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lunedì 15 settembre 2014

Ama Fiorello, Modugno e i bambini Miss Italia 2014 è Clarissa, la siciliana

Miss Italia 2014 è la siciliana Clarissa Marchese

di Antonella Luppoli


Clarissa Marchese (20 anni) è lei la più bella d’Italia. La numero 23, Miss Lotto Sicilia, si è aggiudicata fascia e corona, con gli occhi ricchi di emozione. Lo scettro torna al Sud. Il premio miglior voce di Radio Kiss Kiss (partner della kermesse) invece è stato vinto da Elisa Piazza Spessa, Miss Wella Professional Lombardia. La 75esima edizione di Miss Italia è stata un vero omaggio alla bellezza. Le miss parlanti? Ci sono state, ma non siamo certi fosse proprio il caso di farle parlare.Troppe le frasi di circostanza e i luoghi comuni. Ma questi sono dettagli. E’ una serata tutta al femminile quella del Pala Arrex di Jesolo. In controtendenza rispetto alle dinamiche del Bel Paese, qui le poltrone più importanti, quelle dei piani alti per intenderci, sono occupate da donne. Dalla patron Patrizia Mirigliani alla conduttrice Simona Ventura, fino alla presidentessa di giuria Alena Seredova, il rosa predomina (e SuperSimo ha pure scelto di indossarlo). Il leit motiv dunque è il solito, ma l’edizione è decisamente rinnovata. Così tanto che le vecchie leve del giornalismo italiano in sala stampa storcono il naso e rimembrano le gloriose edizioni del passato. Ciò che stupisce è probabilmente lo stile talent, importato da una Simona Ventura in piena forma. Non la si vedeva così carica dai tempi dell’Isola dei Famosi. L’unica cosa che non riesce a scrollarsi di dosso è una parlatina che fa invidia ad Alessandro Cattelan, è il solo e palese rigurgito retroattivo legato a X Factor. 

Lo show targato Magnolia è dinamico, all’insegna del divertissament, Miss Italia fa da capostipite (o capostipito come ha detto la Ventura) a un genere televisivo nuovo sul piccolo schermo del Bel Paese: il fashion show. Non si sente puzza di naftalina, è una nuova primavera. Protagoniste da subito sono le 24 finaliste che, suddivise in gruppi da 6, si cimentano in sfilate a tema. Il primo è quello circense, a seguire il bon ton, lo sport, il new romantic ecc ecc…I giurati, il rapper Emis Killa, l’attore Alessandro Preziosi, il cestista Marco Belinelli e il direttore di Dipiù Sandro Mayer, interagiscono con loro. Il più sciolto è proprio Emis Killa che sembra essere molto a suo agio nella veste di giudice e dichiara di essere assolutamente a favore delle miss curvy. Preziosi ammette che ha una preferenza per le bionde, mentre Belinelli per le more. 

La giuria dunque è equilibrata. Alena Seredova sembra sorridente e rilassata, alla prima uscita ufficiale dopo la separazione da Gigi Buffon, la modella ceca si conferma una icona di stile e di eleganza. Dopo alcuni anni di assenza torna sul palco di Miss Italia il bikini, le miss sfilano in costume come ai vecchi tempi. Un momento di commozione quando viene eliminata Rosaria Aprea, una giovane campana che in passato ha subito violenze. Lo show prosegue, le ragazze indossano gli abiti da sposa, e rimangono in cinque: Giulia Salemi, Claudia Filipponi, Nera Nervo, Clarissa Marchese e Sara Battisti. Tra queste c’è Miss Italia. Sfilano in abito da sera, mettendo in risalto la loro eleganza e il loro sex appeal. E' la volta di Chiara Galiazzo che sceglie la kermesse per promuovere il suo nuovo singolo "Un raggio di sole". Arriva il verdetto: Simona Ventura tuona ed Emis Killa incorona. Coriandoli e gridolini. Cala il sipario sulla prima edizione smart del concorso di bellezza più antico dello Stivale. Che sia stata una scommessa vinta? La sentenza dell’auditel arriverà tra poche ore, una cosa è certa: nonostante le quattro ore di diretta nessuno in sala si è addormentato. Questo è già di per se un buon risultato.

