A colloquio con il Prof. Marco Plutino: "La Campania? la più renziana d'Italia"
di Gaetano Daniele
Prof. Dott. Marco Plutino
Docente in Diritto Costituzionale Università di Cassino |
Professore, commenti
sul congressi Pd. Come è andata dalle nostre parti?
Dipende.
Da che dipende?
Esistono questioni locali, questioni nazionali e intrecci di
questioni locali e nazionali.
Benissimo, vorrei
parlare di Napoli e della sua area metropolitana. Da dove vogliamo partire?
Partiamo da un dato significativo. La Campania è la regione
più renziana d’Italia con il 77,5% dei voti degli iscritti. Tutto bene, no?
Me lo dica lei, so che
si è iscritto al Pd.
E’ vero, ho anche rappresentato la mozione Renzi-Martina al
congresso cittadino di Pozzuoli, ove risiedo. Ma la mia iscrizione è più che
altro un atto di testimonianza, nelle difficoltà del dopo 4 dicembre. Anche un impegno,
naturalmente, ma il mio voto vale davvero uno, non come quello di Beppe Grillo.
Per il resto leggo, analizzo e per quel po’ che posso, milito.
In una regione dove,
cito Polito di oggi sul CorrMez, il Pd è ridotto ad un “ammasso informe di
potentati locali e signori della guerra, privo di leadership e di una linea, da
non avere più le caratteristiche di un partito” e Renzi viene e se ne va senza
dire niente a nessuno.
L’analisi di Polito è spietata, non è la prima volta né è
l’unico a formulare giudizi così drastici. Tolto quel che vi è di offensivo in certe
metafore, però, coglie nel segno. Bisognerebbe chiedersi come mai Renzi prenda
il trolley e venga a Napoli senza che nessuno lo sappia nella regione con il Pd
più “renziano” d’Italia. Forse c’è un motivo, o forse no (magari sta facendo
così ovunque). Però la questione ci sarebbe, come direbbe Totò, a
prescindere.
Perché?
La Campania non è solo la regione che tributa la maggiore
percentuale a Renzi (il 77,5% n.d.r.) ma contribuisce anche con un numero di
iscritti importantissimo a livello nazionale (57 mila, n.d.r.). Che stride con
la realtà. Almeno con quella napoletana, di un Pd sotto il 10%. Scherzando si
potrebbe dire, pochi elettori, tutti iscritti. E renziani.
Quali conclusione
trarre?
Le conclusioni non sono mai semplici. Un rapporto più alto
tra iscritti ed elettori fa parte della storia dei partiti del mezzogiorno, è
un dato storico. Ha a che fase con la socializzazione politica di questo pezzo
d’Italia. In gran parte d’Italia i circoli Pd hanno molte decine di scritti o un
centinaio, al Sud diverse centinaia o un migliaio. La prima cosa è che i soldi
corrispettivi vengano versati, cosa non scontata. La seconda è che questi
iscritti si manifestino in qualche modo. Da questo punto di vista se votano al
congresso è un segno non necessariamente negativo, anzi. Diciamo che esiste un
certa coerenza generale del quadro. Più iscritti, più voti, e … più Renzi.
Esiste un problema di meridionalizzazione del partito, ma è un problema
nazionale. Semmai dal punto di vista locale la questione è un’altra.
Cioè?
Cioè il fatto che questo Pd napoletano almeno da anni non
tocca palla in città. Questi dati segnalano una anomalia. E qui si torna a
Polito e a chi parla di filiere di potere.
Tante, pare.
Certo, fino ad punto che i capicorrente – una decina di
personalità - disputano sui numeri, cioè rivendicano numeri incompatibili e si
contendono i delegati che, evidentemente, o rappresentano l’uno o l’altro. Ho
letto che il presidente della commissione di garanzia del congresso provinciale
di Napoli si è dimesso rifiutandosi di validare il verbale, visto che in
assemblea è stata portata una lista di più delegati di quanti non consenta il
regolamento. Ma considero importante che, a parte questo, tutto sia filato
liscio.
Già. Sullo sfondo già
si intravede il problema delle primarie.
