Gli onorevoli banchieri si sono spartiti 7 milioni
di Franco Bechis
Sono passati 25 anni, e difficilmente qualcuno ricorderà ancora. La prima repubblica batteva i suoi ultimi colpi di coda. Al governo c’era Giulio Andreotti, abituato da sempre a navigare nei palazzi della politica. Era nata l’ennesima crisi, provocata da un gruppo di Dc (quelli di sinistra) tornati di attualità negli ultimi tempi: fra loro c’era Sergio Mattarella. Rimpasto e nuovo governo Andreotti, più debole. Come capita in questi casi chi saliva a bordo dettava nuove regole. Di solito si trattava di avere qualche poltrona in più. Mosca rara invece chi puntava su un cambio di programma. Colpì un giovane e allampanato deputato, che al tavolo delle trattative pose questioni di finanza pubblica. «Il deficit pubblico va affrontato finalmente con coraggio e decisione iniziando dalla lotta agli sprechi e agli abusi nella spesa pubblica», chiese. Quel giovane aveva 39 anni. Non era nemmeno un Carneade. Si chiamava Antonio Patuelli ed era vicesegretario del Partito liberale. Disse pure che bisognava affrontare seriamente «il nodo della previdenza». Patuelli cavalcava in un periodo in cui non erano di moda battaglie oggi sacrosante. Era con Mariotto Segni sul referendum che avrebbe segnato la fine del proporzionale. Uno così sarebbe stato notato tre anni dopo da Carlo Azeglio Ciampi, che lo volle nel governo di emergenza nel pieno di Tangentopoli. Fu sottosegretario alla Difesa, ed era il 1993.
Mentre lui era al governo Mattarella scrisse la legge elettorale che porta il suo nome e che doveva essere la risposta al referendum. Patuelli la considerò una schifezza, e per protesta annunciò che non si sarebbe ricandidato. Predicava benissimo. Quanto a razzolare, fu pizzicato solo con un piccolo vizio: la poltroncina in banca. Prima di essere eletto Patuelli era infatti vicepresidente della Cassa di risparmio di Ravenna. Dovette lasciare la carica per incompatibilità. Ma dimettendosi restò consigliere di amministrazione. Alla banca ci teneva, e presto avremmo capito perché. Con il beau geste il giovane liberale lasciò per sempre la politica. Era il 1994, Berlusconi arrivava a palazzo Chigi e Patuelli andava in pensione. No, non è un modo di dire: a 43 anni ricevette il primo assegno mensile del vitalizio da ex parlamentare. Per altro non restando a lungo inattivo: poco tempo dopo divenne presidente della Cassa di risparmio di Ravenna. Pensionato e banchiere. Ha fatto carriera in tutti e due i campi. Oggi ha poco meno di mezzo milione di euro in tasca più dei contributi versati da ex parlamentare. Ed è pure presidente dell’Abi, l’associazione delle banche italiane. Patuelli è uno dei re del vitalizio e pure re dei banchieri italiani. Gente che non guadagna esattamente un centesimo al mese.
Fu mosca bianca all’epoca, ma oggi Patuelli non è un caso raro. Sono molti i banchieri che alle spalle hanno una bella carriera in Parlamento. Uniscono così i gettoni di presenza e lo stipendio da presidenti e consiglieri di amministrazione di spa o Fondazioni bancarie al comodo vitalizio che si trascinano da quando lasciarono Camera o Senato. Nell’elenco di chi ha visto lievitare nel modo pazzesco che stiamo raccontando in questi giorni i contributi versati per il vitalizio ci sono le due figure di banchiere più rappresentative di Italia. C’è Patuelli, capo delle banche tradizionali. E c’è Giuseppe Guzzetti, ex presidente della Cariplo, oggi alla guida di tutte le fondazioni bancarie e non solo: presiede l’Acri, che riunisce anche tutte le casse di risparmio italiane. Guzzetti, vecchia volpe democristiana, si è già portato a casa con il vitalizio da parlamentare 666 mila euro più dei contributi versati negli anni. Ma la cifra è tutta per difetto. Perché oltre allo stipendio da banchiere, oltre al vitalizio parlamentare (3.123 euro al mese), Guzzetti riceve anche il vitalizio da consigliere regionale (4.782 euro lordi al mese).
Mica sono soli i due. Nella rossa Emilia ad esempio è quasi una regola: hai fatto il parlamentare? Bene, goditi la tua meritata pensione con un bel posticino nel consiglio di una fondazione bancaria o di una cassa di risparmio del territorio. Così oggi uniscono generosi spread conquistati sul vitalizio a stipendi ed esperienza da banchieri. C’è l'ex Ds Bruno Solaroli, che ha già visto lievitare il suo vitalizio di oltre mezzo milione più dei contributi versati. C’è Gianfranco Sabbatini, ex dc presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, che ha ricevuto 1,2 milioni di euro di vitalizio più dei contributi versati. C’è Antonio Rubbi, comunista tutto di un pezzo (non manca mai d’agosto alla commemorazione di Palmiro Togliatti) ed ex sottosegretario al Tesoro, entrato poi nel cda della Fondazione cassa di risparmio di Bologna, che ha già guadagnato con il vitalizio 1,1 milioni di euro più dei contributi versati.
Registrano fra 800 e 944 mila euro di guadagno con il vitalizio anche Dino De Poli, ex dc e ancora presidente della Fondazione Cassamarca, Roberto Mazzotta già numero uno di Cariplo e Banca popolare di Milano e Virginiangelo Marabini che a lungo è stato in consiglio della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. Nell’elenco anche Franco Bassanini, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti, che è una banca pubblica un po’ speciale. E poi Nerio Nesi, ex socialista, ex rifondarolo che fu pure presidente della Bnl. È diventato banchiere un altro dc di lungo corso già sottosegretario al Tesoro come Roberto Pinza, che presiede la Fondazione Cassa di risparmio di Forlì e può contare anche su un vitalizio di 5595 euro mensili su cui ha già avuto un vantaggio di 100 mila euro. Poco sotto - perché era giovane e il vitalizio l’ha preso più tardi - Marianna Li Calzi, ex di Forza Italia e di Rinnovamento italiano, oggi nel consiglio di amministrazione di Unicredit.