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giovedì 10 novembre 2016

"Trump non può fare il presidente": la trappola mortale per annientarlo

Tutti gli ostacoli del presidente: perché rischia di non poter governare



Il programma del presidente Donald Trump è ambizioso. Molto ambizioso. E singolare. Già, perché quello che propone e vuole per gli Stati Uniti, semplicemente, non si era mai sentito prima, o quasi. Il piano prevede riduzioni fiscali per tutti, e soprattutto per le imprese. Dunque il capitolo immigrati: non solo la costruzione del muro al confine col Messico, ma anche politiche restrittive ed abolizione dello ius soli. Dunque, in ordine sparso: i nuovi rapporti con la Russia di Vladimir Putin e lo "smantellamento" della Nato; il disimpegno militare, tranne che contro l'islam radicale; i rapporti con la Cina, che tenderanno verso la burrasca (per la prima volta, un presidente, si propone di arginare lo strapotere del Dragone).

Concetti rivoluzionari, affascinanti, da testare. Idee che fino a poche ore fa venivano considerate una mezza barzelletta. Da tutti o quasi. Già, perché il dato più impressionante della vittoria di The Donald è che sia piovuta - letteralmente - contro tutti. Contro tutti i media, giornali e televisioni. Contro tutta la politica: anche il partito repubblicano non lo voleva, non lo ha voluto dal principio e avrebbe voluto scaricarlo a poche settimane dal mondo. Contro tutti gli scandali. Contro tutti i governi del blocco occidentale, fatta eccezione per la poco influente Ungheria di Viktor Orban. Contro tutti i "vip", così pesanti nelle campagne elettorali a stelle e strisce: i nomi pro-Trump erano pochissimi, e discutibili (si pensi a Mike Tyson). Contro le banche. Contro tutti i sondaggi e contro tutti i pronostici.

Di certo, l'impresa è pazzesca. È storia. È epocale. È rivoluzionaria. Forse ineguagliabile. Il rischio, però, è che l'impresa sia costretta a fermarsi qui. Non è un caso che nel suo primo discorso da presidente, Trump abbia usato toni assai più moderati rispetto a quelli della campagna elettorale: il carattere è e per sempre sarà fumantino e iracondo, ma The Donald è conscio del fatto che per sopravvivere laddove è arrivato deve rimodulare parole, pensieri, ed atteggiamenti. Ma basterà contro il blocco di potere che lo prenderà a cannonate dal primo secondo successivo all'ingresso alla Casa Bianca?

Gli scandali, così come sono emersi in campagna elettorale, sono destinati a riproporsi: il passato del personaggio, è fuor di dubbio, nasconde altre sorprese. E i media - ostili, tutti - attendono soltanto il momento per riprendere il massacro: appena verranno archiviate analisi e mea culpa più o meno sinceri, il tentativo di distruzione del personaggio riprenderà. Dunque i rapporti con le cancellerie europee e anche sudamericane: ad oggi non c'è un solo governo che non vorrebbe sbarazzarsi, e subito, di The Donald. Dunque i cosiddetti e fantomatici poteri forti, che altro non sono che poteri come tutti gli altri poteri: le banche, i giudici, la finanza. Tutti contro Donald.

In politica estera, come spiegava a Libero l'esperto Edward Luttwak, in realtà i poteri del presidente sono più limitati rispetto a quanto si possa pensare: la politica estera viene delineata dall'establishment e da determinati centri di potere, già strutturati e che Donald non può, né vuole, smantellare. E poi il punto centrale, più importante: il Congresso. Camera e Senato, certo, restano repubblicane. Ma in un contesto nel quale gran parte della prima linea repubblicana ha scaricato e anche non ha votato Trump, si capisce che un congresso repubblicano non offre alcuna garanzia al presidente. La teorica maggioranza, ben presto, potrebbe trasformarsi in una maggioranza schierata compatta contro il presidente.

