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lunedì 14 dicembre 2015

La verità di Pansa sulla Boschi: "Quello che so sulla sua ascesa..."

La verità di Pansa sulla Boschi: "Quello che so sulla sua ascesa..."


di Giampaolo Pansa



C’è una grande incognita che incombe sulla Leopolda, la cattedrale dove viene fatto santo Matteo Renzi. Un’incognita triste perché riguarda una giovane donna, il ministro più importante e insieme il più ammirato del governo. Ma all’apertura, la sera di venerdì 11 dicembre, la vecchia stazione ferroviaria di Firenze è soltanto un avamposto protetto come un fortino. Ci si arriva dopo un percorso disseminato di ostacoli a non finire.

Ho dovuto passare fra turbe di popolo inferocito. Prima di tutto, gli obbligazionisti di Arezzo che avevano un solo obiettivo: contestare il premier segretario e la sua ministra prediletta, Maria Elena Boschi, chiamata da sir Matteo a guidare l’evento. Poi sono comparsi i gruppi di antagonisti di sinistra e di destra che avevano tentato di disturbare una cerimonia renziana nella sede universitaria di Novoli, poi cancellata dal premier. Quindi si sono fatti sotto gli attivisti di «Leopolda viva» che protestano per il degrado e l’insicurezza del quartiere. Infine sono incappato nelle barriere disposte dalle forze dell’ordine a tutela del premier-segretario che non poteva essere insidiato proprio nella culla del proprio potere.

La Leopolda era blindata come non mai. Anch’io sono stato sottoposto al controllo del metal detector, neanche fossi un terrorista kamikaze pronto a farsi esplodere. L’aggeggio ha dimostrato che ero del tutto inoffensivo. Ma a convincere le sentinelle a lasciarmi passare, più che il tesserino dell’Ordine dei giornalisti, è stata la mia veneranda età. Un killer ottantenne? Ma non scherziamo! Un maresciallo della Polizia di Stato ha ordinato ai suoi uomini: «Fate passare il dottore!». Poi mi ha chiesto: «Per quale giornale lavora?». «Per Libero, un quotidiano di Milano». Il maresciallo mi ha strizzato l’occhio: «Porti il mio saluto amichevole al direttore!».

Lo spazio della Leopolda era ancora mezzo vuoto. E così mi sono trovato subito di fronte a una faccia arcinota. Era il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, renziano a metà essendo un superstite di Scelta Civica, il piccolo partito di Mario Monti. A quel punto mi sono sentito subito a casa. Nel senso che lo Zanetti è una mia vecchia conoscenza televisiva.

Sono ben pochi quelli che partecipano a una infinità di talk show come succede a lui. Ecco uno stakanovista del piccolo schermo, una presenza ossessionante. L’avevo ancora ammirato a Piazzapulita la sera di giovedì 10 dicembre, un po’ allibito nel vedere in diretta tanta gente che aveva perso i risparmi bruciati dalla Banca Etruria. E l’ho rivisto subito la mattina successiva, ad Agorà. Sempre con i suoi occhiali dalla montatura rossa, un vezzo da adolescente.

Gli ho chiesto: «Signor sottosegretario, come mai porta questi occhiali sbarazzini?». Mi ha risposto: «Per distinguermi dagli altri membri del governo. E dimostrare che non sono un sottufficiale del Grande Leader». Ho replicato: «Però si dice che venga mandato di continuo in tivù perché, in questi tempi acidi, sia lei a togliere le castagne del fuoco». Zanetti ha spalancato gli occhioni: «È una calunnia! Tra i miei doveri c’è anche quello di mantenere il contatto con il popolo dei nostri elettori!».

Le ultime battute di Occhiale Rosso vengono sepolte sotto una tempesta di applausi destinati al sindaco di Firenze, Dario Nardella. È in gran forma. Una lunga intervista di Aldo Cazzullo del Corriere della Sera lo ha ringalluzzito. Finalmente può mettere la testa fuori dalle pagine fiorentine e apparire sull’edizione nazionale. Nardella ne approfitta e spiega agli ospiti della Leopolda le proprie certezze di renziano al mille per mille.

