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lunedì 12 maggio 2014

L'ex premier intervistato da Paolo Liguori: "Quelli di Ncd sono tutti vecchi signori della politica attaccati alla poltrona"

Berlusconi: "Via la tassa sulla prima casa. Pensioni minime a 1000 euro"


di Luca Romano 


Il leader di Forza Italia a Tgcom24: "Sul governo Renzi sono pessimista, per ora ha solo alzato le tasse"


Le elezioni europee si avvicinano e prosegue il tour elettorale di Silvio Berlusconi. In testa alle tematiche, ancora uan volta, le questioni giudiziarie. A partire dal terremoto che si è abbattuto sull'Expo 2015, fino all'arresto di Claudio Scajola e alla condanna definitiva di Marcello Dell'Utri. Il Cavaliere, intervistato da Liguori per TgCom24, tocca tutti gli argomenti caldi della scena politica. "Molte cose sono aria fritta, in tutte le cose con riguardano appalti ci sono delle telefonate, è la vita. Non è solo l’Italia ma in tutto il mondo non dobbiamo scandalizzarci, molte cose sono millantate e non vere affrontiamo il problema ma senza pensare che ci sia uno scandalo che faccia pensare a tangentopoli", è questo il punto di vista dell'ex premier sull'inchiesta della procura milanese sugli appalti per l'Esposizione Universale del prossimo anno. Berlusconi ci tiene inoltre a sottolineare che Forza Italia non c'entra nulla con questo scandalo. E sul caso Scajola il Cav precisa: "Questo signor Matacena io non me lo ricordo. Sarà stato deputato di Forza Italia vent'anni fa per un breve periodo".

Sale il livello dello scontro con l'ex delfino Angelino Alfano che, negli ultimi giorni, non ha perso occasione per lanciare attacchi e bordate a Forza Italia: "Quelli di Ncd sono tutti vecchi signori della politica attaccati alla poltrona", attacca Berlusconi. M aumenta la tensioen anche con il governo di Matteo Renzi: "Posso dire che dopo le cose che ha fatto Renzi come gli 80 euro solo ai dipendenti e nulla per i pensionati, noi stiamo ritenendo di non poter seguire la strada di queste proposte di riforme del Senato. Anche sulla legge elettorale hanno cambiato l’accordo mettendo il ballottaggio, una cosa inaccettabile". Poi l'ex premier rilancia sul piano economico:  "Se andiamo al governo, nel primo Cdm aboliremo di nuovo la tassa sulla prima casa. Inoltre stiamo lavorando per trovare le coperture sulle pensioni minime per arrivare a mille euro al mese."

Nella parole del leader di Fi non manca neppure un riferimento alla sua questione giudiziaria: "Sono toccato da una sentenza che è stata una costruzione particolare, la base della mia esclusione dal Parlamento, ciò che la sinistra ha tentato di fare dal ’94. Sono sicuro che in pochissimo tempo mi verrà ridata la mia piena onorabilità". 


Il servizio Bilancio del Senato smaschera l'operazione demagogica di Renzi: gli 80 euro non sono un taglio Irpef, ma spesa pubblica in deficit. Ecco perché

Hanno ragione i super tecnici: il bonus del premier è un bluff


di Renato Brunetta


Il servizio Bilancio del Senato smaschera l'operazione demagogica di Renzi: gli 80 euro non sono un taglio Irpef, ma spesa pubblica in deficit. Ecco perché


Matteo Renzi: «Le osservazioni sulle coperture del “decreto Irpef” fatte dal servizio Bilancio del Senato sono tecnicamente false». Pietro Grasso: «Non posso accettare che si metta in discussione la serietà, l'autonomia e l'indipendenza degli uffici del Senato». Maurizio Gasparri e Roberto Calderoli: «Querela!». Il presidente del Senato li chiama, ma non per annunciare chiarimenti da parte del governo, bensì per bloccare la loro azione di denuncia. I due vicepresidenti vanno avanti lo stesso: «Renzi chieda scusa all'istituzione che ha offeso». Interviene di nuovo il presidente del Consiglio: «Mi vogliono querelare perché abbasso le tasse». Evidentemente non si è ancora reso conto, nonostante sia scritto nella relazione tecnica al Decreto, redatta dal suo stesso ministro dell'Economia, che il «bonus Irpef» non è un taglio delle tasse, ma spesa pubblica in deficit.

