Dopo vent'anni di processi sulle camicie verdi lo Stato dovrà risarcire i leghisti
di Matteo Pandini
Contro le camicie verdi leghiste c'è stata «una violazione dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali» per i tempi biblici della giustizia: il ministero di via Arenula dovrà risarcirle con 7.360 euro a testa, più le spese processuali. L'ha stabilito la Corte d' Appello di Brescia, che segna un altro punto a favore dei leghisti dopo l'assoluzione definitiva arrivata nel settembre 2016. In tutto erano finite alla sbarra 34 persone. Accusa gravissima: aver promosso, costituito, organizzato o diretto un' associazione di carattere militare, con l'obiettivo di attentare all'unità dello Stato.
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La faccenda inizia nel giugno 1996. A Pontida. Mentre a Roma si celebra la festa della Repubblica, Umberto Bossi raduna i fedelissimi sul pratone bergamasco e parla di indipendenza. Simbolo della battaglia, le camicie verdi. Vendute sulle bancarelle per 35mila lire, vanno a ruba. Sono la divisa della cosiddetta Guardia nazionale padana, una trovata che qualcuno definisce folcroristica. Servirà a identificare il servizio d' ordine alle manifestazioni. Tra i responsabili «dell' esercito bossiano» c'è un veneto - Enzo Flego - che un anno dopo si candiderà al parlamento del Nord guidando la Destra padana. Problema: a Verona c' è un procuratore, Guido Papalia, che sente puzza di eversione.
Lo Stato fa sul serio. Se ne accorge Bossi in persona: il 15 settembre 1996 proclama l'indipendenza della Padania a Venezia, facendo splamare migliaia di militanti del Carroccio lungo tutto il Po, e pochi giorni dopo - il 18 settembre - verso le 7 del mattino la polizia si presenta alla sede di via Bellerio, a Milano. L'ordine arriva dalla città scaligera: vogliono perquisire il quartier generale e gli uffici (tra cui quello dell' ex ministro dell' Interno Roberto Maroni, che tornerà al Viminale anni dopo) ma i leghisti fanno resistenza passiva, arriva anche il Senatur, si scatena un parapiglia e Bobo finisce in ospedale.
Verrà accusato di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. I militanti che possono, accorrono. E cantano alla polizia «dalla Toscana al Settentrione, un solo grido: "secessione!"», ed è in questo clima che 34 persone vengono indagate. Veleni. Proprio Flego accuserà l'allora leader della Liga Veneta, Fabrizio Comencini, di essere andato a deporre davanti a Papalia, facendo scattare il blitz in via Bellerio.
Bossi inizia ad aver paura di infiltrati e di servizi segreti, un timore che non l'ha mai abbandonato: ha visto la manina degli 007 anche nell'inchiesta sui rimborsi elettorali che ha squassato la Lega e che ha coinvolto pure la sua famiglia.
Fatto sta che il Senatur braccato da Papalia rafforza la propria scorta personale - quella organizzata dalla Lega - fa bonificare i suoi uffici di continuo, si sente come il Braveheart di Gemonio e prende spunto dal film di Mel Gibson sulla Scozia indipendente. In pubblico e in privato, però, esclude che la lotta armata sia un' opzione.
Le indagini partite da Verona coinvolgono un gruppo di cui fanno parte Bossi, Maroni, Roberto Calderoli, Francesco Speroni, Giancarlo Pagliarini e Mario Borghezio. Ma si salvano grazie all'immunità parlamentare. Agli altri va peggio: il processo si trascina per anni, con una girandola infinita di udienze, interrogatori, avvocati. Incredibili le perquisizioni, con poveri cristi che vengono svegliati prima dell'alba: «Polizia, aprite!». Eppure non spuntano né armi né droga ma al massimo dei fazzoletti verdi, mentre il Senatur attacca pubblicamente Papalia. A Verona, in piazza Bra, il Carroccio gli organizza un finto funerale. E piovono insulti e manifestazioni contro il magistrato. Anche in Parlamento. Papalia non querela, «lo farò se quelli parleranno bene di me» sbotta in un' intervista al Corriere del Veneto, quindi indaga Flavio Tosi per una raccolta di firme contro un campo rom.
Si pensa a una svolta quando, nell'abitazione di un imputato di Varese, spunta una lista di nomi. «Eccoli! Sono gli eversori!» esulta l'accusa, ma poi si scopriranno essere i bambini iscritti al corso di catechismo che la «camicia verde» organizza in oratorio. Anzi, non è nemmeno una camicia verde, perché il tizio in questione si era rifiutato di farne parte, ma il suo nome spunta lo stesso nelle intercettazioni. Nel dubbio, finisce nel tritacarne. Il lieto fine, per i padani, è maturato anche grazie a una leggina - approvata col governo di centrodestra, Guardasigilli Roberto Castelli - che disinnesca l' ipotesi di reato. A settembre, come detto, arriva l'assoluzione definitiva dopo che il processo s'era trasferito da Verona a Bergamo. Assolti perché il fatto non costituisce reato, anche se ancora nel 2014 Papalia si dice «sicuro» delle accuse, nonostante i tempi biblici che lui stesso censura. È di questi giorni l' ultimo successo per gli imputati, difesi tra gli altri dagli avvocati Attilio Fontana (già sindaco leghista di Varese) e Patrizia Esposito: a fronte di un ventennio di tribolazioni, il magistrato Ettore Di Fazio ha calcolato in otto anni la durata eccessiva della giustizia (e quindi meritevole di risarcimento), considerando le sospensioni e altri rompicapi. Esulta Calderoli: «Lo Stato riconosce di aver sbagliato». Papalia è andato in pensione nel 2013. A 75 anni. Dopo una carrierona.
Nel febbraio 1997, al congresso leghista di Milano, le camicie verdi cantavano a Bossi: «Umberto/noi siamo/l' esercito padano». Qualcuno le aveva prese alle lettera.
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