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lunedì 12 gennaio 2015

Saltano sgravi e detrazioni fiscali per una famiglia su cinque: ecco a chi

Nuovo Isee, manca l'accordo: per una famiglia su 5 addio sgravi fiscali

di Francesco De Dominicis 



Una spending review mascherata che, invece di aggredire direttamente le casse della pubblica amministrazione, va a colpire (tanto per cambiare) le tasche dei contribuenti. Un’altra stangata, su quelli meno abbienti e dunque più bisognosi. È l’ennesima tagliola del governo di Matteo Renzi, passata in sordina e ora più chiara. Stiamo parlando del nuovo Isee, vale a dire quel pezzo di carta che certifica reddito e patrimonio di una famiglia, indispensabile per accedere ad alcuni servizi pubblici: sconti su mense e tasse universitarie, agevolazioni per gli affitti, sgravi per le bollette delle utenze domestiche, rateizzazione delle cartelle esattoriali, iscrizione agli asili nido (e relativa definizione della retta mensile).

Sta di fatto che il riccometro 2.0 (conterrà più dati rispetto al vecchio) doveva debuttare l’1 gennaio, ma è in ritardo perché i centri di assistenza fiscale, come denunciato ieri dalla Consulta dei Caf e da Unimpresa, non hanno ancora raggiunto un accordo con l’Inps per la convenzione (cioè la cifra che i Caf devono ricevere per ogni Isee stampato ai cittadini). Un ritardo che, peraltro, corre il rischio di pregiudicare l’accesso ad alcuni servizi. Ma la tabella di marcia è forse il problema minore. Secondo i Caf, infatti, la platea di coloro che usufruiscono di servizi e prestazioni legati alla situazione economica potrebbe ridursi del 20%. In teoria (cioè nelle intenzioni e negli annunci del governo) la riforma dovrebbe permettere di identificare meglio le condizioni di bisogno della popolazione, consentendo allo stesso tempo di contrastare le tante pratiche elusive ed evasive che caratterizzano le prestazioni sociali. In pratica - dicono i Caf - le famiglie avranno un salasso. Il nuovo documento restringerbbe il numero dei soggetti «abilitati» a usufruire di prestazioni sociali, sconti e agevolazioni varie: stando alle indicazoni delle organizzazioni del settore una famiglia su cinque subirà un giro di vite. Nel nuovo Isee saranno inserite più informazioni, specie quelle finanziarie (bot, titoli, conti correnti). Ragion per cui emergerà patrimonio finora non «denunciato»; e proprio questi dati in più rappresentano la tagliola.

Lo scorso anno sono state circa sei milioni le persone che hanno avuto accesso ai servizi e alle prestazioni garantite dal vecchio Isee e al momento sarebbero solo poche migliaia quelle che hanno inviato la richiesta per il nuovo indicatore andato in vigore dal primo gennaio (appena un centinaio attraverso i Caf che invece generalmente veicolano oltre il 90% delle richieste).

La falsa partenza, dicevamo. Lunedì è prevista una rinione tra l’Inps e i Caf. Che hanno posto un problema economico: hanno chiesto per le nuove pratiche un aumento di circa il 50% rispetto a quelle dell’anno scorso (circa 15 euro a pratica a fronte dei 10/11 del 2014). «Non abbiamo l’autorizzazione - ha spiegato ieri Valeriano Canepari, presidente della Consulta dei Caf - a fornire questa attività. Senza convenzione si fa fatica a garantire il servizio». Se quindi la platea non cambierà rispetto al 2014 (circa sei milioni di persone) la spesa prevista nel 2015 per la convenzione con l’Inps sarà di circa 100 milioni di euro rispetto ai 70 milioni del 2014. C’è comunque il rischio di allungamento dei tempi dato che l’Inps al momento ha un direttore per il quale è scaduto il mandato (ma ci si aspetta il rinnovo di un anno), un presidente designato che attende il parere delle commissioni parlamentari per entrare in carica e un commissario in scadenza. La firma è attesa a breve, ma non è affatto scontata. E la mazzata per le famiglie resta.

