Hanno ragione i super tecnici: il bonus del premier è un bluff
di Renato Brunetta
Il servizio Bilancio del Senato smaschera l'operazione demagogica di Renzi: gli 80 euro non sono un taglio Irpef, ma spesa pubblica in deficit. Ecco perché
Matteo Renzi: «Le osservazioni sulle coperture del decreto Irpef fatte dal servizio Bilancio del Senato sono tecnicamente false». Pietro Grasso: «Non posso accettare che si metta in discussione la serietà, l'autonomia e l'indipendenza degli uffici del Senato». Maurizio Gasparri e Roberto Calderoli: «Querela!». Il presidente del Senato li chiama, ma non per annunciare chiarimenti da parte del governo, bensì per bloccare la loro azione di denuncia. I due vicepresidenti vanno avanti lo stesso: «Renzi chieda scusa all'istituzione che ha offeso». Interviene di nuovo il presidente del Consiglio: «Mi vogliono querelare perché abbasso le tasse». Evidentemente non si è ancora reso conto, nonostante sia scritto nella relazione tecnica al Decreto, redatta dal suo stesso ministro dell'Economia, che il «bonus Irpef» non è un taglio delle tasse, ma spesa pubblica in deficit.
A questo è arrivato il renzismo in Italia. Conflitto istituzionale. Tutto parte dal «bonus Irpef» di 80 euro strombazzato da Renzi per vincere le elezioni europee del prossimo 25 maggio. «Bonus Irpef» che, però, non ha coperture certe e dà origine a un buco di bilancio che si tradurrà in nuove tasse, aumenti delle accise sulla benzina, sugli olii minerali e sui tabacchi, in tagli lineari e in sanzioni da parte dell'Unione europea. Lo abbiamo detto per primi con rilievi tecnicamente ineccepibili, e abbiamo scritto al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché vigilasse sul rispetto, nel decreto Irpef, dei principi di carattere costituzionale, e in particolare dell'articolo 81 della Costituzione, inerente il pareggio di bilancio. Nonostante il lungo travaglio, il decreto è stato controfirmato. È bastato solo qualche giorno, e il 2 maggio tutti i nostri dubbi hanno trovato conferma nella Nota di lettura n. 45 redatta dal Servizio bilancio del Senato della Repubblica. Apriti cielo.
A norma delle vigenti disposizioni legislative e dei Regolamenti parlamentari, ci saremmo aspettati che la Ragioneria generale dello Stato, probabilmente penalizzata in sede di redazione del decreto, facesse valere tutta la sua professionalità, rispondendo a tono alle osservazioni formulate dal Servizio Bilancio del Senato. E che poi il governo, attraverso i suoi rappresentanti, convincesse in Commissione i dubbiosi, lasciando al Parlamento, in quanto tale, il giudizio finale. Invece niente di tutto questo: solo insulti. E nuovi azzardi: in prima battuta Renzi ha voluto rispondere sfidando i tecnici a dimostrare «se è vero o no» che il suo governo ha ridotto i costi della politica e delle Province e che sta vendendo le auto blu. Il che, come è noto, non solo con il «decreto Irpef» c'entra come i cavoli a merenda, ma è un'affermazione puerile, volgare e ridicola. Così come il riferimento all'applicazione dei tetti agli stipendi da parte dei funzionari del Senato. Poi la bordata: «osservazioni tecnicamente false». Per rispondere così, il presidente del Consiglio è chiaramente sull'orlo di una crisi di nervi, non sa quel che dice, provoca. La pioggia di critiche da parte dei tecnici del Senato si è concentrata su 5 punti, cui ne aggiungiamo un altro noi. E in 164 pagine è stato di fatto dimostrato che le coperture del «bonus Irpef» millantate da Renzi non ci sono e, di conseguenza, la manovra correttiva è sempre più vicina. Nell'ordine, i rilievi riguardano:
1) L'aumento della tassazione sulle quote rivalutate di Bankitalia: il provvedimento di Renzi confligge con gli articoli 41, 53 e 97 della Costituzione, in quanto mina «l'esigenza di anticipata conoscenza da parte del contribuente - in questo caso le banche - del carico fiscale posto sulle proprie attività economiche». Inoltre, il gettito stimato dal governo non tiene conto delle ricadute di eventuali contenziosi;