A questo è arrivato il renzismo in Italia. Conflitto istituzionale. Tutto parte dal «bonus Irpef» di 80 euro strombazzato da Renzi per vincere le elezioni europee del prossimo 25 maggio. «Bonus Irpef» che, però, non ha coperture certe e dà origine a un buco di bilancio che si tradurrà in nuove tasse, aumenti delle accise sulla benzina, sugli olii minerali e sui tabacchi, in tagli lineari e in sanzioni da parte dell'Unione europea. Lo abbiamo detto per primi con rilievi tecnicamente ineccepibili, e abbiamo scritto al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché vigilasse sul rispetto, nel decreto Irpef, dei principi di carattere costituzionale, e in particolare dell'articolo 81 della Costituzione, inerente il pareggio di bilancio. Nonostante il lungo travaglio, il decreto è stato controfirmato. È bastato solo qualche giorno, e il 2 maggio tutti i nostri dubbi hanno trovato conferma nella Nota di lettura n. 45 redatta dal Servizio bilancio del Senato della Repubblica. Apriti cielo.

A norma delle vigenti disposizioni legislative e dei Regolamenti parlamentari, ci saremmo aspettati che la Ragioneria generale dello Stato, probabilmente penalizzata in sede di redazione del decreto, facesse valere tutta la sua professionalità, rispondendo a tono alle osservazioni formulate dal Servizio Bilancio del Senato. E che poi il governo, attraverso i suoi rappresentanti, convincesse in Commissione i dubbiosi, lasciando al Parlamento, in quanto tale, il giudizio finale. Invece niente di tutto questo: solo insulti. E nuovi azzardi: in prima battuta Renzi ha voluto rispondere sfidando i tecnici a dimostrare «se è vero o no» che il suo governo ha ridotto i costi della politica e delle Province e che sta vendendo le auto blu. Il che, come è noto, non solo con il «decreto Irpef» c'entra come i cavoli a merenda, ma è un'affermazione puerile, volgare e ridicola. Così come il riferimento all'applicazione dei tetti agli stipendi da parte dei funzionari del Senato. Poi la bordata: «osservazioni tecnicamente false». Per rispondere così, il presidente del Consiglio è chiaramente sull'orlo di una crisi di nervi, non sa quel che dice, provoca. La pioggia di critiche da parte dei tecnici del Senato si è concentrata su 5 punti, cui ne aggiungiamo un altro noi. E in 164 pagine è stato di fatto dimostrato che le coperture del «bonus Irpef» millantate da Renzi non ci sono e, di conseguenza, la manovra correttiva è sempre più vicina. Nell'ordine, i rilievi riguardano:

1) L'aumento della tassazione sulle quote rivalutate di Bankitalia: il provvedimento di Renzi confligge con gli articoli 41, 53 e 97 della Costituzione, in quanto mina «l'esigenza di anticipata conoscenza da parte del contribuente - in questo caso le banche - del carico fiscale posto sulle proprie attività economiche». Inoltre, il gettito stimato dal governo non tiene conto delle ricadute di eventuali contenziosi;

2) La stima del gettito derivante dall'aumento della tassazione sul risparmio: non tiene conto di «possibili effetti sostitutivi che la nuova norma potrebbe determinare nelle scelte di investimento, ad esempio tra attività finanziarie nazionali ed estere»;

