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lunedì 12 settembre 2016

Napolitano ordina, Renzi risponde Il premier si "rimangia" l'Italicum

Giorgio Napolitano ordina, Matteo Renzi risponde: il premier si "rimangia" l'Italicum



Giorgio Napolitano chiama, Matteo Renzi risponde. Nel corso dell'intervento alla festa dell'Unità di Catania, si è implicitamente rivolto all'appello dell'ex capo dello Stato, che in un'intervista a Repubblica aveva chiesto di modificare l'Italicum. "Pronti a discuterne. C'è bisogno però che gli altri facciano proposte, noi facciamo le nostre". Sul referendum, ha aggiunto: "Voglio parlare di questa riforma solo riferendomi al futuro. Mi hanno chiesto di non personalizzare e ho smesso. Ho detto che la legislatura ha una vita a se stante. E non parliamo più del governo in caso di vittoria del No".

Dopo l'intervento di Renzi, ci sono state proteste e scontri tra manifestanti e forze dell'ordine davanti a Villa Bellini: un corteo ha tentato di forzare il blocco degli agenti lanciando bottiglie e pietre.

L'intervista - "Come lo hanno ridotto in cella" Lo strazio della moglie di Dell'Utri

"Come lo hanno ridotto": lo strazio della moglie di Dell'Utri


intervista di Simona Voglino Levy



Signora Dell’Utri, come sono le condizioni di suo marito dopo il recente ricovero?

«Ha rischiato molto. Ora la fase acuta è superata. Ma le patologie diagnosticate sono croniche e gravi e potrebbero peggiorare. Sa cosa dice sempre Marcello?».

Mi dica…

«Ho il morale sotto i piedi ma cerco di non calpestarlo…».

Beh: non ha perso il suo senso dell’umorismo, possiamo dire?

«Possiamo dire di no. Per fortuna».

Da Parma, carcere di massima sicurezza, dopo il ricovero lo hanno trasferito a Rebibbia: cosa è cambiato?

«Rebibbia è certamente meglio, sono meno intransigenti, più cordiali e ci è consentito vederlo di più. Anche se il regolamento carcerario è folle: quando è nato il primo nipote abbiamo chiesto un permesso speciale perché mio marito potesse vederlo».

E?

«Gli è stato negato. E poi le limitazioni che abbiamo incontrato per portare il piccolo sono quasi umilianti».

Per esempio?

«Il passeggino non può essere introdotto, va lasciato in uno spazio di igiene dubbia. Finché il bimbo veniva allattato il disagio era relativo, ma poi è diventato complesso: il tempo di attesa per il colloquio è di circa due ore, mia figlia si teneva il piccolo in braccio senza la possibilità di avere un fasciatoio per cambiarlo, se non negli stanzini dove avvengono i controlli. Durante lo svezzamento, non sapendo mai quanto sarebbe durata l’attesa, ci sarebbe stato bisogno di portare omogeneizzati o biscotti, ma non sono consentiti nemmeno quelli. Nemmeno se sigillati. E poi altre limitazioni assurde».

Altri esempi?

«Si possono chiedere solo tre giornali. Ma non di domenica. Idem con i libri. Non se ne comprende la motivazione».

Suo marito si è anche iscritto all’Università, giusto?

«Sì, a storia. Ora dovrà dare l’esame di Storia medioevale».

Ma come funziona?

«Avrebbe dovuto sostenerlo a Parma, la commissione sarebbe dovuta andare lì, ma poi è stato ricoverato».

Che rapporto ha suo marito con gli altri detenuti?

«Di cordialità anche per la sua preparazione culturale. Aiuta anche alcuni di loro».


Come? 

«C’è chi ha fatto solo le elementari e in carcere cerca di laurearsi e lui li aiuta nello studio. Per qualcuno ha scritto lettere d’amore indirizzate alle rispettive compagne e anche poesie».

Una cosa molto carina…

«Sì. Un detenuto gli ha costruito una mensola fatta con i pacchetti di sigarette e il Vinavil, è la mensola che usa per gli oggetti del bagno. E poi è arrivato un nuovo vicino di stanza che ha vinto un torneo di scacchi a Regina Coeli ed ha voluto fare una partita con mio marito».