COMUNE PER COMUNE Dove la Tasi costerà più dell'Imu

Comune per Comune ecco dove la Tasi ci costerà più dell'Imu

di Sandro Iacometti 


Dovevano abolire la tassa sulla prima casa. E invece il bottino dei sindaci è addirittura aumentato. A poche ore dalla scadenza dei termini (il 10 settembre) per la comunicazione delle delibere sulle aliquote da parte dei comuni, il grande inganno della Tasi inizia a delinearsi con chiarezza. Abbiamo passato il 2013 ad assistere alle acrobazie politiche sull’abolizione del balzello sulla prima casa reintrodotto da Mario Monti con l’Imu. Compiuta, a fatica, l’opera, il governo ci aveva assicurato che dal 2014 le abitazioni principali sarebbero state esentate dal pagamento delle tasse.

Al posto dell’Imu è però arrivata la Tasi, imposta sui servizi indivisibili. Sulla carta il tributo doveva essere soft, un’imposizione leggera assolutamente non paragonabile alla mazzata dell’Imu. Nella realtà, la gabella nuova di zecca si è rivelata uguale, se non peggio, di quella vecchia. Il sospetto che le rassicurazioni del governo sul minore impatto della Tasi fossero fasulle era già venuto prima dell’estate, sulla base dei dati relativi alla quota di comuni che hanno deciso per tempo aliquote ed eventuali detrazioni. L’allargamento della platea di contribuenti coinvolti, avvenuto negli ultimi giorni con la raffica di delibere comunali varate in zona Cesarini per non perdere il treno della Tasi, ha reso il quadro più chiaro. Confermando, purtroppo, le ipotesi peggiori.

L’INDAGINE - I numeri, almeno per ora, parlano chiaro. Dalle rilevazioni effettuate per Libero dal servizio politiche territoriali della Uil su 38 città campione (un terzo del totale dei capoluoghi) risulta che la Tasi batte l’Imu. E non di poco. L’analisi, a differenza di quelle circolate negli ultimi giorni, non è effettuata sulle medie statistiche delle aliquote e sulle simulazioni di pagamento in base a differenti tipologie di case e di famiglie. Operazioni che forniscono un quadro generale non sempre corrispondente alle realtà concrete. In questo caso il dato preso in esame è quello relativo al gettito dei comuni. In altre parole i soldi materialmente e complessivamente incassati dai sindaci con i balzelli sulla casa.

Ebbene, dal campione analizzato dalla Uil emerge che le 38 città oggetto dell’indagine nel 2012 hanno incassato quasi 1,291 miliardi di Imu sulla prima casa (pari ad un terzo del gettito totale di 4 miliardi), mentre nel 2014, stando ai bilanci già approvati, prevedono di incassare con la Tasi 1,358 miliardi, ben 66,9 miliardi in più.

Nel dettaglio, in 26 città (68,4% del totale del campione) le entrate contabilizzate dai sindaci per la Tasi superano quelle della vecchia Imu prima casa. Solo in 12 città, invece, il gettito risulta inferiore. Tra gli aumenti maggiori spiccano quelli di Roma, con 71,2 milioni di euro, di Milano, con 25,3 milioni, di Sassari, 6,9 milioni, di Brescia, 3,8 milioni, e di Mantova, 3,2 milioni. In queste città, va detto, l’imposta sui servizi indivisibili è applicata anche agli altri immobili. Considerato, però, che quasi tutti i comuni avevano già alzato l’asticella dell’Imu sulle seconde case ai livelli massimi (10,6 per mille, che è anche il tetto d’aliquota Imu più Tasi) e che quindi sugli altri immobili hanno potuto applicare in quasi tutti i casi solo la maggiorazione dello 0,8 per mille destinata alle detrazioni, il risultato cambia poco. A Milano, ad esempio, il solo gettito della Tasi sulla prima casa è stimato in 145 milioni, mentre il gettito Imu 2012 era di 139,6 milioni. Leggendo il bilancio del Comune di Brescia, invece, ci accorgiamo che togliendo il gettito sugli altri immobili si arriva ad un sostanziale pareggio. 

