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lunedì 1 dicembre 2014

La maxi-tangente del Pd si "allarga": altri guai, spunta l'abuso d'ufficio

Pd, maxi-tangente: il partito sempre più nei guai

di Giacomo Amadori 



I guai per il Pd nell'inchiesta per la presunta tangente milionaria al deputato renziano Marco Di Stefano sembrano non finire mai. Infatti tra i nuovi indagati dell'inchiesta (vedere box), c'è anche Tonino D'Annibale, direttore dell’Amministrazione di Lazio service ed ex consigliere del Pd in Regione dal 2010 al 2013. Non basta. A peggiorare il panorama ci sono le nuove accuse mosse contro Di Stefano. Come è noto, quando era assessore regionale al Patrimonio e al Demanio, avrebbe percepito una tangente da 1,8 milioni di euro dal gruppo imprenditoriale Pulcini per facilitare un lucroso affare. Ma nel capo d'imputazione si apprende anche che avrebbe soggiornato nell’esclusivo resort di Poltu Quatu in Sardegna (di proprietà dei Pulcini) a prezzi di favore e avrebbe usufruito, dopo la separazione dalla moglie, di un appartamento di lusso ricavato in uno storico palazzo cinquecentesco nel cuore di Trastevere. Il contratto annuale era intestato all'amico Nazzareno Neri e i due, per un periodo, vi avrebbero risieduto insieme.

Una contestazione che ricorda quella già mossa contro altri due ex coinquilini eccellenti come l'ex ministro Giulio Tremonti e il suo collaboratore Marco Milanese. Neri, cinquantanovenne romano, è un personaggio chiave in questa vicenda. Di mestiere fa il commercialista a Roma Nord e in passato è stato il sindaco supplente della Lazio service spa, la società di proprietà regionale che ha affittato per 50,5 milioni di euro due palazzi del gruppo Pulcini, consentendo, secondo l'accusa, a Di Stefano di incassare la mazzetta milionaria. Neri è stato anche il tesoriere (mandatario) di Di Stefano per la campagna elettorale del 2013. Inoltre il professionista ha fatto parte del consiglio d'amministrazione della C.c.s., Cooperativa costruzioni socialli, cessata nel 2012. La sede è allo stesso indirizzo dello studio Neri e del cda faceva parte anche Maurizio De Venuti, cognato di Di Stefano.

Il nome di Neri ricorre anche in una nuova contestazione rivolta a Di Stefano, questa volta per abuso d'ufficio, una vicenda che Libero è in grado di ricostruire nei dettagli. Secondo i magistrati, Di Stefano, nel 2008, avrebbe procurato al suo uomo di fiducia «un ingiusto vantaggio patrimoniale». Stiamo parlando di un avveniristico progetto per un centro sportivo sulle rive del Tevere, a due passi dagli studi televisivi Rai di Saxa Rubra. Un piano portato avanti da Alfredo Guagnelli, l'amico di Di Stefano, misteriosamente scomparso nel 2009 e indagato per corruzione insieme con il politico. «Mi ricordo di quell’idea. Alfredo mi parlava dei vip che avrebbero frequentato il suo circolo» ricorda Enrico Marcolini, ex prestanome di Guagnelli. L'opera avrebbe dovuto sorgere in un’area golenale larga 11 ettari sulla riva destra del Tevere, per la quale era necessaria una concessione regionale.

La storia del centro sportivo nasce, probabilmente, in modo incidentale. Infatti nel maggio del 2003 a chiedere il permesso alla Regione sono due architetti romani, Maria Teresa Caputo, classe 1966, e il marito cinquantenne Francesco Bellardi. Caputo ci racconta di aver cercato inutilmente per diversi anni di ottenere l'autorizzazione per quell'area demaniale, sino alla svolta. La donna non spiega quale sia stato il segreto per sbloccare l'impasse, ma ammette di aver cercato un santo in paradiso: «Mio marito per realizzare la nostra idea ha bussato a tantissime porte e certamente ha incontrato anche l'assessore al Demanio, Di Stefano». Nell'aprile del 2008, i due architetti costituiscono la «Saxasport, società dilettantistica a responsabilità limitata». il 29 settembre il direttore del dipartimento Territorio Raniero De Filippis (succesivamente arrestato nell’inchiesta sulla discarica di Malagrotta) firma una determinazione per il rilascio della concessione a condizioni particolarmente favorevoli. Accorda l'uso degli 11 ettari di terreno demaniale e di un laghetto di 3 mila metri quadri per 19 anni a partire dal primo novembre del 2008, sino al 2027. Il canone per i primi tre anni è quasi simbolico (meno di 1.100 euro al mese), in previsione degli onerosi lavori per realizzare gli impianti sportivi.