Travaglio di bile: record d'insulti a Facci Poi la fesseria con cui si auto-smentisce

Marco Travaglio, travaso di bile: insulta Filippo Facci (e si auto-smentisce)





Filippo Facci attacca la "macchietta rinsecchita" Marco Travaglio, e la "macchietta rinsecchita" perde la testa. La firma di Facci ha accusato il vicedirettore del Fatto Quotidiano per l'improvvido paragone tra "editto islamico" in riferimento alle stragi parigine e l'editto "bulgaro" di berlusconiana memoria, ricordandogli che i redattori di Charlie Hebdo si guadagnavano da vivere rischiando (davvero) la vita, mentre Travaglio si guadagna da vivere recitando lo stesso copione, trito e ritrito e stratrito, ormai da vent'anni. Apriti cielo, Marco Manetta ha dato di matto. La livorosa risposta è arrivata sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, in cui dà a Facci del "poveretto con le mèches" per poi aggiungere: "Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone". Peccato che il paragone lo ricordi proprio Travaglio nella riga successiva, in cui in preda all'abitudinario travaso di bile ricorda che lui ha scritto: "Quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa". Dunque, continua, "ho semplicemente sbeffeggiato l'ipocrisia di una classe politica e giornalistica", e dunque, aggiungiamo noi, ha fatto quel paragone insensato che sta cercando di negare.

"RISULTATO FALSATO" Cofferati battuto svela i brogli del Pd In Liguria cinesi e rom alle primarie

Cinesi, rom e nordafricani ai seggi Le primarie del Pd sono una barzelletta





Centinaia di rom e di cinesi. E il voto per le primarie del Pd da cui Raffaella Paita, assessore regionale alle Infrastrutture e Protezione Civile,è uscita come candidata del Pd alle regionali in Liguria, si trasforma in barzelletta. E' lo stesso sconfitto, Sergio Cofferati, ex leader della Cgil ed ex sindaco di Bologna, a denunciare l'inquinamento e l'irregolarità del voto: "L'inquinamento delle Primarie si sta purtroppo realizzando in misura più consistente di quella prevista e temuta" scrive in una nota. Ce l'ha, Cofferati, coi gruppi di stranieri, in qualche caso contestati per aver fotografato il voto, come a La Spezia - dove si è registrata una massiccia presenza di cinesi - o ad Albenga, dove le contestazioni sul voto hanno riguardato nordafricani. La sua avversaria Paita ha ottenuto vittorie schiaccianti ottenute nelle province di Imperia, Savona e La Spezia.

Sergio Cofferati non ci sta e annuncia ricorso alla commissione di garanzia. L’europarlamentare, sconfitto daRaffaella Paita, ha detto: "Non riconosco questo risultato e aspetto il pronunciamento della Commissione di garanzia su tutti gli elementi di irregolarità che sono stati segnalati. So anche che sono stati valutati, da parte di altri e non da me, eventuali esposti alla Procura della Repubblica: sono materie sensibili, dal voto di scambio all’uso di strumenti lesivi della privacy. Io non sono a conoscenza degli elementi specifici".

domenica 11 gennaio 2015

Un milione in piazza a Parigi "Oggi siamo la capitale del mondo"

Parigi, un milione in piazza. Hollande: "Oggi siamo la capitale del mondo"





Per Parigi, ferita dal terrorismo islamico, è il giorno della grande marcia contro la paura. Il primo a parlare è stato Francois Hollande: "Oggi Parigi è la capitale del mondo". Al corteo atteso almeno un milione di persone, oltre ai capi di Stato e di governo e di tutto il mondo. Un corteo di tre chilometri, che parte da una place de la Republique già gremita da ore prima dell'inizio del corteo. Hollande ha ricevuto i capi di Stato di tutto il mondo all'Eliseo, attendendoli sulle scale all'aperto, uno per uno, per poi abbracciarli e scambiare i saluti. In ordine sparso sono arrivati Mariano Rajoy, Angela Merkel, Matteo Renzi e anche Nicolas Sarkozy, che ha scattato parecchie foto al fianco del presidente francese. In tutto, 45 fra capi di Stato e governo sono presenti. Altissime le misure di sicurezza, per il timore di nuovi attentati proprio contro il corteo, in testa al quale sfileranno i rappresentanti istituzionali arrivati da tutto il mondo insieme ai familiari delle vittime.

Pansa: "In guerra, deboli e disarmati Ricordate cosa accadde con le Br?"