E com’è andata?

«Prima ha vinto Marcello. Poi hanno fatto una rivincita e ha perso. Ora aspettiamo la bella (sorride, ndr). A Parma gli avevano dato la possibilità di rimettere a posto la biblioteca. Ma lui voleva fare davvero il bibliotecario, voleva lo scambio con le persone. Cosa difficile in regime di alta sicurezza».

Quindi?

«Lo faceva dalla finestra: promuoveva le letture in cambio di caramelle».

Oggi è il suo compleanno, ha permessi speciali?

«Nessuno. Non può nemmeno telefonare, nessuno di noi potrà sentirlo. Non vengono autorizzate telefonate e questo non si capisce non tanto nei confronti di Marcello Dell’Utri, ma come regola generale. La telefonata, tra l’altro, è anche a carico del detenuto. Vorrei sapere: è questa la logica rieducativa?».

In effetti…

«Può essere questa la logica rieducativa che segue la nostra Costituzione? Oltre alla punizione e alla mancanza della libertà c’è anche l’isolamento rispetto alla famiglia. Indipendentemente dal reato commesso: qual è la logica?».

Ecco, ma a chi lo chiede?

«Alla politica».

E chi, in politica, se ne occupa di fatto?

«L’unico che si è occupato dei diritti dei detenuti è stato Marco Pannella con il Partito Radicale. Spero che adesso, dopo la sua morte, ci sia qualche altra anima pia che dia seguito. Una delle colonne portanti di un Paese dovrebbe essere la giustizia e non mi sembra che la giustizia in Italia sia all’altezza di un Stato civile e democratico. Mi auguro che qualche forza politica, indipendentemente dalla quantità di voti che può raccogliere, porti avanti questo discorso di civiltà e dignità dell’uomo. E non farlo vuol dire anche gravare sui soldi dei cittadini italiani».

In che senso?

«Quando una persona non viene rieducata, significa che tiene come unico datore di lavoro il crimine, dal primo giorno in cui entra fino alla morte. Entrano delinquenti ed escono peggio. E sa anche chi vorrei ringraziare?».

Mi dica, Signora…

«Michele Santoro. E vorrei anche fargli i complimenti, sinceri e sentiti».

Addirittura. Per cosa?

«Sì. Perché ha presentato a Venezia un documentario sul problema della criminalità napoletana. Un lavoro davvero ben fatto: chapeau. Come cittadina italiana, lo ringrazio. E vorrei fargli una richiesta».

Dica pure…

«Quella di continuare a cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica su due questioni».

Quali?

«L’opinione pubblica dovrebbe cambiare mentalità: quando uno finisce in carcere non bisogna chiudere e buttare la chiave. La pena dovrebbe essere rieducativa. E per farlo bisognerebbe organizzare dei dibattiti per le persone. Chiederei a Santoro di fare degli incontri in televisione sulla questione. E sa anche a chi lo chiederei?».

A chi?

«Alla Rai. Che dovrebbe fare servizio pubblico e questo sarebbe un buon modo per farlo».

Quanti anni compie suo marito?

«Oggi, 75».

Quanti ancora deve scontarne?

«Due e mezzo, circa».

Cosa gli augura per questo 75esimo compleanno?

«Intanto ringrazio voi per avermi dato questa opportunità. Un augurio? Quello di continuare con la stessa forza perché arriveranno tempi migliori e noi tutti siamo qui ad aspettarlo».

domenica 11 settembre 2016

Pensioni, la spaventosa profezia: si ridurranno di un quarto: quando

Pensioni, la spaventosa previsione: si ridurranno di un quarto: quando e perché



Cassandre? Gufi? Speriamo di sì. Ma secondo un'inchiesta sulle pensioni del quotidiano La Repubblica, le cose stanno così. L'Italia non cresce, non consuma, non investe, crea sempre meno posti di lavoro stabili e di qualità.