Eppure, dopo tanto affannarsi e aver raggiunto l'agognato obiettivo, i due architetti hanno un repentino ripensamento: «Abbiamo capito che preferivamo continuare a fare la nostra professione e non gli imprenditori. Per questo abbiamo ceduto la società a un gruppo di persone» spiega Caputo. E così il 19 novembre cedono la società con in pancia la concessione appena ottenuta. E chi sono gli acquirenti? Nazzareno Neri, Bruno Guagnelli, il fratello dello scomparso Alfredo, e altri tre soci: 28 per cento di quote al professionista, 18 a testa per tutti gli altri. «Abbiamo avuto rapporti direttamente con Neri» ricorda Caputo. Ma non vi sembrava sospetto che l'assessore sbloccasse la concessione e ad acquistare fosse il suo commercialista? «Neri si è presentato con un amico, un certo Mauro, che si occupa di sport. Ma se lei vuole pensare male…». Tra il 2008 e il 2009 Alfredo Guagnelli è lanciato nel mondo dello sport che considera un grande volano per gli affari.

Ai Mondiali di nuoto piazza le hostess della sua agenzia di modelle. Nel novembre del 2008 chiede al fratello Bruno di entrare in società con Neri: «Io ho capito subito che di mezzo c'era Di Stefano, visto che Nazzareno era il suo commercialista. Ma mio fratello mi assicurò che l'affare era pulito. Però quando l'ho raccontato alla Polizia mi hanno detto che sicuramente dietro c'era qualcosa di losco e che per questo avrei rischiato pure io un avviso di garanzia». Guagnelli sostiene che quelle quote costarono più di 100 mila euro e che per la sua parte aspettò l'arrivo del fratello con il soldi davanti al notaio: «Li trovava sempre all'ultimo». Su Internet si trova ancora il magnifico progetto di centro sportivo dei due architetti. Che avrebbero dovuto realizzare i nuovi soci. Purtroppo per tutti nel febbraio del 2009 Di Stefano perde la poltrona di assessore e gli uffici regionali bloccano l'edificazione degli impianti. Ad ottobre scompare Alfredo Guagnelli. Nel 2010 il fratello Bruno lascia l'Italia e si trasferisce in Brasile e nel 2013 il cda «delibera di escludere dalla società» lui e un altro socio. Nel 2013 Neri, da presidente di Saxasport, si candida alla giunta del Coni, ma ottiene un unico voto. Il sogno di un nuovo circolo sportivo a cinque stelle, per ora, resta arenato a un'accusa di abuso d'ufficio.

In Italia ci sono mezzo milione di posti i consigli di Ichino per trovare lavoro / L'intervista

Ichino: "C'è mezzo milione di posti che non sappiamo occupare"

di Tobia De Stefano 


Professor Ichino, dalle slides della sua conferenza dei giorni scorsi, on line sul suo sito, emerge un dato di fondo: il problema principale oggi in Italia è la mancanza di lavoro eppure ci sono molti posti disponibili che restano inoccupati. Ci spiega perché?

«Perché il nostro mercato del lavoro non è innervato dai servizi indispensabili in un tessuto produttivo moderno».

Quali servizi?

"Innanzitutto quello di orientamento scolastico e professionale, che nei Paesi del centro e nord-Europa raggiunge capillarmente ogni adolescente all’uscita da un ciclo scolastico, fa il bilancio delle sue attitudini e aspirazioni, e soprattutto lo informa in modo dettagliato su tutte le opportunità che il mercato gli offre, in relazione a quelle attitudini e aspirazioni, e sugli strumenti di formazione specifica necessari per accedervi".

