Visualizzazioni totali

lunedì 9 giugno 2014

Cinque schiaffi a Matteo Renzi da Padova, Livorno e Potenza

Cinque schiaffi a Matteo Renzi da Padova, Livorno e Potenza



Arrivano cinque scoppolone ai ballottaggi per il Partito democratico di Matteo Renzi da quelli che una volta erano bastioni della Sinistra. Livorno cade sotto i colpi dei grillini, dopo 70 anni di dominio comunista. A Perugia Andrea Romizi del centrodestra ha vinto con il 58,2% su Wladimiro Boccali fermo al 42%. A Potenza il centrodestra riconquista la città con Dario De Luca con oltre il 58%% delle preferenze. A Padova il leghista Massimo Bitonci festeggia la vittoria del centrodestra in assetto completo (ha avuto il 53,5% delle preferenze)

Livorno - Un tempo roccaforte rossa, Livorno si è ritrovata per la prima volta in dubbio per la scelta del sindaco. I livornesi lo hanno sciolto scegliendo il candidato grillino Filippo Nogarin (53%), preferendolo al Pd Marco Ruggeri (47%). É stato un ballottaggio già storico di per sé quello livornese. Il centrosinistra al primo turno aveva raccolto il 39.9% dei consensi, contro il grillino Nogarin, fermatosi al 19,01%. Sempre meglio del frammentato centrodestra livornese. Già stentata l'affluenza al primo turno con il 69.82%, al secondo in tanti hanno scelto il mare andando a votare per il 50% degli aventi diritto.

Perugia - Anche a Perugia il centrosinistra esce, a sorpresa, sconfitto. Andrea Romizi del centrodestra ha conquistato capoluogo umbro con il 58%, sconfiggendo Wladimiro Boccali del Pd. Un altro risultato clamoroso, visto Perugia è uno storico fortino della sinistra.

Modena - A Modena il Partito Democratico ha dovuto a fare i contri con il candidato del Movimento cinque stelle nel turno di ballottaggio. Gian Carlo Muzzarelli è stato eletto sindaco contro il grillino Marco Bortolotti con il 63,1% delle preferenze contro il 36,9%i. Per un soffio il democratico Muzzarelli non era riuscito a chiudere la partita, ottenendo il 49,71% appoggiato da Pd, Sel, Centro democratico, Sel e il redivivo Pdci. Lo sfidante pentastellato Bortolotti, si era attestato sul 16,33% il 25 maggio. Escluso dal secondo turno non solo il candidato di centrodestra Giuseppe Pellacani, sostenuto da Fi, FdI e Udc, ma anche Carlo Giovanardi, candidato solitario per il Nuovo centrodestra che aveva tirato su il 3,96%. Giovanardi e la Lega hanno provato a creare un po' di scompiglio tra le fila grilline dichiarando il loro appoggio al candidato cinquestelle. Il timore dei "cittadini" era quello di un abbraccio mortale.

Bergamo - Sperava di chiudere i giochi al primo colpo Giorgio Gori, ex spin doctor di Matteo Renzi e candidato sindaco a Bergamo, ma non è andato oltre il 45,48% con il sostegno di Pd, Sel, Idv e Psi. Ci è riuscito al secondo turno, vincendo con il 53,5%. Lo sfidante Franco Tentorio, sindaco uscente, aveva messo insieme la coalizione di centrodestra più larga possibile con FI, Lega Nord, FdI, Udc e Ncd. Al primo turno il centrodestra si era fermato al 42,17%. É stata una campagna elettorale tribolata per il candidato di centrosinistra che si è dovuto difendere dai sospetti di evasione fiscale sull'Imu di casa sua e della moglie Cristina Parodi, giornalista Mediaset. Non ultima la gaffe della stessa Parodi, ripresa dalla telecamera di Repubblica, in dubbio fino all'ingresso nel seggio su come dovesse votare per il marito. Il 25 maggio è andato a votare il 75,88% degli elettori. Al secondo turno è andato nei seggi il 55,2% degli aventi diritto.

