Visualizzazioni totali

domenica 2 aprile 2017

Sono passati quattro mesi ma... niente Renzi e quel giallo da centomila euro

Renzi, il giallo del libro mai uscito su "#enricostaisereno"



Doveva uscire entro Natale, poche settimane dopo la batosta referendaria del 4 dicembre. Poi a gennaio, no a febbraio. Ma anche marzo se n'è andato. E del libro di Renzi non c'è traccia sugli scaffali delle librerie. L'ex premier lo aveva annunciato lo scorso dicembre come "la vera storia di #enricostaisereno". Da allora, però, sembrano passati secoli. Renzi, lasciato palazzo Chigi, è sprofondato in un cono d'ombra dal quale fa capolino solo in vista delle primarie del Pd del prossimo 30 aprile. Il rinvio sine die delle elezioni politiche (che si terranno con ogni probabilità alla naturale scadenza della legislatura, a primavera 2018) non aiuta. E non è un caso che girino voci di piani per un voto a novembre che avrebbero dietro proprio l'ex premier.

Insomma, di che cosa ci sia stato dietro quell'"Enrico stai sereno" oggi come oggi non frega più molto a nessuno. E così è assai probabile che Renzi stia rimettendo mano al libro, magari per riattualizzarlo. O ch, visto il vantaggio che ha su suoi avversari alle primarie, abbia deciso di rinviarne l'uscita a maggio, perchè un'uscita precedente e i commenti e le polemiche che porterebbe con se non farebbe altro che danneggiarlo. Intanto, si gode i soldi del lauto anticipo che l'editrice Feltrinelli gli ha versato già lo scorso autunno. Si parla di 100mila euro. Tanta roba, anche se per uno come lui che dice di non avere più un reddito...

Tsunami di fango, una vera ecatombe La città rasa al suolo: 200 morti / Foto

Frana di fango in Colombia: almeno 154 morti e 200 feriti




E' andata assumendo di ora in ora le dimensioni di una ecatombe a colata di fango che come uno tsunami ha investito la città di Mocoa, 500 km sud di Bogotà, nella regione andina della Colombia ai piedi delle Ande. Il bilancio ancora provvisorio fornito dal presidente Juan Manuel Santos in tarda serata è di 154 morti e 200 feriti. A causare la colata di fango Le piogge torrenziali abbattutesi negli ultimi giorni sulla Colombia che hanno fatto straripare i tre fiumi Mocoa, Sangoyaco e Mulatos, che circondano la città.

"Così povero che... ho dovuto venderlo" Sylvester Stallone, la confessione-choc

Confessione Choc Sylvester Stallone: "Sono stato costretto a vendere il mio cane per comprare da mangiare"



Se al nome di Sylvester Stallone associate automaticamente l'immagine dell'uomo burbero e violento, è arrivato il momento di ricredervi. Rocky e Rambo vengono spazzati via da due immagini caricate dall'attore su Instagram, accompagnate da due didascalie commoventi che raccontano una vicenda che in pochissimi sapevano.


Elimina le infestanti


In giardino, pianta gigli, gladioli, iris… 
Nelle immagini postate c'è uno Stallone 26enne accanto ad un cane, il suo migliore amico Butkus. I due affrontavano insieme la condizione economica non proprio agiata dell'attore hollywoodiano: "Eravamo entrambi magri, vivevamo in una topaia sopra una fermata della metropolitana, c’erano scarafaggi ovunque, non c’era molto da fare se non passare il tempo. Avevo solo due paia di pantaloni e le scarpe bucate, il sogno del successo era lontano quanto il sole, ma avevo Butkus, il mio confidente, l’unico essere vivente che mi amava per quello che ero".

E preso dalla disperazione ha compiuto il gesto estremo: "Quando le cose sono peggiorate ancora, l’ho venduto per 40 dollari perché non avevo i soldi per comprare da mangiare. Poi, come un moderno miracolo, la sceneggiatura per Rocky è stata venduta, e ho potuto riprendermi il mio amico. Certo, il nuovo proprietario sapeva che ero disperato e me l’ha fatto pagare 15 mila dollari. Ma li valeva fino all'ultimo centesimo".