Infine, dopo la vittoria epica e rivoluzionaria, per l'inquilino della Casa Bianca inizia la sfida più difficile. Una sfida che viste le premesse può apparire quasi impossibile. La domanda è semplice: Trump potrà governare davvero? Difficile crederlo. Proprio come però era difficile pensare che questo 9 novembre 2016 ci consegnasse lui come presidente.

mercoledì 9 novembre 2016

Esclusiva il Notiziario / Referendum Costituzionale del 4 Dicembre 2016, Si o No? La parola agli esperti

Referendum Costituzionale del 4 Dicembre 2016, Gaetano Daniele lancia il dibattito: Si o No? A breve La parola agli esperti 



di Gaetano Daniele


Prof. Antonio Parrella
Giornalista de Il Mattino


Dott. Giuseppe Papaccioli
Dirigente Asl,
già Sindaco di Caivano
Continuano le Esclusive targate Gaetano Daniele, Amministratore del Blog il Notiziario sul web. Al centro dell'attenzione Nazionale, il Referendum Costituzionale del 4 Dicembre 2016. Riforma Costituzionale (Sì) Riforma Costituzionale (No). Con il referendum costituzionale del 4 dicembre gli italiani sono chiamati a respingere o approvare la riforma Boschi-Renzi. Perché votare Sì e perché votare No? A causa di sopraggiunti impegni istituzionali, sostituirà l'amministratore del blog, Gaetano Daniele, il Prof. Antonio Parrella, Giornalista de Il Mattino. Ecco le ragioni dei favorevoli e dei contrari.

Referendum costituzionale 2016: i pro e i contro - Votare Sì o votare No? Questo è il dilemma. Almeno per gli italiani che non hanno ancora preso posizione in vista del prossimo referendum costituzionale.

Un altro dilemma riguarda il destino dell’attuale governo in carica. Il premier Matteo Renzi, nel corso della conferenza stampa di fine anno 2015, aveva annunciato che in caso di vittoria del No, non solo si sarebbe dimesso da premier ma avrebbe concluso la sua carriera politica.


Giuseppe Barra
Dirigente Aziendale
 già Sindaco di Cardito
Negli ultimi tempi, però, il presidente del Consiglio e leader del Pd ha rivisto alcune sue posizioni, optando per una minore personalizzazione della consultazione referendaria. “Si vota nel 2018 comunque vada il referendum costituzionale”, ha annunciato Renzi lo scorso 22 agosto alla Versiliana.

Il capo del governo ha smesso di parlare di sue eventuali dimissioni, esortando media e opinione pubblica a focalizzare la propria attenzione sul contenuto del testo che gli italiani sono chiamati ad approvare o respingere.








Un ottimo motivo, dunque, per analizzare le ragioni del Sì e quelle del No


- Referendum costituzionale: votare Sì o No? Data svelata

Dott. Armando Coppola
Esperto di Diritto Costituzionale
Consigliere V Municipalità (Napoli)
Finalmente è stata svelata la data ufficiale del referendum costituzionale: il 4 dicembre 2016. La scelta dell’election day era stata al centro di un altro giallo. Inizialmente il premier aveva indicato ottobre come periodo possibile in cui fissare la chiamata alle urne, prima di optare per il mese di dicembre.

L’approvazione definitiva del testo di legge sulla riforma costituzionale è avvenuta il 12 aprile, quando la Camera ha dato il suo via libera al testo con 361 voti a favore, 7 contrari e 2 astenuti.

Il 15 luglio sono scaduti i termini per la richiesta del referendum costituzionale, mentre l’8 agosto la Cassazione ha ammesso i quesiti sulla riforma della Carta, passando la palla al governo, che dopo l’ok della Suprema Corte ha 60 giorni per fissare la data del voto. 



Referendum costituzionale, data e giorno: quando e come si vota?


- Referendum costituzionale 2016: le ragioni del Sì e quelle del No

Antonio Angelino
Segretario PD, Caivano
Il referendum costituzionale di dicembre 2016 chiamerà gli italiani a dire Sì o No alla riforma della Costituzione proposta dal ministro Maria Elena Boschi e appoggiata dal governo Renzi. Come votare?

Il 2 maggio a Firenze ha preso ufficialmente il via la campagna di Renzi per il Sì al referendum costituzionale. “È un grandissimo bivio tra l’italia che dice Sì e quella che sa solo dire No”, ha più volte ribadito il premier.

Ma quali sono i contenuti della riforma costituzionale e su cosa sono chiamati a esprimersi gli elettori?

Di seguito elencheremo i motivi per cui votare Sì o No alla riforma Boschi-Renzi: un confronto schematico tra le argomentazioni avanzate da chi è a favore e da chi è contrario alla legge che potrebbe modificare alcuni punti chiave della nostra Carta costituzionale.



Dott. Marco Plutino
Docente in diritto Costituzionale
Università di Cassino
Lo scontro tra il Sì e il No è trasversale e coinvolge tutti gli schieramenti politici e ideologici. Ovviamente il leader naturale del partito del Sì è Matteo Renzi, ma a predicare le ragioni della riforma costituzionale c’è anche l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale ha spiegato che “le due debolezze fatali della storia repubblicana sono stati la minorità dell’esecutivo e il bicameralismo perfetto”.

