Pastasciutta, ecco come riconoscere la pasta al 100% italiana
di Attilio Barberi
All’inizio di maggio, dopo averlo annunciato innumerevoli volte, il governo ha mandato a Bruxelles lo schema di decreto che introduce l’obbligo di indicare in etichetta l’origine del grano utilizzato per fare la pasta. In attesa di capire se la Commissione abbia qualcosa da obiettare - eventualità più che probabile vista l’opposizione dura e irremovibile degli industriali - ecco una guida utile per capire come distinguere la pasta italiana al 100% da quella fatta con frumento importato. Soprattutto da Canada e Ucraina.
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Dopo aver maneggiato centinaia di confezioni di pasta, mi sento di suggerire queste tre semplice regole per capire da dove arrivi il prodotto che si sta per comperare. Regola uno: non fidarsi di bandierine tricolori, coccarde, nastri e simboli che evochino l’italianità. Non c’è alcuna regola che ne impedisca l’uso, anche in presenza di materia prima straniera. Regola due: made in Italy, si può tradurre liberamente come «confezionato in Italia» e non garantisce nulla sulla provenienza degli ingredienti. Regola tre: se non c’è scritto nulla vuol dire che non si tratta di pasta italiana al 100%. Checché ne dica l’industria, l’origine nazionale è un valore aggiunto e chi può dichiararla lo fa senza esitazione. Consapevole che i consumatori sono disposti a pagare di più ed è più facile fidelizzarli.
Stabilite le regole generali che aiutano a distinguere i veri maccheroni italiani da quelli «fatti in Italia», ecco quel che si trova sul mercato, Vale a dire sugli scaffali della grande distribuzione.
Negli ultimi anni l’offerta di prodotti nazionali si è ampliata. Se fino alla metà del decennio scorso si potevano contare sulle dita di una mano i marchi che dichiaravano l’origine ora sono parecchie decine. Se si eccettuano i produttori artigianali che hanno una produzione incapace di varcare i confini della provincia, i marchi di pasta 100% Italia, sono in tutto una cinquantina, con infinite varianti. E quasi uno su due è un prodotto biologico, con tanto di certificazione. Fra i brand più diffusi quasi ovunque nello Stivale, segnalo la pasta di Gragnano Igp Fiorfiore Coop. Poi sicuramente la Voiello, ottenuta a partire soltanto da grano Aureo e frutto di un accordo di filiera fra Barilla, proprietaria del pastificio di Torre Annunziata, e gli agricoltori.
Altro marchio abbastanza diffuso è Alce Nero, presente sui banconi con infinite varianti: pasta di grano duro, di farro, pasta di Gragnano, di frumento Senatore Cappelli. E sempre fatta con il frumento del Duce (noto per essere stato il protagonista della «battaglia del grano») è la Dalla Costa, sede a Castelminio di Resana, in provincia di Treviso, fra i primi produttori a far uscire dal dimenticatoio questa varietà di cereale. Dalla medesima zona, per la precisione da Castello di Godego, arriva la pasta Sgambaro che ha ottenuto la certificazione Csqa per il grano duro italiano. Certificazione condivisa anche dai maccheroni Voi, Valori Origine Italiana, frutto della collaborazione fra Iper la Grande I e Coldiretti.
Dalla Puglia arriva la linea Dedicato della Granoro, fatta esclusivamente con frumento coltivato nella regione. Mentre è avellinese la pasta Grano Armando della famiglia De Matteis, pure dei frutto di un accordo di filiera corta con i coltivatori locali.
E poi ci sono i maccheroni di farro (quasi sempre bio), capaci di conquistarsi negli ultimi 12 mesi uno spazio considerevole in tutte le insegne della grande distribuzione. Fra i brand che ho acquistato, oltre ad Alce Nero, segnalo Poggio del Farro, Sgambaro, Fior di Pietra.
Invece la lista dei prodotti che utilizzano con disinvoltura il tricolore o che si definiscono «made in Italy», pur senza utilizzare soltanto materia prima nazionale, è molto lunga. Fra quelli più noti ci sono sicuramente De Cecco e Divella, ma mi sono accorto che al gruppo si è aggiunta di recente pure la pasta Esselunga Bio, che fa sfoggio sul pacchetto di un tricolore accompagnato dalla scritta: «Prodotto in Italia».
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