Unidici città del campione, comunque, applicano la Tasi solo sulle prime case. E anche qui la Tasi batte quasi sempre l’Imu. In particolare a Piacenza il gettito del tributo sui servizi è maggiore di 2 milioni di euro, a Bologna di 1,8 milioni, a Pordenone di 1,2 milioni, a Pistoia di 1,1 milioni di euro e a Siracusa di 764mila euro. 

Tra le città in cui la pressione fiscale della Tasi è minore ci sono sicuramente Torino, con una diminuzione di 34,5 milioni, e Genova, meno 18,2 milioni. Le cifre si assottigliano molto a Forlì (3 milioni), Rimini ed Ancona (2 milioni). In sostanziale parità è Firenze. Nella città fino a qualche mese fa guidata da Matteo Renzi nel 2012 il balzello sulla prima casa ha dato un gettito di 41 milioni, mentre la Tasi è stimata a 40,5 milioni.

LE SCADENZE - Amaro il commento di Guglielmo Loy. Secondo i nostri calcoli, ha spiegato il segretario confederale della Uil, «alla fine della giostra i conti tra Imu prima casa e Tasi saranno quasi alla pari. Ci domandiamo se è valsa la pena stare a discutere un anno di Imu sì Imu no, quando tra l’altro molti Comuni hanno o stanno aumentando l’Irpef Comunale». E se, ha concluso Loy, «per i lavoratori dipendenti gli 80 euro attenueranno l’impatto della Tasi, per 15 milioni di pensionati (spesso proprietari di prima casa), la tassa comporterà quest’anno un vero salasso sulle loro pensioni».

Al danno economico della gabella si dovrà poi aggiungere quello legato al caos sui pagamenti, che costringerà ancora una volta la maggior parte dei contribuenti a rivolgersi ad un professionista abilitato. La stessa direttrice dell’Agenzie delle entrate, Rossella Orlandi, qualche mese fa ha confessato che «per capire» cosa doveva fare con l’Imu ha «perso un pomeriggio». Con la Tasi, agli italiani, non basterà una settimana. Basti pensare che i contribuenti di circa 2mila comuni, ognuno con le sue regole, le sue aliquote e le sue esenzioni, sono stati chiamati alla cassa il 16 giugno per la prima rata e dovranno versare il saldo il 16 dicembre. Per tutti gli altri la scadenza doveva essere il 16 ottobre. Ma i ritardi nei sindaci nell’approvare le delibere lasciano prevedere che almeno un migliaio sui 6mila rimasti indietro potrebbero non farcela. Questo significa che per i cittadini coinvolti la Tasi si pagherà tutta in un’unica soluzione il 16 dicembre, con un’aliquota uniformata a quella di base dell’1 per mille. Nel caso più totale saranno poi gli inquilini, che dovrebbero pagare una parte di Tasi (dal 10 al 30%), ma ancora neanche esistono i codici tributo.

Il dossier sulle previsioni meteo "Ecco perché non è arrivata l'estate" La profezia: "L'inverno sarà gelido"

Le previsioni de ilmeteo.it: "L'inverno sarà gelido"




Quella appena passata è stata una tra le estati più fredde degli ultimi anni. In tanti si affrettano a profetizzare un colpo di coda del caldo anche ad ottobre, ma gli esperti assicurano che l'inverno è alle porte e che le temperature saranno abbastanza rigide. Il meteo.it prova a dare una spiegazione all'estate fredda cercando le cause di questo clima inaspettato: "Per rimanere in ambito europeo, considerando che tutta la circolazione terrestre è responsabile dei cambiamenti, possiamo dire che nel 2014 vi è stata la presenza maggiore di aree anticicloniche ad alte latitudini (Groenlandia, Scandinavia); tale posizione ha favorito la discesa del flusso perturbato atlantico, quello che ci invia le perturbazioni, a medie latitudini, influenzando quindi anche il tempo sull’Italia". 

"Inverno gelido" - Poi arrivano le previsioni per l'inverno: "Le ultime elaborazioni delle previsioni stagionali prevedono un Inverno più freddo e nevoso del solito. Il meteo di questa estate può avere conseguenze per il prossimo inverno? Se la circolazione atmosferica dovesse rimanere tale allora sì, ma in Inverno si ha un cambiamento anche di tale circolazione e nuove figure bariche iniziano a formarsi per influenzare il clima europeo: questa sarà la discriminante". 