Ristagna da troppo tempo al punto che la crescita zero di oggi sembra un pantano permanente e vischioso. Ad esempio cosa succederebbe alle pensioni degli italiani se di qui all' uscita dal lavoro il Pil fosse in media inchiodato allo zero, visto che l' assegno previdenziale è legato alla crescita? Un quarto dell'importo volerebbe via, avremmo pensionati più poveri, fino a due-trecento euro in meno al mese, simula Progetica. Ipotesi dell' irrealtà? Non proprio se si guarda alla curva del Pil degli ultimi quindici anni, un sismografo della crescita quasi sempre attorno allo zero, con un paio di incursioni verso i due punti, poi le discese agli inferi della recente recessione che ne bruciano dieci e le sabbie mobili attuali. Senza pensare poi alla deflazione che zavorra il potere d' acquisto delle pensioni attuali. E ai tassi di interesse a zero o negativi che rischiano di falcidiare anche le pensioni future affidate ai fondi integrativi.

Renato Brunetta attacca Libero ma per noi è solo un fallito replica Libero: perché

Renato Brunetta attacca Libero ma per noi è solo un fallito replica Libero: perché


di Francesco Specchia



Sui marciapedi veneziani di Cannaregio, nella strepitosa ironia dei Dogi, Renato Brunetta è chiamato, da sempre, «Spanna montata». Che - se ci si pensa - non è un soprannome ma un trattato sociologico. Spanna montata. Dice tutto.

Quel soprannome è stato rievocato ieri, quando il capogruppo forzista della Camera si inalberava contro Vittorio Feltri che su Libero l'aveva imbrancato tra i «falliti» azzurri che vogliono spegnere la rivoluzione di Parisi attizzata da Berlusconi («Falliti a chi? Ma come ti permetti Vittorio», ha gridato, avvolto da un colorito carminio).

E lo stesso soprannome è stato poi richiamato quando lo stesso Brunetta ha fatto riprendere, una tantum, le pubblicazioni del Mattinale - il suo denso, freudiano, bollettino antistress - sparando contro la convention del 16-17 settembre di Stefano Parisi indicato non come la speranza d'un partito in coma ma come un passante della democrazia. Pare che Berlusconi si sia infuriato, facendogli richiudere il Mattinale. Ma pare che Brunetta non se ne sia accorto. Come quando, il 2 ottobre 2013, dichiarava davanti ai cronisti, col sorriso sprezzante la «sfiducia all'unanimità nei confronti del premier Enrico Letta»; mentre, contemporaneamente, il suo Presidente Berlusconi quella fiducia la votava.

Oppure come quando, in una progressione irresistibile, chiamava «elite di merda» la parte dell'opposizione che non gli garbava, augurandole di «andare a morire ammazzata»; o quando sfotteva i «panzoni», gli agenti di polizia che lavorano negli uffici; o quando sfanculava un'educata ragazza precaria («voi siete l'Italia peggiore!»). O anche quando definiva «fannulloni» i dipendenti del suo ministero della Funzione Pubblica; senza, peraltro, alla fine dei conti, aver mai debellato davvero il fenomeno dell'assenteismo. Il problema è che Brunetta, oltre a cannare i tempi di reazione, vive ormai una dimensione onirica tutta sua della politica. Dal partito gli fanno notare che per vincere occorre la palingenesi?

Renato non è Toti, o Romani, o la Santanchè: non si pone domande. No. Tira dritto, continua, indomito, la personale guerra atomica contro Renzi.

Lo fa in qualsiasi momento, luogo e posizione. Dal palco di Cernobbio, dove non essendoci neanche un usciere di dentrodestra non gli par vero d'assumersi il compito di rappresentare il resto del mondo contro il satana di Rignano; dalle pagine del divertito Foglio dove definisce Renzi «un accidenti della storia»; dal palco dei talk show dove prepara l'ennesima chiamata alle armi contro il «Papa straniero», sempre Parisi, e l'audience gridata lo accoglie sempre volentieri. Brunetta ormai è l'incasinatore di professione. Quando lo interpelli, per i primi cinque minuti ti parla di deficit e pil, sguaina dati Istat e ti spiega la deflazione e la stagnazione come un Keynes, uno Stiglitz qualsiasi.