Giampaolo Pansa: siamo in guerra, ma senza armi per combatterla

di Giampaolo Pansa 



Non ci sono dubbi. Quanto è accaduto in questi giorni a Parigi si ripeterà. Forse in Francia o in un altro paese europeo. E dovunque accada, a cominciare dall’Italia, riscopriremo una verità: non sapremo difenderci e il terrorismo islamico farà di noi quello che vorrà. Dopo daremo la caccia ai killer, forse li uccideremo o si potrà catturarli. Ma intanto il danno sarà fatto. E altri terroristi al servizio del Califfato nero dell’Isis, di Al Qaeda, o di qualche gruppo di tagliagole senza nome, si preparerà a fare di noi le nuove vittime di questa nuova guerra mondiale.

Sono abbastanza anziano per essere vissuto nel ricordo di almeno quattro conflitti armati. Mio padre Ernesto, classe 1898, si era fatto tutta la prima guerra mondiale come soldato del Genio. Un paio di cugini il fascismo li aveva mandati a combattere in Grecia e in Africa settentrionale. Un altro cugino era stato partigiano nella guerra civile. Il quarto conflitto l’ho visto e raccontato da giornalista: la lunga guerriglia delle Brigate rosse, un’altra storia coperta di sangue.

In questi giorni dominati dalle dirette televisive sul massacro di Parigi, ho ripensato più volte all’interminabile guerra dichiarata dalle Br, da Prima linea e da una fungaia di bande minori. Di quell’epoca piena di morti accoppati, di gente gambizzata e resa invalida, di drammi politici e di amicizie finite, che cosa rammentiamo oggi? Poco o niente. Eppure la memoria può aiutarci a non essere impreparati di fronte a quanto rischiamo.

Molti si domandano se la guerra islamica contro l’Occidente durerà a lungo. È un interrogativo inutile. Durerà sino a quando non avranno vinto loro o noi. Siamo entrati in un percorso senza altri sbocchi. Dunque l’unica risposta razionale è che dobbiamo prepararci a vivere in una condizione sconosciuta a tanti italiani. Dove la sicurezza sarà più importante della libertà.

Le Brigate rosse apparvero sulla scena nei primissimi anni Settanta. Si pensò a un incendio che si sarebbe spento quasi subito. Una previsione sbagliata. I due primi delitti dei brigatisti arrivarono nel 1974 a Padova e da allora il terrorismo rosso non smise di uccidere. Nell’aprile 1988 a Forlì venne assassinato un senatore democristiano, Roberto Ruffilli. E tutti pensammo che fosse l’ultimo delitto delle Br. Non era così. Nel maggio 1999 le nuove Br uccisero Massimo D’Antona, consulente del governo. E nel marzo 2002 fu assassinato il professor Marco Biagi.

A conti fatti, il terrorismo brigatista è rimasto sulla scena per un trentennio. Se applicassimo lo stesso metro alla guerra islamica, collocandone l’inizio nel 2014, arriveremmo al 2044! Con quale esito? Nessuno può dirlo. Anche le guerre che sembrano perdute per uno dei due fronti in lotta, possono riservare sorprese. Non è escluso che il vincitore risulti l’Occidente, sia a pure a costo di mutamenti profondi nel suo modo di vivere.

Perché l’Italia riuscì a battere le Brigate rosse? Le ragioni sono tante. Per cominciare, i grandi partiti, la Dc e il Pci, non persero la testa. Il dissenso con il Psi durante il sequestro Moro, non arrivò mai a una rottura drammatica. Tennero anche i sindacati e gli operai delle grandi fabbriche. La sinistra si gingillò con la teoria dei «compagni che sbagliano». Poi cambiò opinione, anche a prezzo di vedere che non tutti i suoi militanti si schieravano contro il terrorismo brigatista.

Fu decisiva la figura di un militare: il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. A sinistra molti lo consideravano un potenziale golpista. Furono costretti a ricredersi. Il suo prestigio e i risultati ottenuti nella guerra contro le Br affermarono l’importanza di quella che oggi si chiama l’intelligence. Un’arma indispensabile per entrare nella testa e nei programmi del terrorismo, prevenirne le azioni e catturarne i capi.

Risultò essenziale anche la legge che prevedeva sconti di pena per i pentiti disposti ad aiutare gli inquirenti. In totale furono più di sessanta. Molti di loro, benché ritenuti colpevoli di una serie di omicidi, scontarono soltanto pochissimi anni di carcere. Un beneficio che a gran parte dell’opinione pubblica sembrò eccessivo. Ma la casta politica di allora non arretrò. Insieme alla carota, si continuò a usare il bastone. Ossia la mano dura nelle indagini e negli interrogatori.