3) Il pagamento dei debiti della Pa: non è automatico che produca il gettito Iva stimato dal governo, in quanto le imprese potrebbero utilizzare la liquidità ricevuta per pagare i loro fornitori, generando «effetti di compensazione impliciti nella procedura di liquidazione periodica dell'Iva». A supporto di quanto detto, il Servizio Bilancio del Senato evidenzia che dai pagamenti effettuati nel corso dell'anno 2013 è stato realizzato solo il 58,3% del gettito Iva originariamente previsto. Circostanza che quest'anno potrebbe ripetersi;

4) Il taglio dell'Irap: il minor gettito da esso derivante potrebbe essere ben superiore ai 2 miliardi stimati dal governo nel decreto, che corrispondono solo all'8,3% delle entrate attese per il 2014, mentre la riduzione dell'aliquota promesso dal governo è del 10%;

5) La norma che prevede di destinare a copertura degli «80 euro» i proventi derivanti dalla lotta all'evasione fiscale (almeno 2 miliardi) ha carattere «programmatorio» e, per questo motivo, non potrebbe essere inserita in un decreto legge. A ciò si aggiunge il fatto che nel provvedimento del governo non è scritto quali siano gli strumenti che l'esecutivo intende adottare per raggiungere l'obiettivo dichiarato. Ma c'è ancora un altro rilievo, che, da quanto si apprende, sarebbe stato segnalato al ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, dal direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via: l'aumento della tassazione sul risparmio dal 20% al 26% rischia di essere incostituzionale. L'eccessiva differenza tra le aliquote sugli interessi maturati sui depositi bancari o sui prodotti corporate (obbligazioni, azioni, ecc.: 26%) e quelle sui titoli di Stato (12,5%) rischia di determinare una doppia imposizione sulle imprese. Discriminando tra forme di risparmio. La maggiore tassazione su alcune rispetto ad altre, infatti, determina forme di arbitraggio finanziario per cui una parte delle risorse si sposteranno dai conti correnti o dal corporate, ad esempio, verso i titoli di Stato.

E per «piazzare» i loro titoli, le imprese dovranno garantire rendimenti maggiori, internalizzando il costo dell'imposta più alta sui titoli di loro emissione. Una sorta di tassa «occulta» in più sulle imprese, che già versano Ires e Irap. Difficile, in questo contesto, il ruolo del ministro Padoan, stretto nella morsa tra l'obbedienza a Renzi e la difesa del suo profilo professionale di economista apprezzato e stimato sia in Italia sia all'estero. Ma il presidente del Consiglio, sulla sua spudorata posizione di insulto all'istituzione Senato, non sembra voler fare marcia indietro. Anzi gioca con la retorica politica. Qualcuno gli dica di smetterla. Strattonare a destra o a sinistra un sistema fiscale caotico e contraddittorio, come quello italiano, per fini contingenti quali possono essere i propositi elettoralistici di Matteo Renzi, produce solo disastri.

La preoccupazione per questo stile barbaro non può che aumentare dopo le nomine del board dell'Ufficio Parlamentare di Bilancio, tutte e tre di stretta osservanza Pd in spregio ai Trattati internazionali che lo hanno istituito, alla legge che ne ha recepito le indicazioni e al Parlamento tutto. Qualcuno spieghi al nostro improvvisato presidente del Consiglio che demagogia e populismo fanno solo male al Paese. E che, malgrado lui, la finanza pubblica italiana è diventata un pezzo della finanza pubblica dell'Unione europea. Non si governa con battute ridicole e arroganti. Né tantomeno delegittimando le istituzioni.