Poi qualcosa in lui scatta. Forse è il ricordo della «Spanna montata», forse l'idea che al suo posto ora c'è Marianna Madia - e possiamo capirlo - fatto sta che gli parte l'embolo. E, smesso l'abitino ingessato dell'economista, Brunetta si dimena, ghigna come volesse prenderti a craniate, inveisce, si trasfigura. Somiglia in modo impressionante al Louis De Funes nevropatico nei film anni 70.

La realtà è che dovrebbero incazzarsi gli altri. Specie i suoi elettori. Per difendere il ruolo di bastiancontrario ad ogni costo Brunetta ha dichiarato su Radio 24 da Giovanni Minoli di rivolere l'Imu; ed è stato perfino capace di apprezzare le scelte di Monti sull'austerity e di D'Alema sul ritorno della vecchia guardia comunista. Come vicecoordinatore di Forza Italia e responsabile del programma ha coordinato pochino con un programma di cui s'ignora l'esistenza: ora è tra quelli che covano le ceneri del partito. Come ministro non ha lasciato traccia. Anzi, ricorda Peter Gomez del Fatto Quotidiano, «secondo un rapporto della Commissione Europea (dopo i fiammeggianti piani di ristrutturazione di Brunetta, ndr) l'Italia è ancora agli ultimi posti per l'accesso digitale agli uffici pubblici. I dati da lui strombazzati sulla straordinaria diminuzione dell' assenteismo nelle pubbliche amministrazioni, si sono dimostrati quantomeno gonfiati alla luce di quelli della Ragioneria Generale». Come candidato sindaco di Venezia - la sua città, occhio - Brunetta s'è candidato e ha perso per ben due volte. La seconda addirittura da Giorgio Orsoni, uno con l'appeal dell'orso Yoghi che potrebbe fargli da assistente. E hai voglia a dar la colpa alla città di sinistra; oggi in Laguna regna Brugnaro, di centrodestra...

Come professore universitario, pur combattendo i privilegi pensionistici dei dirigenti pubblici (leggi Rai) , «la rendita pensionistica che è sempre superiore ai contribuiti versati», è andato in pensione con 37 anni di contributi, di cui 10 «figurativi». E, per non infierire non m'infilo in altri fallimenti, come il Fomez 2, l'ennesimo carrozzone della Funzione Pubblica. Le suddette non sono esattamente illuminazioni da statista. L'uomo, però continua a ritenersi un fenomeno. Sarà perchè si era sinceramente preparato per vincere il Nobel per l' Economia - come confessò a Enrico Mentana - ; ma nel Palazzo Brunetta può essere accumunato assieme a molti altri «falliti» nel senso del progetto politico della rivoluzione liberale.

Spazzata da Tangentopoli la Prima Repubblica, Renato fu un ottimo professore di Economia Politica che, dalle terze file del craxismo, s'infilò da subito nelle liste (bloccate, naturalmente) dei boiardi berlusconiani. Ma ora di lui si ricordano, per il vero, le intemperanze in tv - molte delle quali sacrosante - i fatti privati, la polemica e la maleducazione. Sfuggono, nel complesso, le opere...

Sconfitte le carnose, Miss Italia 2016 è la 21enne toscana con gli occhi da gatta Chi è / Guarda

Sconfitte le carnose, Miss Italia è la 21enne con gli occhi da gatta / Guarda



Ha vinto la 21enne con gli occhi verdi e dolci. La candidata toscana che ha vinto sulla rivale "curvy", ossia in carne. Rachele Risaliti è Miss Italia 2016. La bella  fiorentina è stata eletta al termine della diretta televisiva condotta da Francesco Facchinetti su La7.

Seconda classificata la curvy campana Paola Torrente, terza la veneta Silvia Lavarini. Alta 1,77, capelli biondo cenere e occhi verdi, Rachele è nata a Prato l'1 febbraio 1995 e attualmente vive a Firenze, dove studia Fashion Marketing Management al Polimoda, una tra le migliori scuole di moda internazionali. La ragazza, iscritta al terzo anno, ha le idee ben chiare: "Vorrei laurearmi entro due anni e fare un master all’estero per diventare una Trend Forecaster", figura specializzata nel mondo della moda, con il compito di prevedere tendenze, comportamenti e consumi.