La prossima estate - Infine uno sguardo sulla prossima estate: "Difficile da dirsi in quanto una tendenza non è mai una certezza. L’inverno precedente doveva essere freddo e nevoso ed invece è stato piovoso e mite. Al momento i modelli prevedono ancora una volta un inverno gelido e nevoso. L’”anomalia” di questa estate 2014 è un caso isolato dopo anni vissuti con frequenti incursioni di caldo africano: se anche l’anno prossimo l’estate si comporterà più o meno allo stesso modo allora potremo tenere in considerazione la possibilità di una tendenza".

Rivolta Rai contro Giannini: "Chiedi scusa per i tuoi insulti". Ecco cosa è successo...

L'Usigrai contro Giannini: "Chiedi scusa, siamo con la schiena dritta, ci hai offeso"




Non è nemmeno andato in onda e Massimo Giannini scatena la bufera in Rai. In viale Mazzini dal giorno del suo arrivo in tanti chiedono la testa del neo-conduttore di Ballarò. Ad attira ele polemiche è stato il suo contratto e la scelta da parte dell'azienda di non valorizzare le risorse interne. Ma a scatenare la rabbia dei dipendenti Rai è stata un'intervista dello stesso Giannini rilasciata ad Oggi. L'ex vicedirettore di Repubblica, parla così dei colleghi di viale Mazzini: "Bisogna chiedersi come mai la Rai debba guardare fuori. Quello che rende complicato riconoscere le professionalità interne - ha aggiunto Giannini- è una certa diffusa arrendevolezza del sistema Rai alla politica. La professionalità di un giornalista si misura sulla sua autonomia, l'impermeabilità ai condizionamenti esterni, se rinunci a quella perdi il tuo valore". 

La rabbia dei dipendenti - Parole di fuoco che hanno scatenato la reazione dell'Usigrai, il sindacato interno di viale Mazzini: "Caro Massimo Giannini, smentisca o si scusi. Le sue parole riportate in una intervista da lei rilasciata a un settimanale sono un insulto alle centinaia di giornaliste e giornalisti Rai", si legge in un comunicato. Infine l'affondo al conduttore e al direttore generale Gubitosi: "Sappiamo bene - replica l'Esecutivo dell'Usigrai- cosa vuol dire avere la schiena dritta. E opporsi al controllo di governi di qualunque colore, e a interessi economici di qualunque provenienza. Ma in fondo, il problema non è lei, ma il Dg che per primo esprime questa disistima nei confronti di tutte le professionalità interne della Rai, attingendo sempre dall'esterno per tutti i ruoli chiave". 

L'affondo - "Ed ecco l'ennesimo risultato di questa politica: si ingaggia un esterno - conclude l'Esecutivo dell'Usigrai - lo si paga circa 1 milione di euro in due anni, e gli si consente di venirci a spiegare che in fondo i dipendenti Rai sono di serie B. Il Dg dica con chiarezza cosa pensa dei dipendenti dell'azienda che ancora dirige. O si sente già in uscita?"

Pansa: "Ecco cosa sta facendo Renzi nell'Emilia rossa dei rimborsi pazzi"

C'era una volta l'Emilia Rossa. Poi è arrivato padron Renzi

di Giampaolo Pansa 


Dove è finita l’Emilia rossa del tempo che fu? Ecco una domanda obbligata dopo le disavventure giudiziarie dei compagni Bonaccini e Richetti. Entrambi sono modenesi, un dettaglio topografico che mi riporta alla memoria il monito che nei primi Anni Ottanta, dopo un’intervista, aveva rivolto a Giorgio Bocca il sindaco di Modena, Mario Del Monte: «Se affonda Modena, affonda l’Italia!». Del Monte era un comunista orgoglioso della propria città. Non la riteneva seconda rispetto a Bologna. Il suo non era un campanilismo banale, bensì la rivendicazione puntigliosa di un primato. 

