Montecarlo, Lussemburgo e Singapore, le altre piazze offshore che hanno già firmato o stanno per firmare intese simili, restano ormai ben pochi paradisi fiscali: Dubai, Panama e qualche Paese caraibico. Così gli italiani che vogliono "salvare" il proprio tesoretto cosa fanno? Cambiano residenza. Riporta ItaliaOggi che il 2014 è stato un anno record per i cambi di residenza verso l'estero: al 31 dicembre scorso i cittadini iscritti all'Aire hanno superato quota 2,4 milioni. E a eccezione della Germania è la Svizzera la meta preferita (352 mila residenti). In crescita i residenti in: Emirati Arabi (+29%), Panama (+23%) e Singapore (+16%).

E non solo perché questi Paesi offrono nuove opportunità di lavoro e di affari. Per molti italiani che hanno capitali irregolari prendere la residenza all'estero è l'unico modo per evitare una indagine fiscale. Ma attenzione, perché in realtà questo escamotage non durerà ancora molto. Un paio d'anni al massimo e praticamente tutti i Paesi si adegueranno al nuovo scambio di informazioni quindi non resterà che rivolgersi a un nuovo paradiso fiscale, sempre più esotico e sempre meno affidabile dal punto di vista politico e finanziario. Non solo. Proprio il cambio di residenza all'estero potrebbe rappresentare per l'Agenzia delle entrate un motivo di ispezione del contribuente, senza dover attendere lo scambio di informazioni.