L’intervento del Papa? Sai che sforzo... Contro il califfo non basta
di Antonio Socci
«Ahimé, basta tacere! Gridate con centomila lingue. Vedo che, per lo tacere, lo mondo è guasto, la Sposa di Cristo è impallidita». Con queste parole tuonava santa Caterina da Siena scrivendo a un alto prelato. Si sente il bisogno anche oggi nella Chiesa di donne e uomini di fede ardente e di cuore libero che - come Caterina - si rivolgano così a un papa (Gregorio XI) pieno di timori, che non faceva quello che avrebbe dovuto: «Io, se fussi in voi, temerei che il divino giudicio venisse sopra di me». Ma i nostri sono tempi di clericalismo, di bigottismo e di adulatori. E le voci dei grandi santi (o degli uomini liberi) non ci sono o non si sentono.
Eppure è difficile e - per un cattolico - molto doloroso capire e accettare l’atteggiamento del Vaticano di papa Bergoglio di fronte alla tragedia dei cristiani (e delle altre minoranze) in Iraq, braccati e massacrati dai sanguinari islamisti del califfato anche in queste ore. Prima, per settimane, un’evidente reticenza, quasi imbarazzo a parlarne. Perfino l’iniziativa di preghiera della Cei del 15 agosto scorso è stata passata sotto silenzio dal Papa che evidentemente ha in antipatia la Chiesa italiana.
Ora, finalmente, dopo una ventina di giorni di massacri di uomini, donne e bambini, e dopo mille pressioni (anzitutto da parte dei vescovi di quella terra e dei diplomatici vaticani), papa Bergoglio si è deciso a pronunciare le fatidiche parole, sia pure in modo assai felpato: «è lecito fermare l’aggressore ingiusto». Sai che sforzo… Ci mancava pure che dicesse che è lecito lasciare che l’aggressore massacri la gente inerme e innocente, che crocifigga i «nemici dell’islam», che seppellisca vivi i bambini, che stupri e venda le donne come schiave.
ALTRI PAPI
Con ben altra tempestività ed energia Giovanni Paolo II nel 1993 tuonava sul dovere di difendere gli inermi dai massacri: «Se vedo il mio vicino perseguitato, io devo difenderlo: è un atto di carità. Questa per me è l’ingerenza umanitaria». Ma non c’è più Giovanni Paolo II e purtroppo nemmeno Benedetto XVI. Dunque dopo aver detto, con incredibile ritardo, che «è lecito fermare l’aggressore ingiusto», Bergoglio si è affrettato ad aggiungere che però va fatto senza «bombardare» o «fare la guerra». Cosicché viene amaramente da chiedersi se egli vuole salvare la faccia (propria) o la vita di quegli innocenti. Qual è infatti il modo per «fermare» una banda di assassini crudeli senza usare le armi? Cosa propone papa Bergoglio per «fermare» quei carnefici? Un tressette col morto? Un thè con monsignor Galantino?
Si dirà che il Papa non può esortare a usare la forza, sia pure per salvare vite innocenti. Sbagliato. Da secoli la dottrina cattolica ha sancito il diritto alla legittima difesa e il principio di «uso della forza» per la legittima difesa. Proprio i teologi della Scuola di Salamanca come il domenicano Francisco de Vitoria, nel XVI secolo, fondarono sulle basi della legge naturale il diritto internazionale, Benedetto XVI lo ricordò alle Nazioni Unite evocando «il principio della “responsabilità di proteggere” (che) era considerato dall’antico ius gentium quale fondamento di ogni azione intrapresa dai governanti nei confronti dei governati». E aggiunse che «il frate domenicano Francisco de Vitoria, a ragione considerato precursore dell’idea delle Nazioni Unite, aveva descritto tale responsabilità come un aspetto della ragione naturale condivisa da tutte le Nazioni, e come il risultato di un ordine internazionale il cui compito era di regolare i rapporti fra i popoli».
In questo quadro Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae del 1995 affermava: «la legittima difesa può essere non soltanto un diritto ma un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile. Accade purtroppo che la necessità di porre l’aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua soppressione. In tale ipotesi, l’esito mortale va attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione».