Per fortuna di tutti, Modena non è crollata. Ma l’Emilia rossa certamente sì. Chi l’ha portata ai piedi di Gesù Cristo è l’alieno che sta a Palazzo Chigi, Matteo Renzi. Lui si è mangiata tutta la regione simbolo del comunismo all’italiana. E già che c’era, si è pappata per intero la Toscana. Da granducato che era, l’ha trasformata nel palazzotto del suo Giglio Magico, pieno di fedelissimi, di amici, di amici degli amici. Ma a colpire di più è la brutta fine della potenza emiliana. E adesso leggerete come ne parlavano le eccellenze rosse della regione in un anno preso a caso, il 1982. 

Iniziamo da due intellettuali. Mario Melloni, il mitico Fortebraccio, scriveva: «L’Emilia Romagna è anche un fenomeno di cristianesimo operante. Dove la laboriosità si sostituisce al vizio. E la generosità è generatrice di solidarietà e di carità, virtù che lo spirito religioso giustamente predilige». E Ugo Baduel, firma di rango dell’Unità: «Bologna e l’Emilia sono una grande quercia frondosa sulla linea dell’orizzonte italiano, una quercia che s’impone in ogni stagione».

Luciano Lama, segretario generale della Cgil, parlava così: «L’Emilia è forte. Esprime una realtà diversa dal resto del Paese. Qui i ricchi sono meno ricchi, i poveri meno poveri. Qui si è saputo coniugare una strategia di lungo periodo con obiettivi immediati». E Luciano Guerzoni, segretario regionale del Pci: «Quando si attacca Bologna e l’Emilia, si colpisce la speranza stessa del rinnovamento del Paese. Occorre vincere la sfida qui, per vincerla in Italia». E Renzo Imbeni, segretario federale di Bologna: «In Emilia c’è un esperienza grande del nuovo modo di governare. Qui non c’è malgoverno né clientelismo». 

I compagni emiliani non avevano complessi di inferiorità. Antonio Bernardi, deputato di Reggio Emilia, disse a Fabrizio Coisson dell’Espresso: «Il nostro tessuto di dirigenti è di formazione europea. I quadri delle nostre cooperative girano per la Germania, la Francia, l’Inghilterra. Quelli sono i loro modelli di riferimento. Mitterrand, in Italia, siamo noi!». Persino i comunisti siciliani li invidiavano. Luigi Colajanni spiegò a Maurizio Chierici del Corriere della sera: «I miei compagni emiliani hanno capito che il vero modo di fare politica in una società capitalistica è quello dell’organizzazione stabile degli interessi. Il militante siciliano, escluso dal potere, non l’ha compreso». 

Ancora il segretario regionale Guerzoni: «Il pluralismo ha avuto in Emilia-Romagna condizioni di sviluppo sconosciute altrove. Le accuse di egemonismo comunista sono veramente pretestuose». E Alfonsina Rinaldi, la gentile segretaria del Pci di Modena e futura sindaco, diceva a Carlo Valentini del Giorno: «Lei mi chiede perché molti imprenditori emiliani, piccoli e medi, si iscrivono al Pci. La risposta è che condividono il nostro programma. Non chiediamo un’adesione ideologica. Gli imprenditori concordano con noi sulla necessità di una riqualificazione dell’apparato produttivo che il Pci sta sostenendo e che va nell’interesse sia dell’operaio, sia dell’industriale». 

Di nuovo il compagno Guerzoni: «Quello che ci appare assurdo, e lo diciamo al di fuori di ogni interesse di partito, è che nelle venti banche d’interesse pubblico dell’intera regione Emilia-Romagna non vi sia tra i dirigenti un solo comunista». Eppure i compagni dell’Emilia rossa se ne intendevano di denaro. Il segretario federale di Reggio Emilia, Alessandro Carri, spiegò ai giornalisti che nella sua provincia, durante la sottoscrizione a favore della stampa comunista, per la prima volta si era superato il muro del miliardo di lire. Un altro dirigente emiliano disse, fuori dai denti: «Sono quarant’anni che manteniamo le Botteghe Oscure!». 