Proprio come la Miss uscente, anche Rachele è una sportiva: tifosa della Fiorentina, ha praticato ginnastica ritmica a livello agonistico per ben undici anni e, inoltre, ha studiato danza e praticato Gymnaestrada, disciplina di squadra che le ha dato l'opportunità di esibirsi nel 2013 al Quirinale, davanti al Presidente della Repubblica, e di vincere anche il campionato europeo nel 2014 a Helsingborg. "Lo sport - dice- è stato per me sinonimo di disciplina, senso del dovere, rispetto e sacrificio, insegnamenti che hanno contribuito fortemente a formare il mio carattere e a superare tanti momenti di difficoltà".

Tra i momenti difficili anche quelli legati alla sua vita famigliare. "I miei genitori si sono separati quando avevo 3 anni - spiega - purtroppo non ho ricordi di loro assieme e questo mi ha fatto un po’ soffrire, però posso dire di aver avuto la fortuna di conoscere due nuove persone meravigliose, che mi hanno affiancato e sostenuto nel mio processo di crescita...in poche parole mi sono ritrovata con quattro genitori, condizione forse non facile da gestire ma oggi sono felice".

La madre, laureata in Scienza Riabilitative, lavora come dirigente presso l’azienda sanitaria locale di Firenze, mentre il padre è un imprenditore e gestisce un’azienda di ricambi auto. Appassionata di pittura e di fotografia, si definisce "solare, umile, creativa, generosa e sincera, ma anche timida, orgogliosa e un po' permalosa".

Con Rachele la Toscana conquista il titolo per la quinta volta nella storia del Concorso. La regione non vinceva da vent'anni ovvero dal 1996, quando la corona andò alla dominicana Denny Mendez. Prima ancora, nel 1980, fu Cinzia Lenzi a vincere il titolo. Scorrendo gli annali, ritroviamo Margareta Veroni nel 1973 e la ventenne di Empoli Rossana Martini, la prima Miss Italia della storia, che vinse il titolo ben 70 anni fa, nel lontano 1946, a Stresa.

Le regioni che hanno collezionato il maggior numero di Miss Italia sono il Lazio e la Sicilia, con ben 11 vincitrici a testa. Seguono la Lombardia con 10, il Veneto con 6, il Friuli e la Calabria con 5, il Piemonte e la Toscana con 4 a testa, Campagnia e Marche con 3, Emilia Romagna, Liguria, Sardegna e Umbria con 2, Puglia Abruzzo e Trentino Alto Adige con una sola miss. Rachele Risaliti cede la fascia nazionale di Miss Rocchetta Bellezza 2016, assegnatale nei giorni scorsi, alla diciottenne pugliese Viviana Vogliacco, classificatasi seconda.  Salemi e Dayane Mello

Enrico Mentana contro Di Maio: "Ma che dici? Conti meno di un..."

Mentana sotterra Di Maio: "Ma che dici? Non conti un..."



"Si è usata la questione della mail per affossare me e il Movimento 5 Stelle: ma non ci riusciranno", ha accusato il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Secca la replica del direttore del Tg di La7. "Se un fan renziano mi scrive che faccio un tg vergognosamente filo-m5s (come capita ogni giorno da anni) sorrido; se eccede, rispondo per le rime. Se un fan dei 5 stelle mi scrive che sto attaccando ingiustamente il movimento per ordine di Renzi (come succede in questi giorni) sghignazzo; se va al di là, controbatto senza timore. Ma come nel calcio un conto sono gli ultras, un altro i giocatori. E se uno fa il vice presidente della Camera deve imparare il rispetto della verità e degli altri". Mentana prosegue su Di Maio: "Srive che i tg danno risalto ai fatti di Roma per manganellare il m5s? Io dirigo un tg: con serenità, onorevole Di Maio, questa è un'offesa che non può passare sotto silenzio. Non l'ho permesso, in diretta tv, a chi conta - per ora - più di lei. Non lo permetto a lei, dicendoglielo sullo stesso social network da dove ha postato la sua diffamazione".

