I senatori timbrano il tesserino e vanno via: un trucchetto da 3.500 euro al mese
di Francesco Specchia
Poi uno dice l’eutanasia di Palazzo Madama, il suicidio dei senatori, la pregevole arte dell’assenza. Mentre ancora echeggia il progetto di «armonizzazione» che consentirà (sempre che passi) ai prossimi senatori «riformati» dalla riforma Boschi di recuperare, di riffa e di raffa, il loro stipendio, ecco che gira, tra gli stessi senatori, un’altra deliziosa consuetudine. Quella di lasciare inserito il tesserino sul loro scranno per poi tornare a riprenderselo a fine seduta. Il loro voto non risulterà, ovviamente; ma i senatori verranno considerati presenti a tutti gli effetti. Evitando così la decurtazione della diaria, la cui indennità fissa è di 3.503 euro al mese. Non è il tradizionale caso dei «pianisti». No. Qui siamo di fronte a qualcosa di più evoluto. Qui la strisciata del tesserino prevede smemoratezza istituzionale, indolenza del gesto, diventa puro epos politico legato al denaro e non all’ideologia.
Di questo fenomeno assolutamente trasversale s’è avveduto Il Messaggero, indagando tra i commessi del Senato e tra i questori curiosamente rimasti finora ignari della pratica. «Tutto nasce dalla necessità di garantire ai senatori la possibilità di essere “presenti ma non votanti”. Necessità dettata dal fatto che in Senato, a differenza della Camera, l’astensione è considerata voto contrario...», scrive il collega Claudio Marincola. Ed è vero. La raccolta dei due piccioni con una fava è un must letterario per i senatori. Ai quali spettano due badge nominali per votare; e uno rimane sempre più spesso infilato in quelle fessure che vedono pezzi d’istituzione protagonisti di fenomeni d’assenteismo sempre più immaginifici all’appropinquarsi della ristrutturazione della prima Camera. Immaginifici al punto che Giorgio Napolitano, la settimana scorsa, dichiarò, spossato, che «si può fare di più, lavorare 30/40 ore a settimana non basta», e che non era «serio riunire le commissioni in pausa-pranzo». A dire il vero il presidente emerito è supportato dal quel poveretto di Pietro Grasso, il presidente meno emerito che, alla richiesta d’aumento di produttività dai suoi colleghi, rimbalza da mesi contro un muro di gomma. Nulla da fare. La diaria, il rimborso di soggiorno - decurtata dal 2001 di 206, 58 euro per ogni giorno di assenza e per chi «non partecipa almeno al 30% delle votazioni effettuate nell’arco delle giornata» - rimane, per il parlamentare italiano, un elemento ontologico. Rimane, in verità, un elemento ontologico anche per il parlamentare italiano romano di Roma, cioè in teoria deprivato di spese di affitto o di viaggi. Certo, Grasso oggi ha incaricato il questore Antonio De Paoli di aprire su quest’affaire un’inchiesta. Tra l’altro, proprio nel giorno in cui ad Acireale si consumano gli arresti in flagranza di altri furbetti del cartellino negli uffici comunali. D’altronde, di recente, l’essenza dell’assenza s’è diffusa in modo esponenziale proprio mentre tra gli scranni si decidevano le controverse riforme renziane. Finirà a tarallucci e vino, ovvio.
Però, il colpo d’occhio, a Palazzo Madama, è sempre emozionante, come ai tempi delle sala delle pallacorda della rivoluzione francese, solo con meno presenti. Per dire. Aula semivuota per l’approvazione del Ddl Boschi per il quale, fino a qualche ora prima sui giornali e in tv, si facevano le barricate. Aula sorda e grigia, senza nemmeno il bivacco di manipoli, per la mozione di sfiducia di fine gennaio al governo Renzi. Aula desertica soltanto tre giorni fa, all’audizione in commissione Difesa sulla missione in Somalia (abbiamo ancora una missione in Somalia?), con 7 membri presenti, 4 M5S, 2 Pd e un Gal, eroico.
Certo, in tutto questo, non c’è l’ineleganza del vigile di Sanremo che timbra in mutande, ma il fenomeno è comunque irritante. Tanto che, non molto tempo fa, il senatore Lorenzo Battista del Gal, in uno scatto d’autocoscienza, propose un ddl che prevedeva la decadenza dei colleghi assenteisti. Ovviamente quel ddl rimase seppellito tra gli scranni. Ah, il Senato, questa bestiola indomabile. Lontani i tempi dell’assenteismo inquieto e quasi tenacemente rivendicato dei grandi campioni (il top, occorre dirlo, a centrodestra) Verdini, Ghedini, Bondi, MariaRosaria Rossi, oggi l’oblio del tesserino orfano diventa la testimonianza d’un comune, irreversibile cupio dissolvi. Tra l’altro, si rileva anche un modo astuto, da parte di deputati e senatori, di evitare i monitoraggi su gran parte della propria attività parlamentare registrata dai siti come OpenParlamento, per esempio. In soldoni, la finta dimenticanza del tesserino, risulta soprattutto un modo subdolo per ingannare il proprio elettorato. Ed è anche un’attitudine non sanzionata dai giudici ordinari, protetta com’è dall’istituto -obsoleto e inopportuno- dell’«autodichia», ossia dall’autonomia organizzativa tipica delle due Camere, del Quirinale e della Corte Costituzionale. Roba che consente l’impunità civile e amministrativa ordinaria agli stessi parlamentari. Di fatto, se i dipendenti comunali rischiano il licenziamento (ma non avverrà...), gli astuti omarini di Palazzo Madama avranno, al massimo, una sanzione, o una sospensiva. E poi mi vengono a dire del Senato, della sacralità dell’istituzione...