Contemporaneamente si sono delineati anche i comitati del No, presieduti da costituzionalisti ed esponenti delle opposizioni, i quali hanno definito la riforma costituzionale votata dalla maggioranza “l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo”.

Molti dubbi sono stati sollevati anche in merito al nuovo rapporto tra Stato centrale e regioni disegnato dalla nuova legge, che, secondo i costituzionalisti del No, non risolverebbe le criticità scaturite dalla riforma del 2001.


Riforma costituzionale 2016, Sì o No? Come funziona il voto

Avv. Donato Lettieri
Dottore di ricerca
in diritto tributario
Il testo della riforma Boschi introduce diverse novità, tra cui l’abolizione del bicameralismo paritario e del Cnel, la riduzione del numero dei parlamentari, la modifica del quorum per l’elezione del presidente della Repubblica e l’aumento del numero delle firme necessarie per proporre una legge di iniziativa popolare.

Per questo tipo di referendum, chiamato anche confermativo o sospensivo, non è necessario il raggiungimento del quorum.

Diversamente dal referendum abrogativo - come quello di aprile sulle trivellazioni, per intenderci - vincerà l’opzione (Sì o No) che ha ottenuto la maggioranza dei consensi a prescindere dal numero di votanti.





Referendum costituzionale 2016: perché votare Sì

Per i sostenitori del Sì, tra cui troviamo non solo esponenti Pd ma anche docenti di Diritto e studiosi della Costituzione, la riforma Boschi rappresenta un salto di qualità per il sistema politico italiano e per il suo farraginoso processo legislativo, garantendo maggiore stabilità a un Paese che ha visto 63 governi susseguirsi negli ultimi 70 anni.

Le più note ragioni per votare Sì al referendum costituzionale di dicembre sono:

Addio bicameralismo: si supera il famoso ping-pong tra Camera e Senato, con notevoli benefici in termini di tempo; il fatto che solo la Camera sia chiamata a votare la fiducia al governo implica l’instaurazione di un rapporto di fiducia esclusivo con quest’ala del Parlamento; la diminuzione del numero dei parlamentari e l’abolizione del Cnel produrrà notevoli risparmi; grazie all’introduzione del referendum propositivo e alle modifiche sul quorum referendario migliora la qualità delle democrazia; il Senato farà da “camera di compensazione” tra governo centrale e poteri locali, quindi diminuiranno i casi di contenzioso tra Stato e Regioni davanti la Corte costituzionale.


Referendum costituzionale 2016: perché votare No

Tutte le ragioni anti-riforma sono dichiarate sul sito ufficiale del comitato del No. I motivi per cui, secondo gli esponenti del fronte del No, gli italiani dovrebbero opporsi all’approvazione del ddl Boschi-Renzi si possono riassumere nei seguenti punti:

Si tratta di una riforma non legittima perché prodotta da un Parlamento eletto con una legge elettorale (Porcellum) dichiarata incostituzionale. Inoltre, anche gli amministratori locali chiamati a comporre il nuovo Senato godrebbero dell’immunità parlamentare; anziché superare il bicameralismo paritario, la riforma lo rende più confuso, creando conflitti di competenza tra Stato e Regioni e tra Camera e nuovo Senato; la riforma non semplifica il processo di produzione delle leggi, ma lo complica: le norme che regolano il nuovo Senato, infatti, produrrebbero almeno 7 procedimenti legislativi differenti; i costi della politica non vengono dimezzati: con la riforma si andrà a risparmiare solo il 20%; l’ampliamento della partecipazione diretta dei cittadini comporterà l’obbligo di raggiungimento di 150mila firme (attualmente ne servono 50mila) per i disegni di legge di iniziativa popolare; il combinato disposto riforma costituzionale-Italicum accentra il potere nella mani del governo, di un solo partito e di un solo leader.

Cognome della madre ai figli: la sentenza Cosa ha deciso la Corte costituzionale

Corte costituzionale: ok al cognome della madre ai figli



La Corte Costituzionale apre al cognome materno ai figli. I giudici della Consulta hanno accolto oggi la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Genova, dichiarando l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori.

Bisognerà ora attendere il deposito della sentenza, di cui sarà relatore il giudice Giuliano Amato, per capire quali siano le motivazioni della Corte alla base della decisione presa oggi. Già nel 2006 la Consulta aveva trattato un caso simile, in cui si chiedeva di sostituire il cognome materno a quello paterno: in quell’occasione i giudici delle leggì pur definendo l’attribuzione automatica del cognome del papà un «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, dichiarò inammissibile la questione sottolineando che spettava al legislatore trovare la strada risolutiva, ma ad oggi, non è stata varata ancora alcuna legge sul tema.