Ma disoccupati non sono solo i giovani...

"Certo che no. Ma anche gli adulti che cercano una nuova occupazione hanno bisogno di informazioni qualificate sulle opportunità offerte dal mercato del lavoro, a cominciare dai posti che restano scoperti a lungo per mancanza di manodopera che abbia le competenze necessarie, e sulle iniziative di formazione mirata a risolvere questo scompenso, lo skill shortage. In Italia manca sia l’informazione, sia la formazione mirata, cioè quella strutturata proprio in funzione dello sbocco occupazionale specificamente individuato".

Quanti sono oggi gli skill shortages (personale qualificato che si vorrebbe assumere ma che non si trova) in Italia?

"Il censimento Unioncamere Excelsior ne censisce uno per uno, attraverso gli annunci e i dati forniti dalle agenzie di ricerca e selezione di personale, più di centomila; ma gli esperti ci avvertono che per ognuno di questi casi di impresa che spende tempo e soldi per cercare personale difficile da trovare, ce ne sono altre quattro o cinque “scoraggiate”, che avrebbero bisogno ma rinunciano a cercare".

Un fenomeno che viaggia in modo simmetrico con quello dei “disoccupati scoraggiati”, che smettono di cercare lavoro per la difficoltà di trovarlo?

"Proprio così. Poi ci sono i dati relativi a singole regioni, forniti da censimenti di osservatori del mercato del lavoro molto qualificati come quello della Cgia di Mestre, che ne individua 45.000 nel solo Veneto. Se rapportiamo questo dato all’intero territorio nazionale, si arriva a più a un mezzo milione. E questo dato è confermato, sia pure in modo un po’ grossolano, per un’altra strada".

Quale? 

"Se partiamo dal dato delle ricerche di personale in corso in un giorno qualsiasi in Italia, che si contano in più di 1,3 milioni, e sottraiamo i circa 800mila contratti di lavoro censiti ogni mese dal sistema delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, ne risulta un mezzo milione di ricerche di personale che restano insoddisfatte per periodi rilevanti".

Lei parla di 800mila assunzioni al mese?

"Sì. Nell’ultimo anno di cui abbiamo il dato complessivo, cioè il 2013, sono state 9,6 milioni. Per due terzi sono contratti di breve o brevissima durata, che magari si ripetono per decine di volte tra la stessa impresa e la stessa persona. Ma un terzo di queste assunzioni durano almeno sei mesi; e un sesto, 1,6 milioni, sono a tempo indeterminato. È un flusso enorme che si verifica nonostante la congiuntura economica pessima. Ma questo flusso è totalmente ignorato dai Centri per l’Impiego. E a questo flusso accedono soltanto coloro che dispongono delle reti amicali, parentali o professionali indispensabili. Gli altri ne restano esclusi, proprio per la carenza dei servizi di cui dicevo prima".

Come colmare questo gap?

"Occorre incominciare col responsabilizzare i dirigenti dei servizi di collocamento e di formazione professionale su obiettivi precisi di efficienza ed efficacia. Per esempio: numeri di persone collocate, tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Poi, il dirigente che non raggiunge gli obiettivi perde il posto, viene sostituito. Per questo, naturalmente, occorre anche che i dirigenti statali e regionali si riapproprino delle proprie prerogative manageriali, a cui fin qui hanno comodamente rinunciato".

Ma nessuno sembra avere intenzione di farlo...

"Beh, il Jobs Act prevede proprio questo: l’agenzia nazionale dovrà stabilire gli obiettivi di efficienza ed efficacia dei servizi per l’impiego e controllare che ciascuna Regione li rispetti. E prevede che l’agenzia stessa si surroghi a quelle che non li rispettano. Il problema, però, non è tanto la norma, quanto la volontà e la capacità di attuarla".

Chi ha le maggiori responsabilità di tutto questo?

"Le ripartirei in parti uguali; una parte sul movimento sindacale, che si è sempre occupato sostanzialmente soltanto delle politiche passive del lavoro, cioè del sostegno del reddito ai senza lavoro, ma non delle politiche attive, cioè delle misure per l’inserimento e reinserimento nel tessuto produttivo; l’altra parte sul ministero e gli assessorati regionali del Lavoro, dove nessun dirigente risponde del conseguimento di obiettivi precisi e misurabili. Col risultato che l’efficienza dei servizi è a un livello assolutamente inaccettabile. Come dimostrano i risultati assolutamente deficitari dei primi sei mesi del programma Garanzia Giovani".

