Pier Carlo Padoan, dopo la manovra l'addio al governo Renzi?
di Marco Gorra
La seggiola più alta di Palazzo Chigi, qualora al referendum vincesse il no e si rendesse necessaria l'installazione del famoso governo di scopo per fare la legge elettorale (sicuramente) e un'altra manovra (quasi sicuramente); il posto di segretario generale dell' Ocse, il cui attuale occupante (il messicano Angel Gurria) va a scadenza tra qualche mese e di cui è già stato numero due per sette anni; una poltronissima europea o para-europea (difficile solo la pista che porta direttamente alla Commissione, con la quota italiana bloccata da Federica Mogherini alla Pesc, ma per il resto le vie di Bruxelles sono infinite). Ormai, raccontano, è solo questione di scegliere l'obiettivo e concentrarsi su come raggiungerlo. Per il resto, Pier Carlo Padoan la decisione l' ha presa: è ora di spiccare il volo oltre gli angusti confini del renzismo.
Il che aiuta a capire come mai il clima tra ministro dell'Economia e presidente del Consiglio - già non esattamente mite in partenza - sia andato vistosamente peggiorando nell'ultimo periodo, arrivando in questi giorni vicinissimo allo zero (secondo alcuni, da qualche tempo i due avrebbero persino smesso di rivolgersi la parola). A far precipitare definitivamente le cose sono state le ultime settimane di stretta finale sulla manovra: qui sono emerse tutte le divergenze - politiche e non solo - tra i due.
Inizio difficile - Due che, si diceva, avevano iniziato a prendersi poco fin dall'inizio. E non avrebbe potuto essere altrimenti. Febbraio 2014, in corso le trattative per l'organigramma del governo che prenderà il posto di quello guidato dall'appena defenestrato Enrico Letta. A condurre le trattative sono il quasi premier Matteo Renzi e l'ancora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Se le altre caselle vanno a posto con relativa facilità, è sul ministero dell' Economia che si va al braccio di ferro. Da una parte Renzi che non molla sul rinnovamento (ma soprattutto che vuole scongiurare il rischio della diarchia) e spinge per il fedelissimo Graziano Delrio; dall'altra Napolitano, che di quel governo è pur sempre il garante agli occhi del mondo e che si trova nella necessità almeno di dotarsi di un ministro dell' Economia che non risulti, al pari dei colleghi, sconosciuto alle famose cancellerie internazionali. A spuntarla sarà il capo dello Stato, che dopo non essere riuscito a piazzare Padoan a Bersani prima e a Letta poi, vincerà finalmente le non poche resistenze di Renzi ed imporrà per via XX settembre il nome del suo pupillo.
Per capire il perché delle riserve del giovane segretario del Pd, è sufficiente scorrere il curriculum del ministro designato. E prendere atto che no, non esiste in esso una singola voce che non paia messa lì apposta per incarnare un qualche fantasma agli occhi di Renzi. Tanto per cominciare, è dalemiano: consulente economico ai tempi di Palazzo Chigi, in seguito era andato a dirigere il pensatoio dell' ex premier Italianieuropei. Biglietto da visita non ottimale se c' è da andare d' accordo con uno che ha costruito la propria carriera sull' idea stessa di rimozione di D' Alema.
Ma ben più dell' ascendente coi baffi, a turbare i sonni del premier è il resto del curriculum di Padoan: Banca Mondiale, Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, la citata Ocse, l'Istat di cui è presidente al momento della nomina. Una specie di hit parade dell'altissima burocrazia che rende il neoministro l' incarnazione di quel tecno-apparato la cui rottamazione è al primo punto dell' agenda del premier fiorentino. Si aggiunga una certa idiosincrasia caratteriale di fondo e la frittata è fatta: altro che diarchia, qui c'è la guerra fredda prima ancora di cominciare.
Come nei casi più classici, più ci si detesta privatamente e più in pubblico ci si affanna a dimostrare il contrario. Così, durante le prime settimane di vita del governo, ogni occasione pubblica dove i due compaiono insieme viene invariabilmente salutata dalla scenetta di prammatica, col premier che, mentre il ministro sorride lievemente imbarazzato, solitamente senza proferire parola, sfodera i trentadue denti e proclama che lui e Padoan vanno d' amore e d'accordo a parte quando si parla di pallone perché lui è della Fiorentina e l' altro della Roma. Non bastasse la palese falsità della cosa, a fare giustizia dell' impostura soccorrono poi gli astri, che di lì a poco apparecchiano un incrocio luciferino di sorteggi in forza del quale nel giro di due settimane la Viola fa fuori i giallorossi dall' Europa league e dalla Coppa Italia. Da allora, il simpatico siparietto pallonaro verrà inspiegabilmente mandato in soffitta.
Nel frattempo, però, i nostri hanno trovato da bisticciare per questioni più serie. Meglio, si sono andati delineando i contorni del "Grande Contrasto Permanente": di qua Renzi che ingaggia la titanomachia contro la burocrazia e l' idolatria degli zerovirgola, di là Padoan che se ne erge a paladino. Il punto è che la distanza tra i due è proprio filosofica: la battaglia rodomontesca di Renzi in nome del primato della politica contro la difesa operata da Padoan della prevalenza dei tecnici, (in special modo quelli in servizio al ministero dell' Economia, spesso e volentieri oggetto degli strali del premier e sempre difesi dal ministro); gli assalti del presidente del Consiglio alla dittatura finanziaria europea tutta lacci e vincoli contro l' argine del titolare di via XX settembre in difesa dell' austerità e dell' ortodossia; le suggestioni anti-tasse del capo del governo contro la barriera rigorista del Tesoro. Difficilmente passa una settimana senza che che sui giornali esca un retroscena che ruota intorno alle stesse, immutabili parole di Padoan: «Matteo, questo non si può fare».
Gli equilibrismi - Una cosa che non si può fare dopo l'altra, e passano i mesi. Col tempo, il contrappeso esercitato nei confronti di Renzi cessa di essere puramente tecnico ed inizia a presentare anche coloriture politiche. Che si vedono meglio a Bruxelles - dove il ministro si muove come un pesce nell' acqua e dove nessuno, specie in Commissione, fa mistero di preferire nettamente l' integrato Padoan all' apocalittico Renzi quando c' è da discutere di cose italiane - ma che a sorpresa vengono fuori anche a Roma: quando, nei giorni convulsi del dopo-dimissioni di Napolitano e della relativa corsa al Colle, nel toto-quirinale spunta il nome di Padoan (e nemmeno tanto come boutade: reggerà per giorni), dalle parti di Palazzo Chigi suona il campanello d' allarme.
Il resto è storia recente, che arriva fino all' altro ieri ed alla manovra da ventisei miliardi e mezzo licenziata dopo settimane di equilibrismi da parte di Padoan tra ragion di Stato (e di governo, dato che sulla finanziaria si gioca un bel pezzo della campagna elettorale per il referendum) e rispetto dell' impianto imposto da Bruxelles (che il 5 dicembre dovrà pur sempre dare luce verde). Sintesi trovata nonostante le difficoltà e manovra portata a casa. Manovra che però rischia di essere l' ultima firmata dal tandem Matteo-Piercarlo. Se poi sia destinata ad essere l' ultima su cui Padoan avrà (magari da oltreconfine) voce in capitolo, è tutto un altro discorso.
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