Contro Alfano in arrivo un siluro: "Nessuna trattativa con a Carogna. Ma un verbale smentisce Alfano"

Alfano: "Non è stato Genny 'a Carogna a decidere di giocare all'Olimpico"



"Nessuna trattativa con gli ultras" ha ribadito il ministro dell'Interno Angelino Alfano nell'audizione alla Camera sui fatti di sabato 4 maggio all'Olimpico prima della finale di coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. "La sequenza dei fatti all'Olimpico - ha detto Alfano - con l'atteggiamento di De Tommaso (Genny 'a Carogna) tracotante con la vergognosa scritta sulla maglietta ha fatto nascere il dubbio che la partita si sia svolta dopo l'assenso di De Tommaso". Secondo Alfano non è stato vincolante l'assenso di Genny 'a Carogna perché: "la partita si sarebbe svolta comunque anche per scongiurare rischi da deflusso".

Hamsik sotto la curva - Dopo che anche i giocatori del Napoli sono stati rassicurati sulle condizioni del tifoso napoletano ferito gravemente, ma ancora vivo, Alfano ha chiarito che la stessa società di De Laurentiis ha deciso di portare il capitano della squadra sotto la curva per: "stemperare la tensione". Ad accompagnarlo c'erano alcuni funzionari delle forze dell'ordine: "per garantire esclusivamente la sua incolumità" ha chiarito Alfano.

La trattativa e la minaccia - Repubblica però pubblica stralci di un verbale che smentisce il Viminale. Il documento è stato scritto da un ispettore di Polizia presente al momento del faccia a faccia e spedito sulla scrivania del procuratore federale Stefano Palazzi, oltre che alla Procura di Roma. Dai virgolettati riportati nel rapporto del poliziotto emerge che i tifosi non credevano alla versione del tifoso ferito: "Non ci prendete in giro, lo hanno ammazzato" ha detto 'a Carogna. Hamsik però insiste: "Ci sto mettendo la faccia, ci sono dei feriti, e non sono gravi. E non è una questione di ultras, l'aggressione è avvenuta per altri motivi". A quel punto il capo ultras si convince, dà il suo consenso e dice: "Va bene, se ci metti tu la faccia, la metto anch'io. Tanto tutti sappiamo dove siamo". E fa il pollice verso ai suoi che aspettavano un segnale in religioso silenzio.

Le rapine - La faccia spaurita di Hamsik dopo il confronto ha fatto il giro del mondo in diretta tv. E quel "tutti sappiamo dove siamo" richiama la memoria alle ripetute rapine ai danni di giocatori del Napoli. Vittime eccellenti come Lavezzi, Cavani e lo stesso Hamsik sono citate, riporta sempre Repubblica, nel verbale del pentito Salvatore Russomagno, secondo il quale i Mastiffs, il gruppo ultras comandato da Genny 'a Carogna, aveva voluto colpire quei giocatori che si erano rifiuti di partecipare a inaugurazioni di club o eventi organizzati dalla tifoseria.

Grillo si scopre Berlusconiano: "Silvio aveva ragione a chiamarlo Kapò"

Grillo contro Schulz: "Berlusconi aveva ragione a chiamarlo kapò"


Martin Schulz 

"Berlusconi ha una sostanza politica della quale posso dare un giudizio" aveva detto Martin Schulz. Si proprio il "kapò" Schultz, quello che da anni si fa pubblicità politica sparando a zero contro il Cav. Chi, invece, non ha quella sostanza è, per il socialdemocratico tedesco candidato alla poltrona di presidente della commissione europea, Beppe Grillo. Che Schulz paragona "a Stalin e Chavez" (ma va? Il Cavaliere lo aveva appena paragonato a Hitler e Stalin). Il tempo di pronunciare il giudizio, che Schultz è stato "infilzato" dal leader 5 Stelle sul blog del Movimento: "Schulz sta facendo campagna elettorale permanente per un partito di un altro Paese insultando con il suo linguaggio milioni di italiani che hanno votato il M5S. Berlusconi non aveva tutti i torti a chiamarlo kapò anche se assomiglia di più a un krapò, nel senso di crapùn, crapa dura con il chiodo sull'elmetto, che non tiene vergogna a sparare cazzate". Insomma: vuoi vedere che, dopotutto, Berlusconi non è tanto male?