"Dopo di me tutto può essere" Ratzinger, la sua mortale profezia

Ratzinger, la profezia sulla fine del papato


di Antonio Socci



Ma chi è oggi il Papa e precisamente quanti ce ne sono? La confusione regna sovrana e la nuova uscita di Benedetto XVI - il libro-intervista «Ultime conversazioni» - invece di dissolvere i dubbi li moltiplica. Parto dal dettaglio più curioso.

Domanda Peter Seewald a Benedetto XVI: «Lei conosce la profezia di Malachia, che nel medioevo compilò una lista di futuri pontefici, prevedendo anche la fine del mondo, o almeno la fine della Chiesa. Secondo tale lista il papato terminerebbe con il suo pontificato. E se lei fosse effettivamente l'ultimo a rappresentare la figura del papa come l' abbiamo conosciuto finora?».

La risposta di Ratzinger è sorprendente: «Tutto può essere». Poi addirittura aggiunge: «Probabilmente questa profezia è nata nei circoli intorno a Filippo Neri» (cioè la chiama «profezia» e la riconduce a un grande santo e mistico della Chiesa). Conclude con una battuta di alleggerimento, ma quella è stata la sua risposta.

Dunque Benedetto XVI ritiene di essere stato l'ultimo papa (per la fine del mondo o la fine della Chiesa)? Probabilmente no. Allora ritiene - almeno secondo la versione dell'intervistatore - di essere stato l' ultimo ad aver esercitato il papato come l'abbiamo conosciuto per duemila anni? Forse sì.

E anche questa seconda fa sobbalzare, perché è cosa nota che il papato - d'istituzione divina - per la Chiesa non può essere cambiato da una volontà umana. Del resto quale cambiamento? C'è una rottura nell'ininterrotta tradizione della Chiesa?

Un altro flash del libro porta in questa direzione. «Lei si vede come l'ultimo papa del vecchio mondo» domanda Seewald «o come il primo del nuovo?». Risposta: «Direi entrambi». Ma che intende dire? Cosa significa «vecchio» e «nuovo», soprattutto per uno come Benedetto XVI che ha sempre combattuto l'interpretazione del Concilio come «rottura» della tradizione e ha sempre affermato la necessaria continuità, senza cesure, della storia della Chiesa?

A pagina 31 Seewald afferma (e il testo è stato rivisto e vidimato da Benedetto XVI) che Ratzinger ha compiuto un «atto rivoluzionario» che «ha cambiato il papato come nessun altro pontefice dell' epoca moderna».

Questa tesi - che evidentemente allude all'istituzione del «papa emerito» - ha qualche aggancio con le cose che dice Ratzinger in questo libro?

Sì, a pagina 39. Prima di riassumere cosa dice qui papa Benedetto, però, devo ricordare che la figura del «papa emerito» non è mai esistita nella storia della Chiesa e i canonisti hanno sempre affermato che non può esistere, in quanto il «papato» non è un sacramento, come invece è l'ordinazione episcopale, infatti in duemila anni tutti coloro che hanno rinunciato al papato sono tornati allo status precedente, mentre i vescovi rimangono vescovi anche quando non hanno più la giurisdizione di una diocesi.

Ciononostante Benedetto XVI, negli ultimi giorni del suo pontificato, andando contro tutto ciò che i canonisti avevano sempre sostenuto, annunciò che lui sarebbe diventato appunto «papa emerito». Non ne spiegò il profilo teologico, però nel suo ultimo discorso affermò: «La mia decisione di rinunciare all'esercizio attivo del ministero, non revoca questo».

Benedetto accompagnava tali parole con la decisione di restare in Vaticano, di continuare a vestirsi con la tonaca e zucchetto bianchi, di conservare lo stemma papale con le chiavi di Pietro e il titolo di «Sua Santità Benedetto XVI».