Giordano contro Papa Francesco: "Vi racconto la sua resa ad Allah"

Mario Giordano: il Papa che prega Allah mi sembra una resa, non un dialogo

di Mario Giordano 


Sarà pur stata un’“adorazione silenziosa”, e non una vera e propria preghiera. Sarà pur stato un gesto simile a quello compiuto da Benedetto XVI nel 2006, come s’affanna a precisare il preoccupato portavoce della Santa Sede. Sarà tutto quel che si vuole, ma fa un certo effetto vedere il Papa che si mette a mani giunte verso la Mecca nella Moschea Blu di Istanbul, mentre l’imam recita i versetti del Corano. E fa ancor più effetto pensare che quel Corano è lo stesso che, poco distante da lì, gli islamici usano per eccitare le folle a squartare i cristiani, a impalarli e crocefiggerli. A spazzarli via. C’è un contrasto troppo forte fra il Papa che rispetta fino all’ultimo tutti i riti dell’Islam, si toglie le scarpe e s’inchina al "mihrab", e gli islamici che a pochi chilometri dalla Moschea Blu non rispettano nulla dei cristiani. Non le loro chiese, non le tradizioni, non i riti. E nemmeno la loro vita.

Papa Francesco vuole dialogare con l’Islam, si capisce. Ma come si fa a dialogare con chi non vuole farlo? Come si fa dialogare con chi vuole solo abbatterti? Come si fa a dialogare con chi vuole piantare la bandiera del Califfato in piazza San Pietro? Il dialogo è una parola bellissima, che permette discorsi straordinari, preghiere comuni, gesti esemplari. Ci si toglie le scarpe insieme. Ci si inchina alla Mecca. Ci si trova d’accordo con l’imam e il gran muftì. Ma poi, in realtà, gli islamici non vogliono dialogare. L’hanno dichiarato apertamente: vogliono conquistarci. E distruggerci.

L’Islam buono e l’Islam cattivo? Una favola. Se fosse vero che i terroristi sono pochi fanatici marginali, non li avrebbero forse già messi a tacere? Non li avrebbero combattuti? Non li avrebbero almeno condannati con durezza? Invece no. Non sento dure condanne unite del mondo islamico contro gli orrori dei tagliagole. Non vedo mobilitazioni dei pellegrini della Mecca per fermare le mani dei loro confratelli. Non vedo fremiti di sdegno contro i massacri che vengono perpetrati contro i cristiani. Anzi: vedo silenzio. Quasi compiacimento. E, anzi, vedo fremiti di anti-cristianità che scuotono tutto il mondo arabo e arrivano perfino in Paesi che fino a ieri laici e nostri amici. A cominciare proprio dalla Turchia che sta scivolando sempre di più nell’Islam radicale, che non a caso sostiene sottobanco le milizie dell’Isis. E il cui presidente Erdogan ha appena riunito i 57 Paesi islamici per incitarli alla rivolta contro di noi: «L’Occidente ci sfrutta, vuole le nostre ricchezze - ha detto -. Fino a quando sopporteremo?».

Qualcuno ha cercato di spiegarmi che c’è pure una differenza tra il gesto di Benedetto XVI (che in moschea si fermò in raccoglimento ma non giunse le mani in preghiera) e quello di Francesco (che invece le ha unite, proprio come se stesse pregando). Se fosse vero, sarebbe un motivo in più per rimanere un po’ perplessi. Ma per rimanere perplesso a me basta, per la verità, vedere un Papa che si rivolge alla Mecca insieme con gli islamici proprio mentre molti islamici che si stanno rivolgendo alla Mecca hanno le mani sporche del sangue dei cristiani.