Anche in questo caso si confermò l’importanza del nucleo speciale di Dalla Chiesa. Non più di sessanta o settanta uomini, fra carabinieri e agenti di polizia, selezionati con cura. Il generale rispondeva soltanto al ministro dell’Interno. Non fu un affare da poco ottenere il consenso delle forze politiche. I dibattiti in Parlamento furono molto accesi, ma venne trovata un'intesa.

In questo 2015 i nostri partiti sono in grado di ripetere l’esperienza positiva del ceto politico di quel tempo? Ho molti dubbi in proposito. Oggi la politica ha le ossa rotte. Sa di essere screditata nei confronti dell’opinione pubblica. È frantumata e divisa come non mai. Di certo non possiede l’energia necessaria ad affrontare un’emergenza simile a quella che ha incendiato Parigi. La debolezza anche morale si manifesta in ogni occasione. Venerdì il ministro dell’Interno che illustrava a Montecitorio i provvedimenti decisi per stoppare i combattenti islamici residenti o in transito in Italia, ha parlato davanti a una distesa di scranni vuoti.

Anche il presidente del Consiglio non sembra l’uomo adatto per questi tempi di ferro. Sempre venerdì sera, a Otto e mezzo di Lilli Gruber sulla Sette, si è prodotto in un monologo torrenziale, recitato a velocità supersonica. Parlava, strillava, scherzava e rideva senza offrire nessuna proposta seria per affrontare la tempesta che può investire anche l’Italia e mandare a ramengo il suo governo.

Mentre lo ascoltavo, mi sono domandato se Renzi sia in grado di essere il leader di una nazione che, da un giorno all’altro, potrebbe trovarsi sotto il fuoco del terrorismo islamico. Non voglio sembrare un critico ingeneroso. Ma esiste un dato di fatto: Renzi ha conquistato Palazzo Chigi in un’epoca ormai da considerare al tramonto. Tutti i suoi infiniti programmi erano immaginati per un paese in pace e non in guerra. L’infantile parola d’ordine per il 2015, «Ritmo», ha un suono ridicolo se la pronunciamo nel frastuono delle raffiche di kalashnikov sparate a Parigi. E davanti al sangue che scorre dagli assalti di questi giorni, di fronte ai giornalisti morti nel primo assalto, ai poliziotti uccisi, agli ostaggi ebrei giustiziati.

La storia del mondo procede senza tener conto delle beghe italiane sulla riforma del Senato, sull’Italicum e le sue trappole, sulla pubblica amministrazione da mettere in riga, sui codicilli fiscali a vantaggio di Tizio o di Caio, sui Patti del Nazareno e la riabilitazione di Berlusconi. E soprattutto sull’ottimismo forzato che il premier continua a predicare e le promesse che seguita a ripetere con la petulanza del ragazzino presuntuoso.

Il sangue di Parigi non si ferma alla frontiera tra la Francia e l’Italia. Arriva anche in casa nostra. Ci fa aprire gli occhi su un paese debilitato dalla crisi economica, alle prese con il nuovo mostro della deflazione. E in pratica indifeso contro un attacco sferrato da qualche altra coppia di fratelli pronti a uccidere e a morire per l’Islam. Siamo alle corde, amici di Libero. Auguriamoci di non essere costretti a rinchiudere papa Francesco in un bunker segreto nel sottosuolo di Roma.

Facci: "Travaglio, ti spiego la differenza tra chi rischia la vita e chi vive come te"

Filippo Facci contro Travaglio e Luttazzi: che c'entra l'editto islamico con quello bulgaro?

di Filippo Facci 



Bene, ora spiegaci che c’entra l’editto islamico con l’editto bulgaro, spiegaci che cosa c’entra - caro Marco-senza-vergogna-Travaglio - la vostra industrietta macinasoldi con la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi che graffiavano nella carne viva del pianeta: la religione, l’islam, l’ebraismo, l’Occidente, la crisi. Spiegaci che cosa cazzo c’entra (scusa la parola cazzo, ma fa sempre satira) con le vostre cazzate dove il rischio massimo era una reprimenda di Sandro Bondi; che cosa c’entra cioè il martirio vero (inteso come pericolo di vita) con il martirio finto (inteso come requisito di carriera).

