Larghe intese Renzi-Silvio: l'analisi di Belpietro
di Maurizio Belpietro
Passate le elezioni europee, Matteo Renzi toccherà il traguardo dei suoi primi cento giorni a Palazzo Chigi. Cento giorni sono pochi per giudicare un governo, ciò nonostante si sostiene che i tre mesi iniziali sono per qualsiasi esecutivo una specie di luna di miele con il proprio elettorato. Nelle prime settimane infatti l’attesa e la fiducia sono al massimo e i ministri si danno un gran da fare per non deludere le attese. Le idee migliori vengono messe sul tavolo al momento della partenza, dopo spesso subentra la routine. Dunque, anche se manca ancora una decina di giorni, è forse il momento di cominciare a ragionare su ciò che Renzi ha fatto, per capire ciò che farà, ma soprattutto per comprendere il suo e il nostro destino.
Ieri, sotto il titolo «Non si cresce di sole promesse» Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno scritto sulla prima pagina del Corriere della Sera un editoriale senza sconti, in cui si ricorda che allo stato attuale i risultati dell’azione di governo sono piuttosto scarsi. Se si escludono gli 80 euro a dieci milioni di italiani, cioè un terzo dei lavoratori in attività, provvedimento dal quale per altro sono esclusi pensionati e partite Iva, beh davvero si può dire che di cose fatte ce ne sono davvero poche. Sì, è stata varata l’abolizione delle Province, ma lasciando praticamente intatto il grosso dei costi degli enti soppressi. E poi è stato votato il decreto lavoro, misura che, oltre ad essere stata depotenziata dalle modifiche volute dai sindacati, è molto lontana dal progetto di piano del lavoro annunciato.
Altro non c’è o se c’è è sulla carta. La riforma elettorale è abbozzata, ma non è legge e forse non lo sarà mai. Lo stesso si può dire delle modifiche costituzionali che dovevano portare all’abolizione del Senato: il disegno di legge esiste, ma dovrà passare tra le forche caudine dello stesso Senato e non è detto che riesca a superarle. Nessuna traccia neppure del piano contro la burocrazia: annunciato da Renzi ha fatto la stessa fine di altre cose, compresi il pacchetto di interventi a favore della scuola e la spending review. Nelle prime settimane a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio è stato abilissimo nel rilanciare la fiducia del Paese e quella degli italiani nei confronti dell’esecutivo. Molte le operazioni d’immagine, come ad esempio la vendita su eBay delle auto blu o la polemica con i manager pubblici sugli stipendi. Ma poi dalle parole non si è passati ai fatti: poche le vetture di servizio passate di mano, invariati gli stipendi dei dirigenti delle grandi aziende (in compenso i manager sostituiti hanno preteso 23 milioni di buonuscita).
Insomma, ad una partenza ad alta velocità del programma di governo non è seguito un arrivo altrettanto veloce delle leggi promesse. Sarà per questo che i sondaggi (che non possono essere pubblicati) segnalano per la prima volta in tre mesi un arresto della corsa di Matteo Renzi? Oppure sarà che alle dichiarazioni ottimistiche del premier non sono corrisposti fatti così significativi da cambiare la percezione delle famiglie a proposito delle proprie prospettive economiche? Forse i dati del Pil, della disoccupazione e del debito pubblico, uniti allo spread che è tornato a salire, hanno spento gli entusiasmi? Forse. E allora converrà ragionare di quanto potrebbe accadere in futuro, anche sulla scorta dei risultati che potrebbero uscire dalle urne domenica prossima. Se infatti il Pd di Renzi dovesse assestarsi intorno al 30 per cento ma tallonato a poca distanza dal Movimento Cinque Stelle di Grillo, per il governo sarebbero guai seri. Si è a lungo scritto in questi giorni di cosa potrebbe accadere qualora Forza Italia non superasse il 20 per cento.
La maggior parte degli osservatori è convinta che Berlusconi getterebbe tutto all’aria, stracciando il patto del Nazareno stipulato con Renzi. In realtà le cose non stanno così, perché anche con il 18 per cento se si alleasse con Ncd, Fratelli d’Italia e Lega, Forza Italia e soci potrebbero comunque rimanere della partita, cioè arrivare al ballottaggio previsto dall’Italicum. Il problema semmai è con chi il centrodestra nel suo complesso si confronterebbe. Se infatti il Pd dovesse assestarsi intorno al 30 per cento e il M5S dovesse stare a un passo dal partito di Renzi, la sfida alle prossime politiche sarebbe tra loro. Non potendo allearsi facilmente con altri, sia il Pd che i Cinque stelle lotterebbero per il ballottaggio con il centrodestra e uno solo alla fine ce la farebbe. Uno scenario da incubo? Per ora è solo ipotetico ma non improbabile e lascia aperta una possibilità. Se il Pd non dovesse andare così bene come si dice, se cioè la corsa di Renzi dopo soli tre mesi cominciasse a mostrare segni di stanchezza, a voler far saltare il banco delle riforme potrebbe essere lo stesso premier. Al quale, fra un anno o due, non converrebbe andare a votare con l’Italicum, cioè una volta logorato dai risultati economici, ma molto prima e con il Consultellum. Un proporzionale puro assicurerebbe al Pd una rappresentanza del 30 per cento e al centrodestra potrebbe portare qualche cosa in più. In tal caso non ci sarebbe un partito con la maggioranza assoluta in Parlamento, come sogna Renzi, ma si riaprirebbe la possibilità di un governo Pd-Forza Italia, cioè una riedizione delle larghe intese. Fantasie? Vedremo. Ma mai dire mai.
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