"Questi li voglio con me, loro li caccio" Berlusconi: chi gode e chi fa fuori

Silvio Berlusconi, ecco i centristi che vuole con sé


di Salvatore Dama



Si rientra da Malta con la sensazione che il centrodestra ruoti ancora intorno a lui. A Silvio Berlusconi. Vero, il Cavaliere non è più quello dei tempi d’oro, ma neanche gli altri vivono i loro anni ruggenti. Prendiamo i centristi che, abbandonato il Pdl, sono rimasti al governo. Hanno fatto una scommessa. Più d’una in realtà: su Renzi, sulle riforme, sul tramonto berlusconiano. È andata come andata. E ora il Nuovo centrodestra, che nel frattempo ha cambiato nome in Alternativa Popolare, rischia di dover andare da solo. Non per scelta, ma per necessità. Berlusconi, salvo qualche eccezione, non li rivuole più. E non è detto che Matteo Renzi proponga loro un’alleanza elettorale.

Il discrimine è «la posizione assunta sul referendum costituzionale», spiega Gianfranco Rotondi, leader di Rivoluzione cristiana e gran tessitore della rediviva area dei post-Dc, «con chi ha detto no, come Cesa, il dialogo è aperto». Alfano? «Io sono amico di Angelino, non ho condiviso il suo percorso, ma lo rispetto. Però a uno che ha fatto il ministro in tre governi di sinistra, non possiamo chiedere di tornare a cantare “Menomale che Silvio c’è”...». Più che recuperare pezzi di ceto politico, a Berlusconi interessa mettere insieme blocchi di elettorato. E ritiene che questo può accadere solo se è lui il protagonista. In prima persona.

C’è da aspettare la sentenza della Corte di Strasburgo e sperare che arrivi prima delle elezioni politiche del 2018. Oppure c’è il “lodo Rotondi”. Che l’ex ministro dell’Attuazione del programma ha esposto al diretto interessato a margine del congresso maltese del Partito Popolare Europeo. «La legge Severino incide sulla candidabilità e sulla permanenza in Parlamento, altro discorso è l’assunzione di incarichi di governo. Su questo vanno fatti approfondimenti politici e giuridici. Il quinto governo Berlusconi non è una fantasia bizzarra, ma un tema concreto. Io ci sto lavorando», spiega Rotondi.

Al di là della fattibilità, resta il tema degli alleati. Che hanno già archiviato la leadership berlusconiana. Guardano avanti. «Io stimo molto Salvini», conclude il leader di Rivoluzione cristiana, «anche lui sa che il modo migliore per arrivare al governo è farne parte sotto la direzione di uno che ha già grande esperienza. Per il bene dell’Italia ci vuole un premier di 81 anni circondato da una squadra di quarantenni. E lo dice uno che, nonostante porti bene la sua età, ha abbondantemente superato i cinquanta».

Salvini, però, insiste a porre la questione della collocazione politica di Forza Italia: «O con Merkel o con il popolo italiano», è il nuovo aut aut che arriva dal segretario leghista. Matteo lo dice da piazza Cadorna a Milano: «Per il nostro Paese, Merkel in questo momento rappresenta disoccupazione e immigrazione fuori controllo», ribadisce il segretario del Carroccio, «quindi qualcuno dovrà scegliere con i tempi che meglio riterrà opportuni se il futuro deve passare dalla Lega, e dunque dai popoli, quindi dagli italiani, oppure dalla Merkel, dalla Bce e da Strasburgo».

Il leader leghista ha infine commentato la possibilità che, dopo il voto, si torni a collaborare con il Partito democratico in assenza di un risultato che restituisca un vincitore certo. L’auspicio, dice, è che «nessuno che si dice di centrodestra pensi di fare l’occhiolino a Renzi, D’Alema o Bersani», ha concluso.

"Possiamo prendere Berlino in 3 giorni" La guerra in Europa: Merkel avvertita

La Francia: "Possiamo prendere Berlino in tre giorni"



Una corazzata dal punto di vista economico. Meno, sul piano militare. Verrebbe da dire per fortuna (visto il passato), non fosse che uno dei cardini per la costruzione di una Europa unita vera (e non solo burocratica) dovrebbe essere un esercito unico. In grado di dare autorevolezza globale a Strasburgo e in grado di fronteggiare adeguatamente minacce esterne come quelle dell'Isis o della Russia. Perno di questo esercito (che in una forma embrionale già esiste e si chiama "Eurocorps") dovrebbe essere la Germania. Non fosse, appunto, che l'attuale forza armata di Berlino non sia esattamente all'altezza della tristemente invincibile Wermacht. Il quotidiano Italia Oggi rivela, in merito, le preoccupazioni di un alto funzionario dello Stato maggiore francese, secondo il quale "nei fatti, oggi, è la Polonia a tutti gli effetti che deve proteggere l'Europa centrale dalla Russia". Non solo: "Oggi - aggiunge il funzionario - calcoliamo di poter raggiungere Berlino in tre giorni". Angela Merkel è avvertita...

