Rai, il piano di Matteo Renzi: l'arma per ricattare Viale Mazzini
di Franco Bechis
La data è scritta nero su bianco nell’articolo 49 del testo unico della televisione approvato nel 2005: «La concessione del servizio pubblico generale radiotelevisivo è affidata, fino al 6 maggio 2016, alla Rai-Radiotelevisione italiana spa». Mancano 7 mesi e al momento non è stato istituito nemmeno un tavolo di discussione al ministero dello Sviluppo Economico retto da Federica Guidi. Del rinnovo di quella concessione, l’atto fondamentale per cui fin da quando si chiamava Eiar, la Rai è l’unica azienda italiana che può incassare dall’erario il canone pagato ogni anno dai cittadini, non si fa cenno nemmeno nella legge di riforma della televisione pubblica che in questo momento è alla Camera davanti alle commissioni riunite Cultura e Trasporti. Lo stesso servizio studi di Montecitorio, ha suggerito almeno di stabilire nella legge che quella concessione, che secondo la legge attuale dovrebbe essere di durata ventennale, sia ridotta e adeguata temporalmente al contratto di servizio periodico che dovrebbe stabilire gli obblighi di trasmissione della Rai in cambio di quel canone.
La nuova legge fortemente voluta da Matteo Renzi cambia quel contratto di servizio, portandone la durata da 3 a 5 anni, e il servizio studi lo stesso suggerisce di fare per la concessione. Ma nessun emendamento di maggioranza se ne occupa. Per un motivo molto semplice: il capo del governo vuole la nuova legge così come è stata approvata dal Senato entro il prossimo 19 ottobre. Quindi senza modifica alcuna, altrimenti si deve tornare nell’altro ramo del Parlamento e perdere altro tempo. Invece Renzi vuole dare entro questo mese al direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto i poteri da amministratore delegato. In viale Mazzini lo sanno tutti, e anche per questo non si sono attribuite deleghe ai vari consiglieri di amministrazione. Senza deleghe nessuno quindi si è fatto avanti con il governo per discutere di rinnovo e contenuti della concessione. E i rischi sono altissimi. Il governo precedente, per bocca dell’allora viceministro Antonio Catricalà, aveva ipotizzato che quella concessione fosse assai aperta e non scontato il rinnovo automatico. Quello attuale non ha mai parlato di possibilità di spezzatino o di messa all’asta con altri soggetti del canone tv, però non ha fatto un solo passo sulla strada del rinnovo. Si tiene così in mano una pistola puntata sull’azienda pubblica che pesa assai di più di qualche intemperanza di Michele Anzaldi su Rai Tre e i suoi direttori, accusati di avere dato eccessivo spazio alla minoranza del Pd. Quella pistola è puntata ad accompagnare le nomine che il nuovo amministratore delegato potrà fare senza troppe trattative con il suo consiglio di amministrazione e aiuterà non poco ad annullare qualsiasi resistenza su eventuali piani di riassetto dell’azienda, dei suoi canali e delle sue reti. Tanto tutti sanno che senza canone possono tranquillamente chiudere i battenti.
«Sì, è vero», conferma il consigliere di amministrazione Arturo Diaconale davanti al Senato, «che finora di rinnovo della concessione non si è parlato. La trattativa inizierà nei prossimi mesi, di sicuro. Una pistola puntata? L’antipasto è stato l’attacco a RaiTre? Ma no, quello è stato un episodio del lungo congresso Pd. Poi certo, l’azienda oggi vive su un assetto politico che si basa su una storia che non c’è più... anche la tripartizione delle reti non ha senso come è stata vissuta fin qui». Secondo il componente della vigilanza Augusto Minzolini «è evidente che il governo così sta tenenendo sotto scacco la Rai. Ma deve mettersi d’accordo con se stesso. È un’azienda pubblica, dove pesa la politica? Vero che la tripartizione antica dei canali per influenza non ha più senso: bisognerebbe che una rete rifletta il Movimento 5 stelle, non rappresentato, ma protagonista del nuovo sistema politico tripolare. Si vuole tagliare i cordoni con la politica? Allora si faccia davvero la Bbc, con due reti finanziate solo dal canone, la pubblicità rimessa sul mercato per favorire davvero il pluralismo delle idee, e le altre 10 reti esistenti vendute ai privati. Invece il governo non vuole fare né una scelta né l’altra».
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