Mi pare che, dopo il famoso discorso Ratzinger a Ratisbona e la furiosa reazione che ne seguì da parte dei musulmani, i cattolici siano stati costretti a piegarsi. Noi facciamo gesti distensivi e loro moltiplicano i massacri. Noi costruiamo per loro moschee e loro distruggono le nostre chiese. Noi ci inchiniamo ai loro simboli nei nostri Paesi e loro non ci permettono di mostrare i nostri nei loro Paesi. Noi ascoltiamo i versetti del Corano con ammirazione e loro minacciano di declamarli dal Cupolone di San Pietro. Che vogliono trasformare all’incirca in un parcheggio dei loro cammelli.

Capisco l’ansia di Papa Francesco, che è un grande comunicatore, di costruire ponti con tutti: con gli islamici e con i non credenti (Eugenio Scalfari). Ma per costruire i ponti ci vogliono due cose. Primo: bisogna che dall’altra parte non ci sia chi ti vuol sgozzare o annientare, altrimenti è un autogol. Secondo: bisogna che i pilastri siano saldi, tutti e due. E il dubbio è proprio questo: il pilastro dell’Islam è saldo, quello dei non credenti pure. Ma il pilastro cattolico? È incerto. Barcollante. Sradicato. In effetti: non abbiamo radici. Le stiamo perdendo. L’Europa non ce le riconosce. Le chiese si svuotano. I preti invecchiano. I ragazzi non vanno più a catechismo. Dopo la cresima c’è la fuga. I valori del matrimonio e della vita sono messi costantemente in discussione. La famiglia tradizionale è massacrata. Come si può dialogare se non si hanno più valori da rappresentare? Come si possono aprire le porte agli altri, se non si è fortemente saldi dei propri principi? Se i propri valori sono stati attaccati, messi in vendita e liquidati?

In queste condizioni il ponte rischia di crollare. Non per il gesto del Papa, non per una preghiera rivolta alla Mecca, non per la Moschea Blu circondata da Paesi rosso sangue. Il ponte rischia di crollare perché lanciamo gittate in avanti senza assicurarci della nostra tenuta. Non perché loro sono violenti, ma perché noi siamo deboli. E perché anziché rafforzare la nostra debolezza, ci esponiamo alla loro forza. Al loro fanatismo. Alla loro violenza. Fino al giorno in cui sarà troppo tardi.

E ci accorgeremo che quello che ci ostiniamo a chiamare dialogo, in realtà è un loro monologo. O, peggio, una loro invasione. La conquista definitiva. E allora addio cattolici: rivolgersi alla Mecca non sarà più un gesto distensivo. Ma un comando del padrone islamico.

domenica 30 novembre 2014

Lettera segreta di Enrico Cuccia: su De Benedetti aveva capito tutto

Enrico Cuccia, quella lettera segreta a Carlo De Benedetti: "Valeva la pena rischiare i soldi degli altri?"




Un vecchio carteggio tra il banchiere più potente e misterioso d'Italia, ossia Enrico Cuccia, e l'imprenditore che all'epoca delle missive si identificava quasi esclusivamente con Olivetti, ossia Carlo De Benedetti. Una serie di lettere inedite che Paolo Bricco cita nel suo libro, L'Olivetti dell'Ingegnere, editore il Mulino, e di cui dà conto il Corriere della Sera. Si tratta di lettere in cui Cuccia non si esimeva da giudizi anche molto duri sull'operato dell'Ingegnere. Riavvolgiamo il nastro fino al 28 novembre 1996, quando CdB inviò a Cuccia la relazione alla Camera sullo stato disastroso del suo gruppo. L'oggi editore di Repubblica, si respira dalle righe, cercava una sorta di assoluzione dal più importante banchiere d'Italia, da uno degli uomini più potenti e riservati della prima Repubblica. De Benedetti scrive che "molta disinformazione è stata pubblicata sulla stampa italiana ed estera, e molti attacchi immeritati sono stati fatti all'azienda".