Ce n'era abbastanza per chiedersi cosa stava accadendo e se si era veramente dimesso dal papato. Cosa che io feci su queste colonne, anche perché nel frattempo il canonista Stefano Violi aveva studiato la «declaratio» di rinuncia ed era arrivato a queste conclusioni: «(Benedetto XVI) dichiara di rinunciare al ministerium. Non al Papato, secondo il dettato della norma di Bonifacio VIII; non al munus secondo il dettato del can. 332 § 2, ma al ministerium, o, come specificherà nella sua ultima udienza, all'"esercizio attivo del ministero"».

In seguito ai miei articoli, il vaticanista Andrea Tornielli, molto vicino a papa Francesco, nel febbraio 2014, andò a domandare a Benedetto XVI perché era rimasto papa emerito e la sollecitata risposta fu questa: «Il mantenimento dell' abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c' erano a disposizione altri vestiti».

Il vaticanista in questione sbandierò ai quattro venti lo scoop che, però, a una seria osservazione, si rivelava un'elegante battuta umoristica (in Vaticano non c' erano tonache nere?) per eludere una questione di cui Benedetto XVI, evidentemente, a quel tempo non poteva parlare. E infatti ne parla oggi, dopo tre anni, spiegando le ragioni di quella scelta che ovviamente non c' entrano nulla con questioni sartoriali.

Dunque nel libro appena uscito papa Ratzinger parte dalla riflessione sui vescovi. Quando si trattò di decidere le loro dimissioni a 75 anni si istituì il «vescovo emerito» perché - dicevano - «io sono "padre" e tale resto per sempre».

Benedetto XVI osserva che anche quando «un padre smette di fare il padre», perché i figli sono grandi, «non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua a essere padre in un senso più profondo, più intimo».

Per analogia papa Ratzinger fa lo stesso ragionamento sul papa: «se si dimette mantiene la responsabilità che ha assunto in un senso interiore, ma non nella funzione». Questo ragionamento poetico però è esplosivo sul piano teologico perché significa che lui è Papa.

Per capire il quadro teologico che sta dietro la rivoluzionaria pagina di Ratzinger bisogna rileggere il clamoroso testo della conferenza che il suo segretario, mons. Georg Gaenswein, ha tenuto il 21 maggio scorso alla Pontificia università Gregoriana.

In quel discorso - «censurato» dai media, ma che in Curia è stato una bomba atomica - don Georg disse che «dall' 11 febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d' eccezione».

Il suo è stato un «ben ponderato passo di millenaria portata storica», un «passo che fino ad oggi non c' era mai stato». Perché Benedetto XVI «non ha abbandonato l' ufficio di Pietro», ma «l' ha invece rinnovato».

Infatti «egli ha integrato l'ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in commune» e «intende il suo compito come partecipazione a un tale "ministero petrino"… non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato - con un membro attivo e un membro contemplativo».

Fino a quel discorso del 21 maggio, Bergoglio - che deve aver ascoltato queste cose da Benedetto XVI (ma senza capirle bene) - spiegava il papato emerito sulla stessa linea: diceva che quello di Benedetto era stato un «atto di governo», che egli aveva rinunciato solo all' esercizio attivo e faceva l' analogia con i vescovi emeriti. Però dopo il discorso di Gaenswein di maggio, alla corte bergogliana si è capito la portata del problema ed è scattato l' allarme. Così a giugno, di ritorno dall' Armenia, Bergoglio ha bocciato la tesi di un ministero papale «condiviso».

Poi, in pieno agosto, su «Vatican Insider» (termometro della Curia) è uscita un' intervista di Tornielli a un importante canonista ed ecclesiastico di Curia, dove si delegittima in toto la figura del «papa emerito» perché «l' unicità della successione petrina non ammette al suo interno alcuna ulteriore distinzione o duplicazione di uffici o una denominazione di natura meramente "onorifica" o "nominalistica"». Inoltre «non si dà alcuna sottodistinzione tra il munus e il suo esercizio».

Però Benedetto XVI, nella pienezza dei suoi poteri, decise proprio di restare papa e rinunciare al solo esercizio attivo del ministero. Se quella sua decisione è inammissibile e nulla significa che è nulla anche la sua rinuncia?