La Corte d’appello di Genova era quindi tornata a sollevare la questione di legittimità ritenendo vi fossero nuovi presupposti per una pronuncia della Consulta, tra cui la sentenza della Corte europea di Strasburgo che condannò l’Italia proprio sulla questione del cognome materno. Il caso in esame davanti ai giudici di Genova riguarda un bambino, nato nel 2012, che ha cittadinanza italo-brasiliana e che, dunque, finora è stato identificato con nomi diversi nei due Stati.

L'INIMMAGINABILE La Cina con le mani libere: quelle parole da brividi

Vince Trump, ballano miliardi: che cosa succederà adesso



È la politica estera degli Stati Uniti una delle più grandi incognite che agitano il dibattito mondiale dopo la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni americane. Il teatro più delicato sul quale è alta la curiosità degli osservatori internazionali è quello asiatico, considerando la posizione del tycoon orientata su uno stile meno invasivo negli affari delle altre potenze. A stretto giro dal risultato delle urne è arrivato il giudizio severo del governo cinese sulle ultime elezioni americane espresso attraverso le colonne del Quotidiano del popolo, il maggiore giornale di Pechino che esprime la visione ufficiale del governo. 

Secondo il quotidiano cinese l'ultima campagna presidenziale americana ha rivelato il fallimento della democrazia statunitense, definita "malata" nel titolo di apertura. Una campagna giudicata: "la più cupa, caotica e negativa degli ultimi due secoli. Non può essere certamente vista come una vittoria della democrazia". La corsa alla Casa Bianca è stata contrassegnata da "modi spregevoli e incivili" da entrambe le parti. "Commenti estremisti e attacchi personali" hanno dominato la campagna, continua il Quotidiano del Popolo, e i candidati "hanno rinunciato a spiegazioni sistematiche delle loro visioni". L’intera campagna "ha perso significato ed è stata niente più che una farsa". Netto anche il giudizio dell’agenzia Xinhua: la campagna presidenziale ha mostrato che "la maggioranza degli americani si stanno ribellando contro le la classe politica e le elite finanziarie degli Stati Uniti".

La vittoria di uno o dell’altro candidato fa poca differenza anche per il Global Times, tabloid dai toni spesso corrosivi e spin off dello stesso Quotidiano del Popolo. Il risultato delle elezioni negli Stati Uniti «non avrà grande impatto in Cina», scrive il giornale. «Se Trump entrerà in carica, la Cina affronterà più difficoltà sul piano economico e commerciale. Se vince Clinton ci saranno più difficoltà sul piano politico e strategico", è il commento del quotidiano cinese, ma nessuno dei due "ha la capacità di manipolare proprio piacimento le relazioni tra Cina e Stati Uniti".

Una forte critica ai temi della campagna elettorale emerge, infine, anche dalle pagine del China Daily, secondo cui gli scandali che hanno dominato la competizione tra i due candidati "hanno ridotto la corsa presidenziale a una caotica farsa politica agli occhi di molti" e la stessa campagna presidenziale è il sintomo di «un malessere profondamente radicato nella società statunitense in cui molti devono ancora vedere i benefici della ripresa economica dopo la crisi finanziaria, e i problemi strutturali aumentano il divario tra ricchi e poveri, lasciando le giovani generazioni particolarmente confuse". Il China Daily attribuisce parte della responsabilità della situazione anche alla presidenza Obama, che in otto anni, secondo il quotidiano filo-governativo cinese, "non ha fondamentalmente ricomposto le contraddizioni della società statunitense e non ha mantenuto le promesse di cambiamento".

Alle posizioni dure e schiette della stampa cinese fa da contraltare la retorica diplomatica del governo di Pechino che, attraverso il ministero degli Esteri, ha confermato la volontà di mantenere rapporti bilaterali quanto più "solidi e stabili" con il nuovo presidente degli Stati Uniti. Prima ancora che i risultati fossero ancora ufficiali e si conoscesse il nome del vincitore, dal governo cinese hanno quindi provato a rassicurare i mercati, aperti in Asia al ribasso, insistendo sulla volontà di mantenere tutti i legami commerciali sviluppati tra Pechino e Washington che sono "di reciproco beneficio ai due Paesi più che causa di problemi" nelle relazioni bilaterali.  Il portavoce del Ministero, Lu Kang, aveva parlato a nome del governo ribadendo che: "Vogliamo lavorare con il nuovo governo degli Stati Uniti per solide e stabili relazioni bilaterali e speriamo che la nostra relazione possa essere di reciproco beneficio e di beneficio al resto del mondo".