Quella frase... - La risposta di Cuccia arriva pochi giorni dopo, il 5 dicembre. E ad assolvere l'Ingegnere dei fiaschi non ci pensa neppure. Mister Mediobanca, l'uomo che veniva identificato con la finanza italiana tout-court, non riconosce a De Benedetti alcun merito, e anzi boccia sonoramente il suo tentativo di ricostruzione, mettendo nel mirino il primo salvataggio della Olivetti, dopo la morte di Adriano. Nelle lettere entra si parla anche di Bruno Visentini, l'uomo che con il placet dello stesso Cuccia accompagnò CdB nella sua ascesa ad Ivrea, e secondo Cuccia è "l'amico Visentini" ad avere il merito di quello che l'editore di Repubblica ha sempre rivendicato, ossia la prima macchina elettronica al mondo. Ma l'attacco più duro non è questo. L'attacco più duro sta tutto sta in una frase. L'Olivetti sta per implodere, e così Cuccia, allora 89enne, chiede "se valeva la pena assumere taluni rischi in cui sono stati profusi, e bruciati, ingenti capitali. Ella - si rivolge a De Benedetti - è proprio sicuro che il coraggio è sempre un buon consigliere, specialmente quando si rischiano, oltre ai propri, i soldi degli altri?".

Frecciate - Una sonora bocciatura, scritta con lo stile paludato e tagliente che di Cuccia fu il marchio di fabbrica. La storia di Cuccia e De Benedetti, d'altronde, s'intrecciava da anni. CdB, infatti, fu aiutato da Mediobanca, per poi smarcarsi dall'istituto e, successivamente, vedersi costretto a tornare a bussare mestamente all'istituto per provare a salvare il salvabile. E in quella frase di Cuccia, in quella lettera, il banchiere sembra proprio voler rinfacciare all'editore di Repubblica i suoi errori. De Benedetti, a sua volta, replica ricordando a Cuccia che le banche italiane, Mediobanca in primis, non avevano creduto all'informatica italiana. Un'altra stoccata, insomma. Una serie di frecciate che si aprono e si chiudono con "viva cordialità", che viene espressa in calce ad entrambe le lettere.

Berlusconi, l'ultima sfida alle toghe: "Torno in piazza, anche se sto rischiando"

No Tax Day, Silvio Berlusconi: "Rischio, ma torno in campo"




"C'è ancora tutta Forza Italia, mancavo io, eccomi qua". Silvio Berlusconi torna a parlare in piazza e lo fa nel No Tax Day, la manifestazione degli azzurri in piazza San Fedele. Il Cav vuol far sentire la sua voce e riprendersi saldamente in mano il partito. "Ho deciso di rischiare, non posso più astenermi a dire come stanno le cose e a tornare in piazza per dire la nostra verità che è la verità vera", ha affermato il Cav.  I cittadini, ha spiegato il presidente di Forza Italia, "si sono chiesti ’cosa possiamo fare con il leader al servizi sociali e con gli avvocati che gli impongono di non parlare pena gli arresti domiciliari e il non poter più nemmeno fare telefonate? Quindi - ha ribadito Berlusconi - da oggi torno in campo".

Attacco al governo - Berlusconi ha poi parlato dell'attuale governo che, come ha raccontato in questi giorni il Mattinale, si appoggia su una maggioranza con 148 "abusivi" eletti con il Porcellum che la Consulta ha definito incostituzionale: "Oggi abbiamo un governo non eletto dal popolo, il terzo dopo quello di Monti e Letta, frutto di brogli elettorali, con un premio di maggioranza frutto di una legge elettorale che la Corte Costituzionale ha giudicato essere incostituzionale". 

"Ritorno in campo" - "Forza Italia c’è ancora - ha proseguito Berlusconi - e c’è ancora tutta", riferendosi alle ultime elezioni ha voluto sottolineare che la gente non è andata a votare Forza Italia, non perchè abbia votato "un’altra fazione ma non sono andati a votare perchè in campo non c’era un certo Silvio Berlusconi. Dobbiamo andare al contatto umano mettendo in campo tutti i nostri elettori. Noi abbiamo in programma inciso sulla pietra e per noi la prima cosa è rispettare gli impegni presi con i nostri elettori". 

Il piano per la casa - Berlusconi, quindi, ha ribadito l’intenzione di votare "le riforme, ma diciamo che per tutto il resto siamo decisamente e responsabilmente all’opposizione in parlamento", e in particolare "non condividiamo le politiche economiche di questo governo". A questo punto il Cav ha lanciato la sua ricetta per rilanciare il mercato immobiliare: "Visto la crisi dell’edilizia che c’è in Italia se dovessi tornare a governare  lascerò che per sei mesi la compravendita delle case avvenga senza pagare tasse allo Stato. C’è bisogno di uno choc, questo è uno choc". 

