All'aeroporto di Londra per 24 ore, prigioniero di Easyjet
di Maurizio Belpietro
Devo questo articolo alle centinaia di persone che domenica notte hanno bivaccato all'aeroporto di Gatwick a causa di un black out e dell'inefficienza di alcune compagnie, la più nota tra le quali è EasyJet. Viaggio molto, in Italia e all'estero. Direi che posso essere considerato un frequent flyer, con circa 2000 ore di volo all'attivo, quasi come un pilota professionista. Ciò nonostante non mi è mai capitato di imbattermi in un misto di incapacità, arroganza e impreparazione come mi è toccato a Londra.
Il problema ovviamente non è il guasto tecnico che ha messo fuori uso una ventina di gate, lasciando parte del secondo aeroporto della capitale inglese al buio e impedendo gli imbarchi. L'avaria è sempre possibile e quando si viaggia si deve mettere in conto. Il problema non è neppure la lentezza con cui si è cercato di risolvere il black out: la domenica il personale delle squadre di pronto intervento non è al completo, anche se in un aeroporto da cui partono migliaia di persone forse sarebbe meglio che lo fosse. Il problema sta nel modo in cui sia la società di gestione dell' aeroporto e alcune compagnie aeree - in particolare EasyJet - hanno gestito l' emergenza, cioè nella totale impreparazione. Nessun annuncio, nessuna spiegazione, se non un messaggio registrato per dire che le squadre di pronto intervento stavano lavorando alacremente. Nessun aiuto, alle famiglie, alle persone anziane, a chi se la cavava male con l' inglese. Soprattutto nessun rappresentante della EasyJet. Per vederne uno è stato necessario attendere alcune ore, dopo averle trascorse di fronte ai video muti delle partenze, inseguendo segnali contraddittori, con conseguente transumanza dalla sala imbarchi ai gate nella speranza che questi venissero aperti.
Ore d' attesa. In piedi. Senza notizie se non la scritta della compagnia e l'indicazione del volo. Il Flight tracker, cioè l' applicazione online della compagnia, spostava di venti minuti in venti minuti la partenza, parlando di generiche difficoltà di traffico. Alla fine, mentre altri voli ritardati partivano e altri venivano cancellati, dal video del gate è scomparso anche il nome della compagnia e del volo. Al suo posto è comparso solo l'invito a presentarsi al desk della compagnia. Che ovviamente era sprovvisto di personale.
L' unica assistente con indosso una divisa della EasyJet è comparsa dopo ore, dotata di arroganza più che di buon senso. Ordine perentorio di uscire dall' area imbarchi, superare i controlli doganali e recarsi al banco Customer Service di EasyJet, per affrontare l'ennesima prova. Una fila lunga di ore per poter parlare con un assistente di terra, ricevere un' informazione scarna sul prossimo volo, un' indicazione vaga di un albergo nelle vicinanze per trascorrere la notte, un voucher da 12 pounds per riparare alla cena saltata. Nessun trasfert per l' hotel, nessuna carta d' imbarco, ancora nessuna spiegazione. E dunque altre code per i taxi, altre code per gli alberghi, a volte per sentirsi dire che la stanza non c' era. Camere odorose di muffa con servizi sporchi.
Centinaia di persone (mille, forse più) lasciate così. Non a Zanzibar, da un vettore sconosciuto. A Londra, da un vettore conosciuto che vanta di appartenere alla nuova generazione del traffico aereo. E che il giorno dopo, con il volo di riparazione è riuscito ad accumulare altri 40 minuti di ritardo.
In un caso del genere, di fronte a un tale disservizio e alla maldestra improvvisazione, viene voglia di rivalutare l'
Italia e perfino l' Alitalia. Se quello è il secondo aeroporto inglese, quasi quasi è meglio tenersi l'ultimo del nostro Paese.