Pavia - Non ce l'ha fatta al primo turno il formattatore del centrodestra Alessandro Cattaneo, sindaco uscente di Pavia, che ha raccolto il 46,68%. E neanche al secondo. A rincorrerlo fino a raggiungerlo è stato Massimo Depaoli che ha chiuso il 25 maggio con dieci punti in meno, il 36,44%, e dopo due settimane recuperato fino al 53,37%. Sin dal primo turno Cattaneo ha potuto contare sull'appoggio di tutti i partiti del centrodestra riuniti in un'unica coalizione. Più frammentato il centrosinistra, con Sel e liste civiche che hanno scelto la strada solitaria. Nel turno precedente è andato a votare il 76,08% degli elettori, il 55,71% per il secondo turno.

Padova - A Padova il laboratorio del centrodestra ha vinto al ballottaggio. Il Pd è crollato nel turno di ballottaggio non andando oltre il 46,43% per Ivo Rossi. Ha trionfato il candidato di centrodestra con il 53,57%, Massimo Bitonci. Nella città veneta al primo turno aveva avuto la meglio il democratico Rossi, sostenuto anche da Sel. Ad inseguirlo il leghista Massimo Bitonci con il 31,4% raccolto lo scorso 25 maggio. Il test si caricava di valore politico soprattutto per lo sfidante, appoggiato da una larga coalizione opposta al centrosinistra, con Forza Italia, Lega nord, Nuovo centrodestra e Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale tra i principali partiti alleati. L'affluenza al primo turno era stata del 74,92%, al ballottaggio il dato è stato del 60,01%.

Bari - Con oltre la metà delle sezioni scruitinate a Bari è in vantaggio schiacciante il civatiamo Antonio Decaro con il 65.4% dei voti contro il 34,6% dello sfidante. Il divario tra gli i due sfidanti baresi dopo il primo turno è stato di ben 14 punti. Il civatiano un po' renziano Antonio Decaro (Pd) ha dovuto mettere da parte bandiere e bottiglie per i festeggiamenti, quando alla fine dello spoglio il tabellone si è fermato sul 49,38%. Alla tavola del centrosinistra, contro ogni scaramanzia, si sono raccolte 13 liste. Lo sfidante a prendere la poltrona dell'uscente Michele Emiliano è il manager Domenico Di Paola che non è andato oltre il 35,76% dei voti, sostenuto dal centrodestra al completo, dai forzisti di Raffaele Fitto al Nuovo centrodestra, passando per il movimento Schittulli dell'oncologo Francesco, presidente uscente della provincia di Bari e potenziale secondo candidato per il centrodestra, poi sfumato. Al primo turno è andato a votare il 74,08%. Al secondo turno in tantissimi hanno approfittato della bella giornata di sole per affollare le spiagge, l'affluenza record - in negativo - è stata del 36,1%.

domenica 8 giugno 2014

"Bustarelle? Un ufficio si occupa solo di quello"

Un anonimo imprenditore dice la sua sulla corruzione. Un male che sostiene sia inevitabile


di Luca Romano 



Da vent'anni è a capo di un'azienda edile, che lavora in tutto il Lazio e a cui gli affari vanno discretamente bene. E non si scompone affatto per gli scandali legati alla corruzione di Expo e Mose. 

Un imprenditore, che preferisce restare anonimo, ha raccontato all'AdnKronos la sua esperienza. "È soprattutto una questione di ipocrisia - dice -, c'è chi continua a scandalizzarsi di fronte a una realtà che noi imprenditori viviamo tutti i giorni: io ho un ufficio dedicato, una contabilità parallela, per le relazioni... chiamiamole relazioni istituzionali", per le bustarelle insomma.

Un sistema di pagamenti in denaro, prestazioni gratuite, agevolazioni dirette e indirette. "Ci sono le bustarelle, come avviene da sempre. Ma c'è anche il lavoretto per la villa di famiglia del capo dei vigili urbani, il lavoretto per il nipote del consigliere comunale... Non gli stai dietro se non ti organizzi con una struttura coerente con il resto dell'azienda". E così le spese per gli "aiutini" alla pubblica amministrazione diventano una voce  di bilancio, "come gli investimenti in macchinari e i pagamenti ai fornitori".

Possibile farne a meno? L'imprenditore sostiene di no, ma "mon devi esagerare. Perchè va calcolato anche il rischio che qualcosa possa andare storto... E una cosa è patteggiare qualche mese da incensurato e un'altra è finire in galera".