Il nodo Salvini - Infine il Cav ha parlato anche di Matteo Salvini: "Non ho mai candidato Salvini alla guida del centrodestra. Salvini con quelle sue belle magliette, con il suo linguaggio estremamente sintetico ha fatto goal sull’Emilia Romagna e gli ho fatto i complimenti. Da lì tutti a dire ’ecco Salvini è il candidato del centrodestrà, ma io non ho mai detto questo è opera solo dei giornali che fanno disinformazione". 

Dopo le tangenti, spunta la laurea falsa Ecco chi è il dem nel mirino delle toghe

Pd, nuova accusa per Marco Di Stefano: "Ha comprato una laurea per 12mila euro"




L'inchiesta sulle presunte tangenti intascate dal dem Marco Di Stefano, di cui Libero vi ha raccontato in queste settimane, si allarga. Ora il deputato Pd è anche accusato di aver comprato la sua laurea. Una laurea in Scienze Giuridiche pagata 12 mila euro e comprata con i soldi della Regione Lazio. Il reato ipotizzato dai magistrati della procura di Roma coordinati dal procuratore aggiunto Nello Rossi è la corruzione. Ultima contestazione in un’inchiesta che ipotizza il pagamento di una tangente da quasi due milioni di euro da parte degli imprenditori Antonio e Daniele Pulcini per un affare immobiliare. E riguarda anche l’omicidio di Alfredo Guagnelli, che di Di Stefano era amico e collaboratore.

L'inchiesta - Dalle carte dell’inchiesta depositate nei giorni scorsi emerge l’inquietante ipotesi che di Stefano possa aver ricattato i politici del Pd dopo aver svolto attività di dossieraggio nei loro confronti. Infuriato per il risultato ottenuto alle primarie per le elezioni politiche nel febbraio 2013 minacciava al telefono di "scatenare la guerra nucleare", accusava Zingaretti, parlava di "maiali che hanno imbrogliato le primarie". Tanto che i pubblici ministeri, sollecitando la proroga delle intercettazioni, parlavano di "particolare condizione di inquietudine ravvisabile nell’ animus di Di Stefano il quale, ormai relegato ai margini dell’imminente competizione elettorale, starebbe raccogliendo, nell’ottica di inficiare la carriera politica di alcuni colleghi di partito, materiale cartaceo per essi compromettente". Ora a queste accuse si aggiunge anche quella di aver comprato una laurea. Ora toccherà a Di Stefano difendersi davanti ai magistrati. 

Renzi, riforme con l'esercito di abusivi Boschi, Picierno e...: onorevoli col trucco

Renzi vuol fare le riforme con 148 abusivi

di Paolo Emilio Russo 


Per il centrodestra è una questione di «legalità» e l’alternativa nientemeno che «il collasso democratico». L’allarme lanciato da Renato Brunetta e dal “suo” Mattinale si riferisce al rischio che Matteo Renzi approvi modifiche costituzionali a maggioranza e lo faccia col voto decisivo dei 148 deputati «abusivi». Quest’ultima definizione non è made in Forza Italia, ma deriva dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 dicembre 2013. Gli ermellini avevano dichiarato «incostituzionale» il premio di maggioranza che consentì a Pd, Sel e Centro democratico di eleggere quasi centocinquanta onorevoli in più nonostante il misero 0,37% di vantaggio. «Prevale la continuità delle istituzioni, certo, ma a che prezzo?», scrive il foglio del gruppo Fi. Gli azzurri mettono le mani avanti: qualora gli «abusivi» dovessero essere decisivi considererebbero il gesto «una negazione del giudicato della Consulta» e, di conseguenza, potrebbero fare ricorso. Che farà ora il premier? A vedere la lista degli «abusivi» viene il sospetto che della sentenza se ne infischi: ha voluto al suo fianco molti di loro. Sono «illegittimi» il ministro Maria Elena Boschi, i sottosegretari Ivan Scalfarotto e Sandro Gozi, il guru economico Yoram Gutgeld...