Gli affari delle Coop con i bambini in comunità
di Claudia Osmetti
A farne le spese sono i circa 35mila bambini che vivono nelle case famiglia o nelle comunità destinate ai minori. Circa, perché allo stato dei fatti non c'è manco un computo preciso di quanti piccoli, in tutto il territorio nazionale, siano effettivamente ospiti di queste strutture. Sono i figli di nessuno, quelli abbandonati dai genitori e presi in carico dallo Stato, o quelli allontanati dalla famiglia d'origine con una decisione del tribunale. Sulla loro pelle, però, passano scartoffie e carte bollate, incertezze normative e vuoti istituzionali, giri d'affari impressionanti e gestioni poco trasparenti. Basti pensare che il business di questa assistenza vale, all'anno, più di 1 miliardo di euro. Ma a snocciolare il quotidiano di questi ragazzini c'è molto di più.
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PAGANO I COMUNI - «Ci hanno raccontato che gli istituti dove, in passato, suonava la campanella per richiamarli non esistono più», racconta Cristina Franceschini, avvocato veronese e presidente della onlus Finalmente Liberi che si occupa (da anni) delle problematiche legate al mondo dell' affidamento minorile. Si riferisce forse alla chisura degli orfanotrofi, sancita dalla legge n. 149 del 28 marzo 2001 e prevista entro il 31 dicembre 2006, con conseguente ricollocamento dei minori in comunità di accoglienza, case-famiglia e, dove possibile, presso famiglie affidatarie o adottive. «Ovvio, tutto quello che può migliorare la loro vita va bene, ma nel complesso c' è qualcosa che non torna». A cominciare dalla questione portafogli: le rette degli ospiti di queste strutture si aggirano su una media che va dai 70 ai 120 euro al giorno, eppure ci sono casi in cui toccano addirittura i 400. Non proprio bruscolini, se in un mese l' esborso è di 12mila euro. A bambino. Cioè 144mila euro all'anno. Per una cifra simile, insomma, dovrebbero vivere da piccoli principi. E invece spesso non hanno nemmeno un numero adeguato di educatori che li segue.
CASE COMUNITA' - I costi per i minori in questione sono tutti, senza eccezioni di sorta, a carico dei Comuni, cioè sul conto spesa dei contribuenti. Niente di male, intendiamoci: questi piccoli hanno bisogno di un aiuto concreto, e le istituzioni non possono e non devono tirarsi indietro. È l'ammontare complessivo e la sua gestione, semmai, che lasciano qualche dubbio. Come detto, dopo la chiusura dei vecchi orfanotrofi, ecco le "case famiglia" (dovrebbero essere - certezze, ovviamente, nessuna - 1800 in tutto lo Stivale) e le "comunità" che si dividono in terapeutiche ed educative. L'inserimento in una di queste è, parola del Garante per l'infanzia, l'ultima spiaggia, ma in realtà sta diventando una prassi consolidata. «Tanto spesso ci sono delle cooperative che all'interno del proprio nucleo hanno diverse case famiglia che si trovano magari anche nello stesso palazzo», spiega Franceschini, «così alla fine diventano dei veri e propri istituti. Dovrebbe esserci un educatore ogni due bambini, ma spesso questo non avviene: ci sono comunità dove, di notte, è presente solo un adulto con dieci ragazzi».
CONTROLLI INSUFFICIENTI - D'altro canto, anche i controlli lasciano il tempo che trovano. Report semestrali mancanti, banche dati non ancora operative, statistiche mai stilate: tanto per capirci, nessuno ha mai messo nero su bianco quante risorse siano state in concreto investite per la cura di questi ragazzi. «Le procure visitano le comunità solo su segnalazione, e nella maggior parte dei casi si basano esclusivamente sulle auto-certificazioni. Questo non basta», continua l'avvocato. E a livello di raccordi locali va anche peggio: tra una regione e l'altra, infatti, non esiste nemmeno la stessa nomenclatura, per cui anche gli addetti ai lavori finiscono per perdersi. «Servirebbe un organo terzo che faccia i controlli, almeno a campione», chiosa Franceschini, «e che spulci tutto: dalla scheda dei minori, al percorso che stanno seguendo, fino ai prodotti che sono contenuti nel frigorifero di casa. Sarà pure una banalità che fa sorridere, ma quando si tratta dei nostri bambini non possiamo lasciare nulla al caso».