Durante la campagna elettorale, Trump ha più volte promesso di impegnarsi per proteggere la produzione americana, soprattutto dalla concorrenza a basso costo che arriva dall'Asia. Argomenti che hanno sollevato le paure di possibili attriti sul piano commerciale tra Usa e Cina, a proposito dei quali il portavoce cinese ha provato a smorzare i toni ricordando che i due Paesi: "sono entrambi membri della World Trade Organization" e che "ci sono meccanismi in atto per risolvere questo tipo di dispute".

Trump presidente, una rivoluzione: ecco come cambia il mondo da oggi

Donald Trump presidente, come cambia il mondo



Non ci credeva nessuno, a parte lui. Forse. Ma ha vinto Donald Trump. È lui il nuovo presidente degli Stati Uniti. Una vittoria inaspettata, clamorosa, contro tutti: i mercati, i media, l'establishment, i benpensanti. E contro Hillary Clinton e Barack Obama. E ora, il mondo, con The Donald alla Casa Bianca, è destinato a cambiare.

Si parte dalla politica estera: gli Stati Uniti rivedranno rapporti con Russia e Cina, allentando le tensioni, in un nuovo e inatteso scenario globale dove Vladimir Putin in primis avrà un ruolo di rilievo. Trump, inoltre, vuole puntare su cyber-security e mira a far pagare più soldi agli alleati Nato per la difesa. Altro punto importante è l'Iran: non deve avere il nucleare e, probabilmente, ci sarà un dietrofront sulle aperture degli ultimi anni. Sulle guerre, The Donald, ha un atteggiamento prudente: impegno militare all'estero solo se "assolutamente necessario".

Si passa, va da sé, al terrorismo. Il repubblicano vuole lavorare fianco a fianco con gli alleati arabi contro l'Isis e l'islam radicale. Dunque verrà sospesa su base temporanea l'immigrazione dal mondo islamico "esportatore di terrorismo". Tra i suoi intenti, quello di creare una commissione sull'islamismo radicale per "identificare e spigare" agli americani credenze e convinzioni religiose dei militanti islamici.

Altro punto fondamentale è il pugno duro sull'immigrazione: in cima all'agenda di Trump c'è la costruzione di un muro per segnare il confine meridionale col Messico. Dunque intende deportare fuori dai confini tutti gli immigrati clandestini. Il presidente vuole eliminare lo ius soli, il diritto di cittadinanza per nascita. Inoltre, ai posti di comando di tutte le aziende pubbliche e private Usa dovranno essere occupati da cittadini statuintensi.

Negli Stati Uniti ci saranno meno vincoli su vendita di pistole, fucili e armi da fuoco: Donald è convinto del fatto che leggi severe sulla vendita delle armi non servano a far diminuire crimini violenti. In campagna elettorale ha più volte citato gli attentati di Parigi: "La Francia ha una delle leggi sulle armi più severe al mondo. Nessuno è armato, eccetto i cattivi". Tranchant.

Per quel che riguarda l'economia nazionale vuole introdurre agevolazioni fiscali per tutti i cittadini e riduzioni del carico fiscale per la classe media americana. Tassa al massimo al 15% del reddito d'impresa per tutte le società: l'obiettivo è creare una economia dinamica con crescita del 3,5% annua e che offra 25 milioni di nuovi posti di lavoro entro il prossimo decennio.

Infine, una nota sull'ambiente: Trump non crede al riscaldamento globale e alla necessità di combatterlo. Gli Usa, dunque, si sottrarranno da tutti gli impegni di tal tipo. Dal punto di vista energetico vuole puntare su fonti fossili e petrolio e smantellare l'Environmental Protection Agency, la Epa, agenzia federale che si occupa di tutela dell'ambiente.

Boccassini-Moric, il colpo di grazia: "Cosa ha fatto Corona con i soldi"

Corona, l'ultima pesantissima accusa. La vendetta tremenda di Nina Moric



La Guardia di finanza di Milano ha sequestrato l'appartamento di Fabrizio Corona a Milano. Il provvedimento è stato disposto dal Tribunale, sezione Misure di prevenzione, su richiesta del pm Paolo Storari e del procuratore aggiunto della Dda Ilda Boccassini, titolari del nuovo filone di inchiesta che il 10 ottobre scorso ha portato all'arresto dell'ex fotografo e della sua storica collaboratrice Francesca Persi, con l'accusa di intestazione fittizia dei beni.