L'EPOPEA DEI TULLIANI Fini, famiglia disintegrata I maschi contro Elisabetta 

Montecarlo, i Tulliani divisi sul ruolo di Fini: "Semmai è lui il corruttore"



I Tulliani smentiscono i Tulliani. E i Tulliani, o meglio Giancarlo Tulliani e papà, inguaiano ulteriormente Gianfranco Fini. Siamo all'ultimo atto dell'odissea che inizia a Montecarlo e finisce nelle procure, con la famiglia imparentata con Gianfry inquisita per riciclaggio nell'indagine su Francesco Corallo, il cosiddetto "re delle slot". L'ultima puntata, come spiega Il Corriere della Sera, va in scena davanti al tribunale del Riesame, dove i componenti della vicenda si schierano su fronti opposti: sul primo padre e figlio, Sergio e Giancarlo Tulliani (il secondo latitante a Dubai dopo l'ordine d'arresto di due settimane fa), e sull'altro la figlia Elisabetta Tulliani, moglie di Fini.

Il punto è che i maschietti sostengono davanti agli inquirenti che il reato contestato non può essere riciclaggio, poiché i soldi trovati a Sergio e Giancarlo sembrano quote di una tangente che fa presupporre altri reati: la corruzione, oppure il millantato credito, o il traffico d' influenze illecite che però è stato introdotto solo nel 2012 e dunque non sarebbe applicabile perché i fatti sono antecedenti. Elisabetta, al contrario, afferma che non vi è alcun reato, che Amedeo Laboccetta mente e che i suoi comportamenti sono spiegabili con normali attestati di disponibilità alle richieste del fratello.

Insomma, la famiglia si spacca nel corso della discussione davanti ai giudici chiamati a decidere sull'istanza di restituzione dei beni sequestrati per un valore di 5 milioni di euro. L'avvocato Titta Madia, che assiste Giancarlo e Sergio, spiega possibili alternative. Una su tutte: la corruzione, pagata da Corallo attraverso i Tulliani, che così diventerebbero i beneficiari finali di una maxi-mazzetta. L'avvocato mostra di non crederci, ma afferma che questa sarebbe una costruzione più sostenibile del riciclaggio. E, soprattutto, quando il tribunale chiede chi, nel caso, sarebbe un corrotto, risponde chiaro e tondo: Gianfranco Fini, ovvero il politico che, attraverso le leggi favorevoli a Corallo, poteva influire sulle concessioni di licenze pubbliche.

L'ipotesi, va detto, viene scartata dagli inquirenti perché le prove vanno in un'altra direzione. Resta però il fatto curioso dei "maschi Tulliani" che ipotizzano un Fini corruttore, mentre la moglie Elisabetta, attraverso i suoi legali, rigetta in toto la "suggestione". I suoi avvocati puntano tutto sull'inattendibilità di Laboccetta, e sostengono che i comportamenti della moglie di Fini sono del tutto giustificabili e leciti.

Le carte esclusive sul caso-Juve:  clan e boss, occhio a cosa si scopre

Juventus, tutte le carte del caso 'ndrangheta: i documenti dell'Antimafia



Biglietti rivenduti dagli ultrà anche a 620 euro l’uno e rapporti così stretti tra tifosi in odore di ’Ndrangheta e la Juventus che - scrive il procuratore federale Giuseppe Pecoraro - i clan avevano insistito col direttore generale Beppe Marotta affinché ci fosse un provino per il rampollo di una famiglia malavitosa. Si tratta di Mario Bellocco, figlio di Umberto: quest’ultimo orbita intorno alla cosca Bellocco-Pesce. Gli inquirenti hanno rilevato «la forte pressione esercitata da personaggi legati alla criminalità organizzata» sul club torinese, anche se l’aspirante calciatore bianconero non è mai stato tesserato.

Andò diversamente - sempre secondo la ricostruzione di Pecoraro, inviata ai Campioni d’Italia e alla Sezione disciplinare del Tribunale federale - in occasione del match di Champions contro il Real Madrid. Siamo nell’ottobre 2013 e, stando all’opinione degli inquirenti, è l’ex dirigente della Samp a cedere i preziosi biglietti agli ultrà, biglietti «destinati al bagarinaggio» e che Marotta avrebbe allungato alla curva raccomandandosi «massima riservatezza».