Secondo Alfredo Reichlin, direttore dell’Unità, esisteva una realtà che era doveroso riconoscere: «Ci sono più elementi di socialismo nelle terre dell’Emilia-Romagna che nelle campagne polacche di Cracovia, più a Bologna che in certe città dell’Est». Merito anche del Psi di Bettino Craxi? Ma non diciamo bestemmie! All’inizio degli anni Ottanta bastava far capolino in una festa del Pci per sentir maledire «quelli del Garofano». Invece di sconfiggere «le Sorelle Bandiera» democristiane, pronte ad andare a letto con tutti, il segretario socialista si era alleato con loro. Alla Festa nazionale di Genova le cuoche volontarie avevano cucinato «la trippa alla Bettino». Alla Festa di Torino niente trippa, ma raffiche di maledizioni. 

La militanza rossa considerava Craxi l’avversario da battere. I compagni strillavano che era arrogante, spregiudicato al punto di digerire la P2 di Licio Gelli come un pitone digerisce un coniglio, un tangentaro, il capo del partito degli scandali. Il compagno Giorgio Napolitano, il comunista pallido chiamato “re Umberto”, chiede un rapporto nuovo con il Psi? Forse, chissà, è improbabile, è impossibile. Comunque sia, prima bisogna liquefare Craxi. Un Bettino che vale un Benito: il nuovo fascismo nascerà sotto il segno del Garofano. 

Per fortuna, il bastione dell’Emilia rossa stava lì, costruito nell’acciaio, una roccia inespugnabile dagli avversari. Nel 1981, alla vigilia del secondo Congresso regionale del Pci, gli iscritti erano 455 mila. Sostenevano un apparato imponente, fatto di 343 funzionari, dei quali 52 erano donne. Un rapporto della Commissione regionale di controllo, redatto da Sergio Soglia, spiegava: «Negli apparati delle federazioni una percentuale alta di quadri proviene direttamente dalla Federazione giovanile comunista e dal Movimento studentesco. Vanno valutati pregi e difetti di questa scelta, forse più spontanea che voluta. Nel senso che la ricerca dei quadri emergenti dalle sezioni e dai luoghi di lavoro conosce un momento di difficoltà. È necessario dare nuova linfa al partito, promuovendo militanti con maggiore esperienza di base, attingendo laddove si vive direttamente la produzione e la durezza dello scontro di classe». 

Mancavano pochi anni alla caduta del muro di Berlino, alla fine dell’Unione sovietica e all’estinzione del Pci per mano di Achille Occhetto. Ma il Partitone rosso si attrezzava davvero come una grande azienda, convinto di sopravvivere per l’eternità. Nel 2014 non esiste più nulla di quel mondo. Anche i dirigenti rimasti ancora in vita sembrano tutti defunti, perché non parlano, non scrivono, non s’incontrano. E un bene o un male? Un grande filosofo diceva: tutto il reale è razionale. 

La famiglia rossa dell’Emilia-Romagna si è disfatta. Quando vedo in tivù il cranio mussoliniano di Bonaccini e la faccia spaventata di Richetti penso a due naufraghi. Anche la rossa Toscana ha ceduto il passo alle donne renziane, ragazze da calendario con il tacco alto. Renzi, il nuovo padrone, ha il viso da bamboccio fiorentino e il pugnale in mano. Mi domando quale sarà il burrone nel quale cadrà. Insieme a tutti noi.

domenica 14 settembre 2014

Ferie delle toghe, Orlando cala le brache "Per i giudici un trattamento speciale"

Andrea Orlando, ferie dei magistrati: "Pronti a riconoscere una specificità"




La riduzione da 45 a 30 giorni di ferie, proposta nella riforma della Giustizia, aveva fatto scattare la mobilitazione delle toghe: i loro due mesi effettivi di ferie, nonostante i milioni di cause arretrate, non devono essere toccati. Eppure nessuno fa più vacanze dei giudici (tanto per capire, i poliziotti hanno dai 28 ai 32 giorni, gli insegnanti hanno 32 giorni e gli infermieri altrettanti). Una sforbiciata sacrosanta, dunque, quella ai giorni "d'ozio" dei nostri magistrati. Eppure, dopo la mobilitazione togata, ecco che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sembra cambiare idea sulla questione.