Si tratta della casa di via de Cristoforis, in zona Corso Como-Porta Garibaldi, del valore di due milioni e mezzo di euro. "Dalle indagini - si legge in una nota delle Fiamme Gialle riportata dal Giorno - è emerso che Corona aveva formalmente intestato l'immobile a un prestanome, tale Marco Bonato, ex collaboratore e suo coimputato". Il suo acquisto, secondo la Procura, sarebbe stato effettuato con risorse finanziarie distratte da società fallite, per la precisione dalla Fenice srl, vicenda giudiziaria per la quale l'ex fotografo era già stato condannato in via definitiva con l'accusa di bancarotta fraudolenta. Ma la Procura, riporta il Giorno, sostiene che ci siano "altri e più gravi aspetti di illiceità" come il rogito della casa effettuato a Reggio Calabria, a "oltre mille chilometri dal luogo in cui si trova l'appartamento", poi "l'interposizione fittizia anche sul versante della parte che ha venduto", e ancora "la destinazione di buona parte delle somme a un pregiudicato di origine calabrese, Vincenzo Gallo, parente di Domenico Gallo, imprenditore considerato da tempo nome noto delle costruzioni stradali, arrestato di recente nell'inchiesta sulle grandi opere".

Il provvedimento specifica poi che all'epoca dell'operazione immobiliare, Corona "era una persona che viveva almeno in parte di un flusso costante di somme provenienti da illeciti tributari (e dalle condotte di bancarotta ai danni della Corona's srl) cui era dedito abitualmente e come tale era persona socialmente pericolosa". Tra gli accusatori di Corona c'è l'ex moglie Nina Moric, che aveva dichiarato: "Fabrizio Corona ha acquistato diversi immobili, ma li ha sempre intestati a prestanome". 

L'intervista Esclusiva - Mps, l'uomo che conosce ogni segreto: "Chi l'ha uccisa, le faide. E Renzi..."

Pierluigi Piccini: "Chi ha ucciso Mps, le faide Pd e il futuro di Renzi"


Intervista di Pietro Senaldi
@PSenaldi



Monte dei Paschi l’hanno ucciso prima i Ds, che lo svilirono e lo svendettero facendone merce di trattativa politica, e poi tutti gli altri, che saccheggiarono la Rocca conquistata e ancora non hanno finito il poco nobile lavoro. È la visione di Pierluigi Piccini, sindaco diessino di Siena per undici anni, quando sul Monte splendeva ancora il sole, e poi alto dirigente di Mps France, in esilio. Dorato, dicono i maligni. Nonché forse vittima di uno dei primi esperimenti del Nazareno, molti anni prima che il patto trovasse il suo assetto istituzionale.

Che futuro vede per il Monte dei Paschi?

«Per l’aumento di capitale servono 5 miliardi ma più passa il tempo più è difficile che il mercato li dia».

I libri contabili dicono che il valore della banca è 9 miliardi...

«Il valore lo fa il mercato, che lo sta fissando a 700 milioni».

I potenziali acquirenti giocano al ribasso per comprare meglio?

«Forse fino a qualche tempo fa. Poi il titolo è salito quando ha ripreso quota l’ipotesi di Passera. Sfumata quella è crollato di nuovo, stavolta non perché è ripartita la corsa al ribasso bensì per il motivo opposto: la difficoltà a reperire potenziali acquirenti lo ha indebolito e quindi lasciato in balìa della speculazione».

Cosa ha cambiato il quadro?

«Mps non è più l’unica banca che va al mercato. In Italia ci sono molte banche appetibili, in più bisogna tener conto che le popolari dovranno trasformarsi in società per azioni».

Perché si sono erette barricate contro Passera?

«Passera è stato bocciato dalla politica, non si voleva far entrare un estraneo nel sistema Toscana. Hanno giocato contro anche il rapporto finanziario di ferro che da sempre c’è tra Mps e Mediobanca e quello politico tra governo e Jp Morgan».

È passato il momento buono?

«Passera credo che non abbia abbandonato l’ipotesi Monte, benché valuti anche altre soluzioni. Quanto a Mps, se la raccolta non dovesse andare in porto, si apriranno due strade: la nazionalizzazione, che piacerebbe alla Ue e alla Bce ma non a Renzi, o la svendita a un gruppo finanziario internazionale».

Perché il governo ha puntato tutte le fiches su Jp Morgan?