Le confessioni "Choc" di un funzionario di Equitalia: "Obiettivo incassare"

Le confessioni "Choc" di un funzionario di Equitalia: "Obiettivo incassare"


di Claudio Antonelli 



Sono stati picchiati più volte. Aggrediti e sequestrati. I dipendenti Equitalia sono gli ultimi della catena riscossoria e come tale i primi a prenderle dai contribuenti infuriati. È logico che si sentano tra l'incudine e il martello. Non hanno tutti i torti dal momento che le decisioni vengono prese più in alto. Da un lato dalla politica romana e dall'altro dai vertici della stessa Equitalia. «Inoltre», commenta a Libero un dipendente che chiede di rimanere anonimo, «sembra che la nostra posizione faccia comodo alla politica. Quando si tratta di fare il capro espiatorio nessuno ci difende. E ci tocca pure sentire Grillo urlare contro di noi e contro le cartelle verdi che a suo dire  sarebbero di Equitalia. Le nostre sono di altro colore, ma tanto meglio fare confusione». 


In effetti Equitalia per come è organizzata sembra proprio prestarsi a fare da parafulmine. La società di riscossione ha chiuso il bilancio in passivo. Sono stati tagliati i costi del personale, ma la cifra di rosso ha superato gli 80 milioni per via dello stop della riscossione Ici. La perdita complessiva supera gli 800, se si considera i pregressi portati in dote dalle varie consorelle (Sud e Centro) dopo la fusione. 


Eppure i bonus vengono assegnati in base agli importi riscossi dai cittadini. Cioè, al raggiungimento del budget fissato dai vertici a inizio anno. Fa male sapere che, nonostante la crisi, negli ultimi anni l'obiettivo da raggiungere è sempre stato alzato. Almeno un 5% in più ogni anno. Ovviamente non è detto che il budget venga raggiunto. Se ne viene conseguito almeno l'80%, inizia a scattare il meccanismo incentivante. L'anno scorso si era discusso di ridurre gli incentivi alla produzione. I sindacati - tutte e tre le sigle - avevano dichiarato: «Gli importi verranno ulteriormente ridotti, è una vergogna». 

Non è successo. I sindacati non hanno firmato il documento ma il prossimo giugno scatteranno ugualmente i pagamenti dei bonus sui risultati del 2013. Dal documento visionato da Libero si evince chiaramente che all'addetto che batte la strada vanno 500 euro lordi. Mentre al funzionario responsabile area oltre 3mila. Voci di corridoio interne raccontano di bonus per direttori regionali arrivati ai 20mila euro. Ovviamente nel caso in cui il budget di area venga raggiunto al 100% e il dipendente abbia ottenuto dai superiori il massimo della valutazione. Singolarmente non si tratta di cifre scandalose, ma se si considera che l'anno scorso a busta paga c'erano circa 8mila persone, gli importi complessivi diventano mastodontici. 


«Il paradosso», spiega un addetto alla riscossione, «è che chi sta per strada e rischia può aspirare massimo a 500 euro lordi mentre i dirigenti hanno iper incentivi. Senza contare che alcune figure sono state cooptate da altre aziende, più o meno pubbliche, senza alcuna conoscenza in materia». E questo forse spiega perché gli incentivi non vengano dati in base ai risultati di bilancio. Aiuterebbe a rimetterlo in sesto. L'ha detto pure la Corte dei Conti che chiede da tempo una riforma del sistema fiscale e un riequilibrio dei bilanci di Equitalia. All'appello nelle casse manca la stratosferica cifra di 545 miliardi di euro. Un quinto del debito pubblico. Somme che non torneranno mai. Altro che dare incentivi sul budget. «Per chi come noi lavora dentro Equitalia», prosegue l'addetto, «ci sono domande che restano insolute. Perché il nuovo software è peggiore del precedente? Non abbiamo la possibilità di avere a disposizione l'intera situazione debitoria del contribuente. Senza contare che spesso viaggiamo con la carta carbone. Perché renderci meno efficienti? A Chi fa comodo?». 