Renzi, piano anti-corruzione: Cantone, Daspo, appalti e riforme, ecco le mosse contro le bustarelle

Renzi, piano anti-corruzione: Cantone, Daspo ai politici, riforme e legge Severino, le novità in arrivo




"Ci stiamo mettendo tempo perché non vogliamo misure spot". Matteo Renzi qualche giorno fa ha mascherato così le incertezze del governo sulle misure anti-corruzione. Ora i tempi sembrano maturi, anche perché c'è un'opinione pubblica da rassicurare. Il premier sa che sull'onda del biasimo per le storie di tangenti e appalti truccati che hanno coinvolto anche il Pd (dall'Expo al Mose) rischia di disperdere anche quel clamoroso 40% di consensi guadagnato in appena tre mesi a Palazzo Chigi.

Da Cantone al Daspo per i politici - La ricetta contro le mazzette e compagnia parte da Raffaele Cantone: venerdì prossimo pieni poteri al commissario anti-corruzione già chiamato al capezzale dell'Expo, sperando che questa volta siano effettivi. E poi via ad altre riforme di peso: Pubblica amministrazione (la convinzione di Renzi è che dentro la burocrazia si annidi il germe del malaffare) e giustizia amministrativa, con discrezionalità e tempi da ridurre drasticamente. Le parole d'ordine sono velocità e trasparenza, senza dimenticare qualche slogan ad effetto come "Daspo ai politici": il premier si è affezionato alla formula e la vuole imporre ai suoi collaboratori. L'idea, spiega La Stampa, è quella di estendere la legge Severino ai parlamentari, equiparandoli a consiglieri regionali e comunali. In altre parole, niente tetto di 2 anni per far scattare decadenza e incandidabilità per gli onorevoli condannati per corruzione e concussione, anche solo in primo grado e in caso di patteggiamento e pena mite. Il presidente del Senato Pietro Grasso è già andato in soccorso di Renzi, aggiungendo il carico: via i patrimoni illecitamente guadagnati dall'onorevole corrotto, insieme al suo vitalizio. E anche il limite dell'interdizione perpetua (che scatta per condanne superiori ai 5 anni) potrebbe essere rivisto al ribasso.

Appalti e lobby - Altro punto cruciale nel progetto anti-corruzione di Renzi è il Codice degli Appalti: procedure più snelle, controlli e vigilanza più forti e nuove regole sulle lobby. Come si tradurranno questi buoni propositi, però, non è ancora chiaro. L'idea è quella di escludere gli imprenditori corruttori dai futuri bandi pubblici, inserendoli in quella che La Stampa definisce una "black list delle gare d'asta". Tutto questo nel quadro, più ampio, della riforma della giustizia a cui sta lavorando il ministro Andrea Orlando: processi civili e penali, riti alternativi, smaltimento dell'arretrato civile, prescrizione, un malloppone per cui potrebbe servire un anno di tempo. L'ipotesi, per esempio, è di introdurre il reato di auto-riciclaggio (fino a 8 anni), alzare a 5 anni la pena per falso in bilancio e inasprire quelle per corruzione e concussione.



La giungla della burocrazia uccide le imprese

Lungaggini, tasse e troppe leggi: la vera impresa è fare impresa


di Gian Maria De Francesco 



Per diventare imprenditori in Italia servono almeno 6 procedure. E i costi amministrativi toccano i 31 miliardi: 7mila euro a testa


Una tassa occulta ma soprattutto la più penalizzante. È quella che le imprese italiane pagano alla burocrazia. I costi amministrativi rappresentano la vera e propria palla al piede del sistema imprenditoriale: 31 miliardi (oltre 7mila euro in media per azienda), 2% di Pil e soprattutto un mare di tempo perso per adempiere a oneri che non hanno più nessun legame con la modernità. La sensazione, a leggere i dati elaborati da Confartigianato, è che la classe dei burocrati giustifichi la propria esistenza con questo tipo di vessazioni e che la politica legittimi l'andazzo con una produzione a getto continuo di leggi. Non si spiegherebbe altrimenti come dal 2008 al 2013 siano state emanate 491 norme fiscali delle quali 288 hanno comportato una complicazione delle procedure.