«La poesia racconta di una cena con Blair da cui sarebbe partito l’innamoramento del premier per la banca americana. Più prosaicamente io ritengo che Renzi voglia rimanere presidente del Consiglio il più a lungo possibile ma non disdegni di pensare anche al futuro più lontano. Io gli credo quando dice che dopo la politica farà un altro lavoro».

Cioè?

«Jp Morgan è una bella assicurazione sulla vita».

Come ha fatto la banca più vecchia d’Europa a ridursi così?

«Questo è noto. Lo sciagurato acquisto di Antonveneta dal Banco Santander di Botin nel 2007 ha causato a Mps un debito di 17,5 miliardi. Antonveneta è stata pagata agli spagnoli 9 miliardi, ossia circa 3 miliardi in più di quanto questi non avessero sborsato per acquistarla solo due anni prima dagli olandesi di Abn-Amro. Per non parlare del buco dei crediti non esigibili».

Il grande errore dell’allora presidente di Mps Mussari…

«Errore? Non lo chiamerei così. L’acquisto fu fatto senza neppure vedere lo stato dell’arte di quel che si comprava. Penso piuttosto che Mussari sia stato tradito dalla propria ambizione, anche politica. Se il suo fosse stato un semplice errore, dubito che poi gli avrebbero dato la presidenza dell’Abi e che sarebbe stato in corsa per quella dello Ior».

Qual è allora la sua interpretazione dei fatti?

«Botin, allora presidente dell’Imi, perse molto nella fusione tra San Paolo-Imi e Intesa. Il sistema doveva in qualche modo risarcirlo».

Fu D’Alema a imporre Mussari alla Fondazione Mps nel 2001, sacrificando lei. Una mossa decisiva per le sorti future dell’istituto, visto che la fondazione controllava il 54% della banca…

«Nel 2001 Mussari fu scelto per fare la fusione Mps-Bnl, che però fallì due volte. Io, dopo 11 anni da sindaco di Siena, con gradimento altissimo, sarei stato il candidato naturale per quel posto ma mi opponevo alla fusione perché puntavo a fare del Monte il centro di un polo federativo aggregante con base in Toscana. Ma non posso dire che D’Alema mi scaricò perché lui non mi prese mai. Sono piuttosto uno dei tanti orfani di Veltroni, che non capì mai l’enorme scontro finanziario in atto in Italia in quegli anni. L’operazione Mps-Bnl era caldeggiata da Fazio e Amato, per consolidare la piazza finanziaria romana. Per quanto mi riguarda, arrivò dal ministero del Tesoro, allora guidato da un ministro Pd, una lettera che impediva la mia nomina alla fondazione».

Sta di fatto che il matrimonio non si fece mai, perché?

«Nel 2001 fallì perché la Fondazione non voleva scendere sotto il 50% e perché non si trovarono gli assetti bancari di governance. Nel 2006, con molta probabilità furono il premier di allora Prodi e la finanza cattolica a stoppare l’operazione. Il quadro era cambiato totalmente e Bnl era assegnata ad altri».

E a Siena che accade?

«Dopo aver scongiurato il pericolo Bnl il gruppo dirigente senese si sentì fortissimo, iniziò un raffreddamento con il Pd romano e, con Mussari in testa, giocò la sua partita, che portò all’acquisto di Antonveneta e alla crisi di Mps. Con la benedizione del governo di centrodestra, che sfornò una serie di decreti fiscali ad hoc che ancora nel 2010 aiutarono Mps a chiudere i bilanci in utile».

Oltre alla Fondazione, Mussari le sfilò anche uno dei suoi più fidati collaboratori, David Rossi…

«Era il mio portavoce quando facevo il sindaco. Gli proposi di seguirmi a Parigi, dove ero diventato direttore generale aggiunto di Mps France ma non lo fece. Era un senese doc, non voleva tagliare il cordone ombelicale con la città».

Che ricordo ha di lui?

«Molto intelligente, sensibile, preparato, colto. Mussari lo scelse perché aveva disperato bisogno di un intellettuale. Siena è città esigente e David era un grande biglietto da visita. In più, era un profondo conoscitore delle trame e degli equilibri cittadini, nonché portatore di conoscenze maturate al mio fianco negli anni delle mie sindacature».

La sua morte, un volo dal suo ufficio in Mps nel marzo 2013, è ancora avvolta nel mistero…

«Sono convinto che nella sua fine c’entri un elemento soggettivo fortissimo. Era rimasto senza protezioni, vedeva l'impero crollare, si sentiva corresponsabile del fallimento».

Quindi è convinto del suicidio?