Non è facile rispondere. Così come si resta stupiti quando si ascoltano alcune proposte degli addetti ai lavori. Mai realizzate. «Per ridurre l'evasione e consentire a noi di recuperare prima e maggiormente gli importi dovuti», conclude l'addetto, «basterebbe creare un software unico dove tutte le aziende inseriscono le fatture emesse e ricevute. Dal data base innanzitutto si vedrebbe subito se qualcuno ha emesso una fattura falsa a una partita iva fasulla. Purtroppo succede spesso. Ma ce ne accorgiamo noi e cinque anni dopo la contestazione. A quel punto, scopriamo che la società chiusa era domiciliata in uno stabile abbandonato e non c'è nulla da recuperare. Con il sistema on line potremmo intervenire subito e non consentire nemmeno abusi sull'Iva». Perché non si fa? Forse perché i contribuenti onesti ci guadagnerebbero. Lo Stato vedrebbe subito quali fatture sono insolute e non dovrebbe chiedere in anticipo il pagamento dell'Iva né tanto meno chiedere tasse su importo che sono una perdita e non reddito. «E anche noi», conclude, «saremmo più contenti di non trovarci di fronte a imprenditori che non sono stati pagati da un cliente e si sono trovati a dover scegliere tra gli stipendi e gli F24».

Berlusconi: Solo PPE farà qualcosa. Grillo ininfluente. Chi vota sinistra vota Schulz

Berlusconi: Solo PPE farà qualcosa. Grillo ininfluente. Chi vota sinistra vota Schulz


Silvio Berlusconi interviene a 360° in un'intervista esclusiva all'Agenzia Vista. Il Cavaliere punta ancora una volta sulle forze moderate che, stando ai sondaggi sono maggioranza nel Paese. E sulle Europee: "Punto al 25%. E assicura: "Porterò le pensioni minime a 800 euro". 



domenica 11 maggio 2014

La grande torta delle coop rosse tra scandali e soldi dagli amici

Quando si scoprono le magagne a sinistra il sistema si chiude a riccio, in difesa, e il Pd si scopre garantista a oltranza


di Paolo Bracalini 

La galassia delle aziende legate al Pd è finita spesso nel mirino dei pm per tangenti e appalti sospetti. Ma con le imprese di sinistra le procure chiudono un occhio



«Quasi mezzo milione di occupati e un giro di affari globale vicino ai 60 miliardi di euro». Si presenta così, sotto il titolo «Come coniugare etica e affari», la Legacoop, casa madre di tutte le coop rosse, un sistema di 15mila imprese che fanno affari da nord a sud e in tutti i settori: edilizia, grande distribuzione, servizi, assicurazioni, banche. Una galassia da sempre parallela al partito - prima Pci, poi Ds, ora Pd - con intrecci di vario tipo: nomine, travaso di dirigenti (che diventano sindaci o anche ministri, come il renziano Poletti ex capo di Legacoop), favori, appalti da amministrazioni amiche. Etica e business, ma ogni tanto, e nemmeno raramente, qualche scandalo. Quando scoppia il bubbone, di quelli grossi, scavi e ci trovi dentro una coop. Nel giro di mazzette attorno all'Expo ecco spuntare Manutencoop, colosso bolognese da 1 miliardo di euro l'anno di fatturato (per il 60% arriva dal pubblico), guidato da sempre dall'ex Pci Claudio Levorato, indagato dalla Procura milanese come presunta sponda a sinistra della cricca. Levorato era finito già nei guai a Brindisi, l'estate scorsa, anche lì per una storia di appalti (la Manutencoop si occupa di pulizia), stavolta alla Asl della città pugliese dove «negli anni la cooperativa emiliana di area Ds - scrive la Gazzetta del Mezzogiorno - ha preso 70 milioni di appalti».