Se queste sono le premesse, non stupisce che il nostro Paese sia sempre nelle retrovie quando la Banca Mondiale compila il rapporto Doing Business. L'Italia si trova dietro tutte le principali economie avanzate e nel capitolo «Aprire un'impresa» scende addirittura al 90simo posto, cioè allo stesso livello dei paesi del Terzo Mondo. Basta solo raccontare l'Odissea alla quale si è soggetti per avviare un'attività per capire che non si tratta del solito sentimento anti-italiano che generalmente prende il sopravvento negli organismi internazionali. Nelle 13 città analizzate, l'avvio di un'impresa richiede, in media, 6 procedure, 9 giorni e costa il 14,5% del reddito pro capite. A Milano, Padova o Roma, un imprenditore può completare le procedure necessarie per avviare un'attività d'impresa in appena 6 giorni, come in Danimarca o negli Stati Uniti. All'Aquila e Napoli, far partire il business richiede rispettivamente 13 e 16 giorni.

Sempre meglio che in Spagna, ma, a conti fatti, non è una passeggiata. Prima di tutto bisogna versare il 25% del capitale sociale in un apposito conto corrente, poi andare dal notaio per farsi redigere statuto e atto costitutivo, infine acquistare i libri contabili e sociali (vidimati anch'essi dal notaio), registrare impresa e dipendenti presso le pubbliche amministrazioni (Registro delle Imprese, Agenzia delle Entrate, Inps e Inail). Contestualmente, viene presentata una segnalazione di inizio attività (la Scia) allo Sportello Unico del Comune. Seguiranno gli accertamenti dell'ispettorato del lavoro e della Asl su applicazioni delle norme di sicurezza, requisiti di igiene, eccetera eccetera. Fino a pochi anni fa per aprire un coiffeur occorrevano 23 autorizzazioni e per una gelateria solo 14. Oggi si veleggia verso la decina.

Finita qui? Neanche per sogno! Se serve un'insegna, bisogna chiedere permesso al Comune, ma se la strada è provinciale, occorre passare prima dalla Provincia e poi farsi accettare la pratica dal Comune. Attenzione alle leggi regionali: nell'hinterland torinese un imprenditore non ha potuto aprire una birreria in franchising perché il Piemonte prevede ancora il ricorso alla vecchia procedura che richiede fino a 90 giorni!

Se poi si vuole costruire, è meglio accendere un cero alla Madonna per chiederle la grazia della celerità. A Milano occorrono quasi sei mesi, a Palermo si impiega quasi un anno. In Italia (100sima classificata su 185 Paesi esaminati) sono necessari in media 13 procedure e 231 giorni, per un costo pari al 253,6% del reddito pro capite. Lungaggini che si possono comprendere se si confrontano con i tempi necessari per l'allacciamento alla rete elettrica di un'utenza business: la media italiana è di 124 giorni, quattro mesi e ben 5 procedure (inclusa ispezione tecnica e approvazione dell'impianto). In Germania si impiegano solo 17 giorni e in Giappone non si paga nulla. Forse un motivo c'è se l'Italia è messa male.

E soprattutto c'è un motivo se nei sondaggi effettuati dalla Banca Mondiale emerge che il 30% degli intervistati nei Paesi con la regolamentazione più complicata - sotto sotto - si aspetta di dover pagare una tangente per oliare le ruote del carro. D'altronde, in nessun altro posto del mondo industrializzato occorrono 172 giorni lavorativi per pagare tasse che scarnificano il 68% dei redditi di impresa. Insomma, è tutto una fatica: aprire una gelateria è un terno al lotto, un pizzaiolo che eccezionalmente serve ai tavoli rischia una supermulta e se miracolosamente si arriva alla fine del percorso a ostacoli, arriva l'Agenzia delle Entrate e si porta via più della metà di quello che si è guadagnato.

Ieri il presidente dei giovani di Confindustria, Marco Gay, ha proposto di espellere da viale dell'Astronomia le aziende che delocalizzano per abbassare il costo del lavoro (i contributi costano il 43% del reddito d'impresa). Forse bisognerebbe pensare a quelli che coraggiosamente resistono in patria.

