Selvaggia Lucarelli: chi ha sulla coscienza la vita delle italiane rapite
di Selvaggia Lucarelli
D’accordo. Ha ragione Severgnini. Greta e Vanessa sono figlie dell’Italia buona. Di quell’Italia meno raccontata e più silenziosa, popolata da anime buone e ragazze di vent’anni che anziché trascorrere le vacanze a Mykonos e riempire la loro bacheca facebook di selfie in bikini, decidono di partire per l’Africa. L’India. La Palestina. O la Siria. E per aiutare chi soffre per la guerra o per la povertà, mica chi ha bevuto due bicchieri di troppo fuori da una discoteca di Ibiza. Ha ragione Severgnini quando dice che chi sui social liquida il rapimento delle due ragazze con argomenti da bar («Se la sono cercata!», «A Cesenatico non le rapivano!») è figlio dell’Italia crudele e pavida. Greta e Vanessa non erano in Siria per stupire gli amici con il loro viaggio non convenzionale. I cretini sono altri. Sono quelli che vanno in Yemen e per portare a casa il ritratto con la grande moschea sullo sfondo o per giocare a fare gli impavidi de noantri, si fanno rapire e costringono il governo a trattare con bande di malavitosi. Sono quelli che sì, in Egitto c’è la guerra civile, ma anche l’offerta volo più hotel cinque stelle più pensione completa più gioco aperitivo a 900 euro, pazienza se poi ci deve venire a riprendere l’esercito. Sono quelli che prenotano una settimana in Ucraina, poi finiscono sotto le bombe, devono tornare a casa e reclamano il rimborso perché la Farnesina aveva sconsigliato di andare in Ucraina, sì, ma non è che avesse messo uno con la scimitarra al check in per Kiev.
Greta e Vanessa non erano turiste sceme. Erano in Siria per aiutare le vittime di un conflitto. Per portare cibo e medicine, per insegnare le tecniche di pronto soccorso. Sono figlie dell’Italia buona, certo. Ma anche dell’Italia approssimativa e superficiale. Il volontariato è cosa nobile. E lo è anche e soprattutto quando riguarda associazioni minori, lontane da riflettori, testimonial patinati e lanci di uffici stampa. Oltre ad essere cosa nobile però, il volontariato è spesso cosa rischiosa e se il volontariato fai da te va bene per certe zone del mondo, per altre, come la Siria, diventa una roulette russa che non serve a nessuno. Due ragazze di vent’anni che entrano in una zona di guerra preda di disordini e violenze e in mano a jihadisti con numerosi precedenti di rapimenti di occidentali, passando il confine dalla Turchia attraverso i campi profughi, non sono più volontariato. Non sono coraggio. Sono follia. Un’associazione nata da poco tempo con progetti umanitari indipendenti e i cui fondatori sono due ragazze di vent’anni, non ha mezzi, strumenti, supporto ed esperienza per assumersi un rischio del genere. Rischiano anche i volontari supportati da associazioni umanitarie ben strutturate, che operano in condizioni di sicurezza massima, passando attraverso i confini siriani con un regolare visto, figuriamoci due ragazze giovanissime supportate, probabilmente, solo dallo slancio dei vent’anni e dall’amore per il prossimo, che a quell’età non conosce ancora prudenza e disincanto. E allora, se a vent’anni, come dice Severgnini il limite tra l’incoscienza e il coraggio è labile, mi chiedo se il terzo socio fondatore di Horryaty, Roberto Andervill che di anni ne ha parecchi di più, non dovesse, a quelle ragazze, un po’ di quella prudenza che l’età dovrebbe regalare. Leggo le sue dichiarazioni e rimango perplessa. «Non saranno rilasciate dichiarazioni. Tutte le informazioni sul progetto potete leggerle sulla pagina facebook. Il progetto Horryaty proseguirà non appena le ragazze torneranno». Come se Greta e Vanessa fossero cadute dagli sci e si trattasse solo di far guarire un ginocchio per rimettercele sopra. Come se non fosse lecito fare delle domande e voler sapere qualcosa di più, visto che un Paese si è mobilitato per riportarle a casa. Poi c’è Silvia Moroni, il presidente della onlus «Rose di Damasco» che sostiene il progetto e sentiva spesso le ragazze via skype. Dice che le ragazze volevano prolungare la loro missione. Mi domando se dopo il rapimento di Quirico e di altri occidentali in quelle zone non abbia pensato di esporre quelle ragazze a un rischio troppo grosso per la loro età, per la loro esperienza e per quel luogo. Ci sono altre regioni del mondo in cui lo slancio e la generosità dei vent’anni può essere utile, senza che quei vent’anni corrano rischi troppo grossi e troppo annunciati.
E allora mi spiace dire qualcosa di scomodo, ma non posso farne a meno. C’è, talvolta, una punta di esaltazione anche in chi fa del bene. C’è, talvolta, nei figli dell’Italia buona, quel fanatismo dal sapore vagamente boldriniano che fa dire «basta con gli alberghi a cinque stelle finchè ci saranno i migranti» o «vado in Siria passando per la Turchia là dove le bande armate fanno quel che vogliono di locali e occidentali». C’è un confine, è vero, tra il coraggio e l’incoscienza, come dice Severgnini. Ma c’è un confine anche tra il coraggio e il senso di onnipotenza. Ed è quello che spesso si oltrepassa quando si è troppo giovani o troppo candidamente idealisti per conoscere i propri limiti, figuriamoci quelli del mondo. Figuriamoci quelli di un Paese nel caos, come la Siria, in cui in molti hanno dimenticato anche l’altro confine, quello che la guerra, qualsiasi guerra, calpesta e cancella: il confine tra il bene e il male.
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