Quando si scoprono le magagne il sistema si chiude a riccio, in difesa, e il Pd si scopre garantista ad oltranza (vedi Bersani sul Fatto: «Se la magistratura accerta reati trarremo le conseguenze...»). Eppure i buchi neri del sistema sono frequenti, anche se spesso le Procure archiviano. Qualche anno fa la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata ha costituito, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. La Guardia di Finanza ha scoperto tutto e segnalato 46 nomi alla Procura di Reggio Emilia, che ne ha indagati due, riconoscendo la finalità dell'operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone». Condannati? No, perché poi il pm ha chiesto l'archiviazione.

Coop rosse anche nel «sistema Sesto», quello che ruotava attorno a Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano, capo del Pd lombardo ed ex braccio destro di Bersani. Lì la coop rossa in questione è il Consorzio cooperative costruttori di Bologna, che avrebbe imposto consulenze fittizie da 2,4 milioni di euro a Giuseppe Pasini, l'immobiliarista proprietario delle aree ex Falck, elargite come «condizione per compiacere la controparte nazionale del partito», racconterà proprio Pasini ai pm. Anche lì coop rosse e lieto fine. Al vicepresidente della Ccc bolognese, insieme ad altri due rappresentanti delle coop, tutti accusati di concussione, è andata infatti bene: prescritti.

Affari dappertutto, ma cuore pulsante in Emilia Romagna, vero ombelico della vecchia «ditta» Pd, sede anche della Unipol (a Bologna, Via Stalingrado...), quella della tentata scalata a Bnl per opera di Consorte, finita male («abbiamo una banca?»). Lì le coop si aggiudicano un appalto su quattro e hanno un monopolio di fatto nella grande distribuzione (70%). Ne sa qualcosa Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, che ha ingaggiato una battaglia sanguinosa, a suon di denunce, con Coop Estense, che gli ha impedito l'apertura di due supermercati in provincia di Modena, abusando della sua «posizione dominante». Si è dovuti arrivare al Consiglio di Stato (che ha sanzionato la coop per 4,6 milioni di euro), dopo che il Tar aveva accolto il ricorso della società emiliana. Una battaglia durata 13 anni.

Ancora in Emilia-Romagna, ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, una delle corazzate di Legacoop, è naufragata in un mare di debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l'accusa di fare affari col clan dei Casalesi. Fuori dai guai, invece, il governatore piddino Vasco Errani, finito in mezzo al cosiddetto «scandalo Terre Emerse», dal nome della cooperativa agricola che per la costruzione di una cantina vinicola a Imola aveva beneficiato di un finanziamento regionale di 1 milione di euro. Piccolo dettaglio: il presidente della coop è Giovanni Errani, suo fratello. Ma tutto è finito bene per Vasco Errani, accusato di falso ideologico in atti pubblici: assolto dal giudice «perché il fatto non sussiste».

Ma il potere coop si ramifica molto lontano dall'Emilia. «Si respira un clima pesante attorno alla struttura di prima accoglienza di Lampedusa» disse il presidente di Legacoop Sicilia dopo lo scandalo suscitato dalle riprese del Tg2 sui maltrattamenti in un centro di accoglienza per i clandestini, a Lampedusa, gestito da una coop. Un «business» da 2 milioni al giorno, in cui non potevano mancare anche loro. E nemmeno nelle grandi opere. Al nodo Tav di Firenze lavora la Coopsette, altro gigante degli appalti pubblici. Anche di loro si sta occupando la Procura di Firenze, che ha messo sotto indagine 36 persone, tra cui l'ex presidente Pd della Regione Umbria, la dalemiana Lorenzetti. Il sospetto è che si siano usati materiali scadenti, in business addirittura con la camorra. E meno male che lo slogan è «coniugare etica e affari».