Parole significative perché Giovanni Paolo II si è sempre caratterizzato per la difesa energica della pace (per esempio opponendosi alla guerra americana in Iraq), ma con altrettanta energia ha incitato la comunità internazionale a fermare, anche con l’uso della forza, i carnefici in azione (e si noti bene che a quel tempo la popolazione minacciata era di religione islamica). Quello che semmai papa Francesco dovrebbe chiedere - sulle orme di Giovanni Paolo II - è che tale «uso della forza» da parte della comunità internazionale sia proporzionato e mirato a disarmare gli aggressori e a salvare la vita dei braccati.
Ma purtroppo non si è sentita nessuna riflessione approfondita. Si nota solo la preoccupazione di Francesco di non uscire dallo stereotipo del papa «politically correct». Infatti ha sentito il bisogno di ripetere che fra le minoranze minacciate dall’Isis ci sono anche non cristiani «e sono tutti uguali davanti a Dio». Un’ovvietà che è parsa una «excusatio non petita…». Del resto se rileggiamo insieme i vari interventi di papa Bergoglio su questa carneficina non si troverà mai la parola islam, islamisti o musulmani. Se uno disponesse solo delle parole del Papa non capirebbe minimamente a chi si deve questa «tragedia umanitaria» e per quale motivo viene perpetrata.
Una reticenza grave, figlia dell’ideologia cattoprogressista che interpreta erroneamente il dialogo con i musulmani come una resa, anche psicologica. Tanto è vero che ci sono commentatori cattoprogressisti che arrivano perfino a ripetere che i carnefici del Califfato non hanno niente a che vedere con l’islam. Peccato che tali carnefici impongano alle minoranze conquistate la conversione immediata all’islam in alternativa alla morte, come è accaduto nei giorni scorsi a Kocho, un piccolo villaggio del Nord Iraq abitato da yazidi dove i jihadisti hanno massacrato circa 80 uomini che si rifiutavano di convertirsi e incatenato e deportato un centinaio di donne e bambini.
GIUDIZIO CHIARO
Naturalmente è comprensibile che le autorità della Chiesa non cerchino lo scontro, la polemica o il conflitto religioso. Giusto. Ma è anche un dovere dire la verità e dare ai fedeli un serio «giudizio culturale» su quello che il mondo oggi sta facendo ai cristiani. Soprattutto considerando la subalternità culturale di tanti cattolici: c’è chi ritiene deprecabile perfino parlare di «cristiani perseguitati» (eppure sono il gruppo umano più perseguitato, nel maggior numero di Paesi del mondo).
Detto questo voglio sottolineare che le dichiarazioni di papa Francesco dell’altroieri sono comunque un passo avanti, sperando che - senza dover aspettare troppo, perché la situazione è drammatica - arrivino presto parole ancora più chiare e decise. Sono un passo avanti che dovrebbe chiarire le idee ai tanti che nei giorni scorsi, contro chi domandava una parola chiara, ribattevano stizziti che chiedere di fermare gli assassini significava volere la guerra e le crociate.
L’intervento del Papa chiarisce le idee anche a quelli che affermavano: «se il Papa tace significa che vuol evitare ritorsioni più gravi», oppure «se non dice niente significa che sta operando riservatamente». Erano balle. In realtà in Vaticano si sono illusi per settimane che vi fosse ancora una via diplomatica, mentre i carnefici del califfato - come denunciavano i vescovi del posto - volevano solo conquistare, convertire a forza e massacrare. Non sanno nemmeno cosa siano il «dialogo» o la diplomazia.
Un’ultima nota. Negli interventi fatti durante il viaggio in Corea, papa Bergoglio ha anche giustamente invitato tutta la Chiesa alla riflessione sui martiri di ieri e di oggi e alla preghiera. Sacrosanto. Ma è un invito molto blando, senza la mobilitazione di tutta la Chiesa per soccorrere queste vittime e senza quella profonda consapevolezza culturale che sapeva darci Benedetto XVI. Oggi domina lo smarrimento.
Nessun commento:
Posta un commento