E la compagna di Franceschini boicotta la campagna pro marò

E la compagna di Franceschini boicotta la campagna pro marò



Il Pd si conferma partito di lotta, di governo ma soprattutto di caos


Il Pd si conferma partito di lotta, di governo ma soprattutto di caos. Il Campidoglio accoglie la mozione che impegna sindaco e giunta a «sponsorizzare», insieme a governo e Figc, l'idea di mettere sulla maglia della nazionale ai mondiali in Brasile il fiocco giallo in solidarietà ai due Marò. Sono stati 4 i voti contrari (Sel e liste civiche di sinistra) mentre il Pd si è spaccato tra«sì» ed astenuti. E tra questi, spicca il voto di Michela De Biase compagna del ministro della Cultura Dario Franceschini. Il governo dice che farà di tutto per portare a casa i Marò. La De Biase, però, si astiene. Manca una linea comune nel Pd e, a quanto pare, anche in casa Franceschini.

Brutte Notizie - L'ultima beffa: Renzi dà ottanta euro ma il rimborso fiscale arriva tra un anno

Brutte Notizie - Detrazioni, il rimborso slitta di un anno se si superano i 4 mila euro



Da una parte ci sono quei lavoratori che hanno trovato 80 euro in busta paga, dall'altra ci sono quei lavoratori che avranno una brutta sorpresa: dovranno aspettare un anno per avere il rimborso derivante dalle detrazioni maturate durante il 2013. E quando arriveranno non le troverà direttamente in busta paga, ma riceverà un bonifico da parte dell'Agenzia delle Entrate.  La misura riguarda quelli che hanno diritto a detrazioni superiori a 4mila euro, una cifra che - come spiega Repubblica - non è difficile da accumulare. Questa scoperta riguarda il popolo del 730 cioè coloro che sono lavoratori dipendenti o pensionati che si affidano ai Caf dove oltre al Cud allegano tutte le spese mediche, quelle per la ristrutturazione della casa, del mutuo, o dell'assicurazione del coniuge. Fino all'anno scorso entro maggio si andava al Caf si presentavano gli scontrini e ricevute fiscali e il centro di assistenza fiscale passava tutto al datore di lavoro o all'ente pensionistico e nel giro di un paio di mesi rimborsava in busta paga le detrazioni che spettavano al lavoratore dipendente.

Nuove regole - Ma da quest'anno con la legge di Stabilità le regole sono cambiate per chi ha maturato il diritto a oltre 4mila euro di detrazioni. Ad erogare l'assegno sarà l'Agenzia delle Entrate e non più il datore di lavoro o l'ente pensionistico. La motivazione è che in questo modo ci saranno più controlli ma sono molti a pensare che in questo modo l'Erario potrà risparmiare in termini di cassa. Il punto è che non viene indicato il termine entro a il quale l'Agenzia dovrà inviare il bonifico al destinatario e il rischio è che si dovrà aspettare a lungo prima di trovarsi il bonifico accreditato sul proprio conto.   

De Girolamo e la storia con Boccia: "Ho mentito al Cav, vi spiego tutto"

Nunzia De Girolamo: "Non dissi al Cav della mia storia con Boccia"



Ha tenuto nascosta la sua relazione a Silvio Berlusconi per un bel po' di tempo, poi alla fine si è fatta coraggio e ha confessato il suo amore per il "nemico". Nunzia De Girolamo rivela al Mattino i suoi tormenti per quella storia con Francesco Boccia nata nel 2009 a un dibattito all’Università di Napoli quando i due erano deputati nei due schieramenti opposti nel periodo di massimo conflitto tra Pd e centrodestra.

«Siamo stati clandestini per un bel po’», dice l'onorevole di Nuovo Centrodestra a Maria Chiara Aulisio. «Ci abbiamo pensato a lungo prima di uscire allo scoperto. Non sapevamo come avrebbero reagito le classi dirigenti e l’elettorato». Alla fine entrambi i partiti hanno reagito bene, oltre le aspettative. «Quando lo dissi a Berlusconi ero terrorizzata, pensai: ”Non mi candiderà mai più”. Invece fu molto affettuoso, mi disse che nella vita privata ognuno fa quello che gli pare».