Brache calate - Da Firenze, rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano di una possibile modifica proprio sul tema delle ferie dei magistrati, spiega: "Da questo confronto credo che potrà venire qualcosa che si può anche tradurre in un emendamento. Ho detto all'Anm che noi chiediamo uno sforzo ai magistrati di comprensione dell'esigenza anche di compiere tutti un sacrificio in questo momento, però ho dato anche disponibilità a riconoscere una specificità che riguarda la magistratura". E quando parla di una "specificità", Orlando, intende un trattamento "specifico" sui giorni di ferie, che per la gioia delle toghe sembrano destinati a non essere toccati (o tagliati con molta più "attenzione"). La sostanza? I magistrati alzano la voce e il governo Renzi cala le brache.

Fini, la rock star kamikaze ci riprova: "Torno in campo. La politica mi scorre nelle vene. Voglio governare..."

Gianfranco Fini torna in politica: "Con Liberadestra un'alternativa al governo Renzi"




Il "grande ritorno" di Gianfranco Fini, preceduto alla vigilia dallo scatto del leader con cerchietto rosa in testa, era stato annunciato tempo fa. Introdotto dall'Inno nazionale, l'ex leader di Futuro e Libertà si è presentato sul palco della Festa della destra di Mirabello. L'attesa per l'evento era piuttosto relativa, come dimostra la fotografia che potete vedere postata sull'account Twitter di Fini, in cui scorgono parecchie sedie vuote. Ma tant'è, Gianfranco - rullo di tamburi - ha colto la palla al balzo per annunciare il ritorno in campo. Non pago dei fiaschi di Fli e della vertiginosa discesa politica, l'ex presidente dalla Camera ci riprova.

L'uomo sbagliato - L'ufficialità sta tutta in una frase: "Con Liberadestra vogliamo costruire un'alternativa al governo Renzi". Tutto vero, insomma: torna in politica (per chi non lo sapesse, Liberadestra è il nuovo "pensatoio" del fu leader di Fli). Gianfranco suona la carica, e spara su Matteo Renzi, definito un "pifferaio magico". Quindi snocciola la sua personalissima ricetta per un improbabile successo: "Oggi - spiega dal palco che accoglie le sue parole con distacco - la destra è divisa, ha perso il rapporto fiduciario con gli elettori. Occorre ripartire con il contatto diretto per capire gli errori". Insomma, Gianfry si propone come ipotetico federatore di un centrodestra frazionato. Un centrodestra che però non ha alcuna intenzione di riaccoglierlo.

Politica nelle vene - Uno dei passaggi-cult dell'intervento di Gianfranco è quello che segue, da vera rock-star: "Si fa politica anche se non si è in Parlamento. La fai se la senti scorrere nelle vene", e lui, nelle vene, evidentemente se la sente scorrere ancora. Quindi un piccolo autogol, quando afferma: "Non ho la presunzione di dire qualcosa di importante, ma di continuare a ragionare su come ricostruire la destra italiana" (ma se non ha da dire nulla di importante, chissà come può ambire a ricostruire un movimento politico). Eppure, Gianfry, ha le idee ben chiare: "Si può fare solo una cosa se si vuole ridare una speranza alla destra, bisogna ripartire dal basso". E proprio in quest'ottica, spiega che "siamo ripartiti con l'autofinanziamento, come facevamo una volta e come si continua a fare qui".

Ovvietà - Nel suo intervento, Fini si produce in una serie di considerazioni trite e ritrite. Spiega che "Renzi ha presentato come se fosse un grande successo l'elezione della Mogherini", quando invece "è fumo" e "piuttosto avrebbe dovuto puntare sull'economia". E ancora: "La destra deve avere il coraggio di dire che gli 80 euro non hanno alimentato i consumi. Sono ben altre le misure necessarie". Peccato però che un po' tutti (destra, sinistra, centro e pure l'Istat) hanno certificato da tempo che i mitologici 80 euro non hanno alimentato alcun consumo. Dunque altre considerazioni, quali "la pressione fiscale in Italia è un record mondiale, bisogna ridurre le tasse per rimettere in moto il Paese" (e lo sentiamo dire da decenni) e "non è solo l'articolo 18 il problema, c'è un sistema ingessato nel mondo del lavoro che va cambiato". La "rivoluzione" di Fini comincia adesso (ma, con tutta probabilità, è già terminata da anni...).