2) La stima del gettito derivante dall'aumento della tassazione sul risparmio: non tiene conto di «possibili effetti sostitutivi che la nuova norma potrebbe determinare nelle scelte di investimento, ad esempio tra attività finanziarie nazionali ed estere»;
3) Il pagamento dei debiti della Pa: non è automatico che produca il gettito Iva stimato dal governo, in quanto le imprese potrebbero utilizzare la liquidità ricevuta per pagare i loro fornitori, generando «effetti di compensazione impliciti nella procedura di liquidazione periodica dell'Iva». A supporto di quanto detto, il Servizio Bilancio del Senato evidenzia che dai pagamenti effettuati nel corso dell'anno 2013 è stato realizzato solo il 58,3% del gettito Iva originariamente previsto. Circostanza che quest'anno potrebbe ripetersi;
4) Il taglio dell'Irap: il minor gettito da esso derivante potrebbe essere ben superiore ai 2 miliardi stimati dal governo nel decreto, che corrispondono solo all'8,3% delle entrate attese per il 2014, mentre la riduzione dell'aliquota promesso dal governo è del 10%;
5) La norma che prevede di destinare a copertura degli «80 euro» i proventi derivanti dalla lotta all'evasione fiscale (almeno 2 miliardi) ha carattere «programmatorio» e, per questo motivo, non potrebbe essere inserita in un decreto legge. A ciò si aggiunge il fatto che nel provvedimento del governo non è scritto quali siano gli strumenti che l'esecutivo intende adottare per raggiungere l'obiettivo dichiarato. Ma c'è ancora un altro rilievo, che, da quanto si apprende, sarebbe stato segnalato al ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, dal direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via: l'aumento della tassazione sul risparmio dal 20% al 26% rischia di essere incostituzionale. L'eccessiva differenza tra le aliquote sugli interessi maturati sui depositi bancari o sui prodotti corporate (obbligazioni, azioni, ecc.: 26%) e quelle sui titoli di Stato (12,5%) rischia di determinare una doppia imposizione sulle imprese. Discriminando tra forme di risparmio. La maggiore tassazione su alcune rispetto ad altre, infatti, determina forme di arbitraggio finanziario per cui una parte delle risorse si sposteranno dai conti correnti o dal corporate, ad esempio, verso i titoli di Stato.
E per «piazzare» i loro titoli, le imprese dovranno garantire rendimenti maggiori, internalizzando il costo dell'imposta più alta sui titoli di loro emissione. Una sorta di tassa «occulta» in più sulle imprese, che già versano Ires e Irap. Difficile, in questo contesto, il ruolo del ministro Padoan, stretto nella morsa tra l'obbedienza a Renzi e la difesa del suo profilo professionale di economista apprezzato e stimato sia in Italia sia all'estero. Ma il presidente del Consiglio, sulla sua spudorata posizione di insulto all'istituzione Senato, non sembra voler fare marcia indietro. Anzi gioca con la retorica politica. Qualcuno gli dica di smetterla. Strattonare a destra o a sinistra un sistema fiscale caotico e contraddittorio, come quello italiano, per fini contingenti quali possono essere i propositi elettoralistici di Matteo Renzi, produce solo disastri.
La preoccupazione per questo stile barbaro non può che aumentare dopo le nomine del board dell'Ufficio Parlamentare di Bilancio, tutte e tre di stretta osservanza Pd in spregio ai Trattati internazionali che lo hanno istituito, alla legge che ne ha recepito le indicazioni e al Parlamento tutto. Qualcuno spieghi al nostro improvvisato presidente del Consiglio che demagogia e populismo fanno solo male al Paese. E che, malgrado lui, la finanza pubblica italiana è diventata un pezzo della finanza pubblica dell'Unione europea. Non si governa con battute ridicole e arroganti. Né tantomeno delegittimando le istituzioni.
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