«Per nulla, conoscendolo. Amava troppo la vita. I vini, i vestiti, i quadri, era un raffinato. Al di là di quello che sarà il giudizio dei magistrati, che le confesso ormai per me è relativo, il senso comune senese è convinto che si tratti di un omicidio».

La città è sempre più in crisi?
«Il reddito di Siena è composto tuttora da rendite parassitarie, finanziarie e da settori di evasione fiscale. Sono poche le rendite da lavoro».

Ma il disastro Mps non ha messo in ginocchio solo Siena…

«Sono in ginocchio parti consistenti dei ceti medi toscani. Anche perché al disastro Mps si è aggiunto quello di Etruria. Il sistema politico toscano è orfano, senza banche di riferimento».

Il Pd ne pagherà il prezzo?

«Lo sta già pagando, e Renzi se ne è reso conto, tant’è che dopo Etruria ha rivisto alcuni suoi importanti rapporti politici. Arezzo e Grosseto sono già passate al centrodestra. Prima che il partito però, il prezzo lo stanno pagando i cittadini».

Che effetto hanno avuto in Toscana gli scandali bancari? 

«Hanno impoverito i ceti medi, tolto soldi ai risparmiatori, ridotto in difficoltà le aziende. La forza della sinistra è sempre stata la capacità di venire a patti con i ceti medi ma oggi, dopo aver messo loro le mani nelle tasche, il Pd è entrato in rotta di collisione con i suoi elettori».

Al premier non si possono però imputare le colpe di questo…

«La tutela del risparmio non è il suo forte. Il decreto salva banche ha creato un clima di sfiducia verso gli istituti di credito che rischia di ucciderli. Se poi si aggiunge il bail-in...».

Ma Renzi cosa poteva fare?

«Avrebbe dovuto aprire una procedura fallimentare su Etruria, così tutti i creditori avrebbero avuto pari diritti. Lui invece ha creato risparmiatori di serie A e di serie B».

Ritiene che il Pd si spaccherà?

«Non dove e finché ha il potere, che è l’unica cosa su cui si regge».

Il referendum sulla riforma costituzionale sembra dilaniarlo…

«Il referendum è un ulteriore elemento di lotta interna al partito. La critica a Renzi è sulla gestione del potere. Lo incolpano di essere troppo esclusivo, di affidarsi solo al Giglio Magico, il solito, ristretto, gruppo di fidatissimi. Gramsci lo avrebbe accusato di cesarismo».

Come ha fatto un centrista come Renzi a espugnare Firenze e la regione rossa?

«La presenza di Renzi all’interno dell’organizzazione del partito sul territorio regionale non è forte. In Toscana Renzi non c’è, se non nella gestione del potere. Quanto a Firenze, esausta dall’amministrazione di Domenici e tutto ripiegata sulla gestione dell’esistente, e per questo già definita “la bella addormentata”, per Matteo fu facile conquistarla, anche grazie all’appoggio di settori non proprio di sinistra alle primarie del Pd. Renzi non fu un attacco ai poteri storici di Firenze, fu una sostituzione della rappresentanza di questi, e in un certo senso un loro consolidamento».

Cosa pensa del tentativo di D’Alema e Bersani di contrastare il potere del segretario-premier?

«Solo ora Bersani ha preso una posizione netta sul referendum, come invece ha già da tempo fatto D’Alema. Comunque, al di là dell’esito del referendum, necessitano di un cambio di passo altrimenti finiranno per consunzione anche nel caso vincessero la battaglia politica del No al referendum».

Ma come, se vince il No Renzi non è finito?

«Il voto è stato caricato di valori eccessivi. Renzi ha sbagliato a personalizzarlo e la sua retromarcia per quanto potente non è riuscita a cancellare le prime impressioni: la gente si recherà al seggio votando pro o contro di lui. Ma che vinca il Sì o il No, cambia poco, il sistema politico sarà capace di riassettarsi in fretta».

Cambia molto per Renzi però.

«Se perde, sarà costretto a gestire politicamente la sconfitta ma Renzi non finisce domani, potrebbe addirittura rigenerarsi dalla sconfitta, ormai è un uomo istituzionale. In politica si vince e si perde e chi ha obiettivi di cambiamento non si ferma di certo davanti alle sconfitte».

Aria di un nuovo Nazareno?

«A Berlusconi Renzi piace da sempre. Quando mi ricandidai a sindaco nel 2006 e con le nostre Liste Civiche prendemmo al primo turno il 33% dei voti, assistemmo a un piccolo Nazareno, forse furono le prove generali. Forza Italia si accordò con il Pd per sostenere Cenni, mio rivale».