La rivista Charlie Hebdo rischiava la pelle ogni giorno senza guadagnarci granché, si faceva il mazzo per sopravvivere sul mercato: non pretendeva d’essere inserita d’ufficio nella tv di Stato con programmi scadenti, roba che poi moriva da sola anche nella tv privata (come a La7) perché semplicemente non faceva ascolti: vero Luttazzi?, vero Guzzanti?, vero Dandini?, eccetera. Le vignette danesi riprese dai francesi giocavano in un altro campionato, non erano le mutande di Anna Falchi o le cacche di Daniele Luttazzi o il Papa sodomizzato all’Inferno che tanto piaceva a Sabina Guzzanti, non erano le barzellette sporche per le quali voi presunti satiri scomodavate Senofonte e l’articolo 21 della Costituzione, ergendovi a oppressi. Gli ammazzati di Hebdo non facevano comizi a manifestazioni di capi-partito come Grillo o Di Pietro, non andavano in vacanza con fonti univoche e poi politiche come Ingroia, non facevano spettacolini teatrali e libri e dvd e pseudo-lezioni universitarie e monologhi in prima serata da Santoro: facevano satira per davvero e li ricorderemo come esempio coraggioso di libertà di opinione, non li ricorderemo per “l’odore dei soldi” di cui non è rimasto nulla se non i soldi (tuoi) e l’odore (vostro).

Gli ammazzati di Hebdo non pretendevano immunità giudiziarie e civili per autoproclamazione, non pretendevano di poter dire tutto quello che volevano su chi volevano e come volevano: senza mai pagarne un prezzo, perché “la satira non si processa”. Non evocavano di continuo il regime e la censura, non pretendevano di essere intoccabili persino da una magistratura peraltro acclamata, insomma: non avevano bisogno di pararsi il sedere col diritto di satira ogni volta che gli scappava una cazzata. Perché loro, la satira, non la facevano su Ruby e sulla Carfagna, non la facevano dicendo nano e ciccione o piegandosi su cartacce giudiziarie d’accatto: loro la facevano sulle libertà individuali e collettive sin dagli anni Sessanta, mica su Berlusconi per vent’anni di fila. E ora tu, macchietta rinsecchita e senza sorriso, a sangue caldo torni a romperci le palle coi tuoi ciclostile sul regime, e a pagina 22 del Fatto Quotidiano ospiti pure l’equilibrato Luttazzi che si paragona ai francesi e scrive testualmente che «non c’è bisogno di trasferirsi nei Paesi arabi per trovare resistenze alla satira sulla religione», rivelandoci di aver ricevuto minacce di morte e d’esser stato costretto a mesi sotto scorta.

Ma certo, è un paragone calzante, dietro casa di Luttazzi erano pronti Ferrara e la Santanché coi kalashnikov, c’era anche un piano per prendere ostaggi nel fortino clandestino della Raidue targata Freccero. O forse no, Travaglio e Luttazzi non dicevano sul serio. Forse era satira anche quella, dev’essere così. Comunque occhio: i tre terroristi francesi li hanno seccati, Ferrara e la Santanchè e Berlusconi sono ancora in giro.

Vietato fumare (quasi) da tutte le parti: sigarette, l'ultima (tostissima) stretta

Sigarette, la nuova stretta: vietate nei film, nei parchi e in auto se c'è un minore





A dieci anni dalla legge Sirchia, c'è in vista una nuova tostissima stretta sul fumo: niente sigarette nei parchi pubblici, negli stadi, nelle spiagge attrezzate ma anche nelle macchine, se a bordo c'è un bimbo. Il bando alle "bionde", inoltre, riguarderà i film e le serie tv nazionali, almeno se vengono accese in un numero eccessivo di scene. "Si tratta di possibili iniziative, il cui successo in altri Paesi è documentato", sottolineano al ministero della Salute. E Beatrice Lorenzin, titolare del dicastero, conferma il progetto "estremista": "Sì - esordisce -, ci sarà una stretta ulteriore. Partiamo da film e auto con minori e poi studieremo eventuali nuove misure. E' una materia da approfondire su cui eventualmente aprire un confronto". E ancora: "Il fumo uccide, dobbiamo essere tutti consapevoli di questo. Sono convinta che sia fondamentale agire sui giovani in via prioritaria per evitare che entrino nella spirale di questo vizio". Per inciso, l'Italia tra il 2007 e il 2013 è scesa dall'ottavo al quindicesimo posto nella classifica dei Paesi europei più impegnati nella lotta al tabagismo: Lorenzin, dunque, vorrebbe invertire la rotta (forse calcando un po' troppo la mano?).