Spiega che destra e sinistra sono residui del secolo passato. La formula vincente è quella del Partito della Nazione che verrà guidato da Renzi di qui all’eternità. Il suo trionfo non potrà essere fermato da nessuna Armata Brancaleone. Nardella rivela che cosa sia questa truppa: «È un’ammucchiata di tutti gli avversari di Matteo. Un fronte vasto che va da Fassina a Salvini, passando per Grillo e Brunetta. Se il Pd rispondesse schiacciandosi a sinistra, commetterebbe un errore fatale!».

Un eminenza da Partito della Nazione compare in quel momento alla Leopolda. È Giuseppe Sala, il manager che ha guidato l’Expo 2015. Il pubblico lo invoca: «Ti vogliamo sindaco di Milano!». Sala è arrivato sin qui soltanto per raccontare il successo planetario della sua fiera mondiale. Si è anche tolto la cravatta e la giacca per adeguarsi al look renzista.

Ma in quel momento la vecchia stazione è percorsa da una scossa elettrica. Qualcuno comincia a urlare: «Il capo leghista Salvini si è infiltrato tra noi». Indicano un tizio seduto da solo in un angolo della Leopolda. È un signore barbuto che indossa una felpa rossa con la scritta «Arezzo». Lo raggiunge una squadretta di esaltati che iniziano a malmenarlo. Poi il presunto leghista viene salvato da una ragazza dello staff renziano che urla: «Fermatevi, è Matteo Orfini, uno dei nostri!». Il presidente del Pd, in pessimi rapporti con il premier, si era camuffato in quel modo per accertarsi di che aria tirasse nei suoi confronti.

Ammetto di essermi imbucato alla Leopolda nella speranza di qualche colpo di scena. Però ho perso il mio tempo. Nel regime renziano nulla sfugge allo sguardo del padrone. Un pizzico di suspence potrebbe venire dal corteo super incavolato dei risparmiatori aretini messi al tappeto dalla Banca Etruria. Ma hanno già fatto sapere che si fermeranno a cinquecento metri dallo spettacolo di Matteo. L’Italia è davvero un paese felice. Neppure l’essere finiti sul lastrico è una ragione sufficiente per dar fuori da matti.

L’unica vera sorpresa viene dal caso di Maria Elena Boschi. La super ministra salta la cerimonia d’apertura, arriva venerdì sera sul tardi, rinuncia a parlare, rifiuta l’invito della Gruber a Otto e mezzo, non vuole incontrare giornalisti. Dicono sia molto stressata. Quanto a me, confesso che la sua vicenda umana mi aveva sempre attratto. Una bella ragazza di provincia che dal nulla era arrivata, a soli trentadue anni, a essere il ministro più importante del governo Renzi, quello delle Riforme costituzionali.

Ma a quel punto si è imbattuta nel primo, vero ostacolo: un’ondata di elogi ruffiani, di inchini, di retorica. Ho sott’occhio un titolone del Foglio di due mesi fa: «La bella Colonnella. A 34 anni sta per dare un colpo di ghigliottina al bicameralismo. Una giovane macchina da guerra che ha saputo resistere a tutti gli accerchiamenti».

Poi la fortuna l’ha abbandonata. E la ragione è nota. Il crack della Banca Etruria dove il padre ricopriva la carica di vicepresidente, gli obbligazionisti truffati, il suicidio di uno di loro. Il 10 dicembre, in un dibattito pubblico a Roma, Maria Elena difende il papà. Sostiene: è una persona per bene, è finito sui giornali perché è mio padre, per questo se sento del disagio è verso di lui.

Non so come finirà questa storia. Ma è inevitabile che sulla kermesse renzista incomba un problema pesante che nessuno aveva previsto: la sorte di Maria Elena. È possibile che non lasci il governo. Tuttavia è certo che adesso la sua ascesa sarà riletta con occhi diversi. Credo non le verranno più dedicati libri osannanti. Come quello uscito un mese fa: Una tosta. Chi è e dove arriverà Maria Elena Boschi.

Non lo sa neppure lei. E nemmeno il Giglio magico fiorentino.

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