Occhi aperti. Questa volta non si può sbagliare. Ma mi
interessa un altro tema per ora: quando si voterà, pare, ci sarà un’unica lista
di appoggio a Renzi. Se lo immagina? Come si conta un partito balcanizzato
abituato continuamente a contarsi?
Il lanciafiamme?
Non avrei usato quel termine, avrei fatto un ragionamento e
avrei cercato di realizzarlo. Senza Napoli le elezioni nazionali, già
difficili, partono in salita. Ma sono anni che la situazione è incancrenita. In
tanti dicevamo che Valeria Valente non sarebbe arrivata al ballottaggio. Il
partito è entrato da tempo in una spirale di veti incrociati che già avevano
fatto fallire due commissariati. Si era poi aperta un’autostrada a De Luca per
le divisioni dei napoletani. Bisogna ricostruire il partito, i rapporti con la
città e le sue realtà culturali e produttive, ridare senso ad una militanza che
oggi vive solo per votare al congresso e, spesso, neanche per il tempo di un
intervento.
Sembra facile.
Si può fare. Esistono molte persone di buona volontà e
capacità. La politica le respinge. Non si può dire loro: cimentatevi, fate le
tessere. In questo contesto non ha senso. Chi fa le tessere non va demonizzato,
ma far competere altri che sono portatori di una diversa idea della politica su
quel terreno non ha senso. Se lo facessero, in un certo senso, lo farebbero
pure peggio. Non è così che se ne esce. Bisogna decidere se tutto ruota attorno
alle tessere e ai soldi o se ci deve essere altro. Ricordiamoci che esiste un
voto d’opinione che il Pd napoletano non intercetta, se non in contesti
territoriali molto ristretti.
E come se ne esce?
Un commissariato lungo mi sembrerebbe inevitabile. Un altro
congresso in questo stato, inutile. Ma un commissario non può imporre una
soluzione e lasciare al buon cuore che gli altri la seguano. Il commissario è
tale se crea le condizioni di quadro, perché l’autoriforma non è possibile.
Occorre tempo e una nuova classe dirigente. Tutte le altre soluzioni vengono
alla prima occasione boicottate. Come è capitato ad una persona degnissima che
ne ha fatto le spese come Gino Cimmino.
Da cosa si riparte?
Negli anni scorsi si sono attivati elementi di dinamismo. Magari
insufficienti, ma non irrilevanti. Ci fu una sorta di Leopolda napoletana, poi
la Fonderia delle idee, quindi tanti comitati referendari spontanei e
disinteressati in occasione delle elezioni del 4 dicembre. Tutto questo è
avvenuto a latere e direi nell’indifferenza del partito. E bisogna richiamare uno
ad uno i quadri giovani, molti di talento, che si sono allontanati. Non ne
hanno più che neanche i numeri di telefono.
Ma nel partito
esisteranno oggi forze vive?
Certo, ci mancherebbe. I giovani democratici, tanti
segretari di circolo giovani, comunità di militanti disinteressati, bravi
amministratori. Ma l’ossatura del partito è fatta da eletti che si muovono se
c’è un vantaggio e, aggiungo, se strettamente necessario, perché mobilitare non
è più facile per nessuno. E’ stata una ragione non secondaria del tracollo del
No al referendum nel mezzogiorno. Il referendum è capitato tra un turno di
amministrative ed un altro. Mi sarei aspettato un Renzi più arrabbiato e,
quindi, conseguente, per questo aspetto, avendolo sperimentato sulla propria
pelle con un esito drammatico.
Riusciamo a chiudere
con un po’ di ottimismo.
Quello sempre. Il Pd è l’unico partito italiano e anche nei
nostri contesti è un lumicino nel buio. Ma non dobbiamo nasconderci la realtà. Senza
cambiamento non c’è Renzi. Se le vengono in mente i nomi di dieci renziani
della prima ora, vedrà non uno di questi nomi ricorre sulle cronache dell’oggi.
Una selezione ci può stare e nessuno vuole distinguere prime, seconde e terze
ore. Ma non uno: vorrò dire qualcosa. Quelli che c’erano prima di Renzi ci sono
oggi. Dirò una cosa spiacevole. Così il Sud è torna ad essere massa di manovra.
Può tornare utile per un congresso, ma quel potere poi non torna al Sud sotto
forma di cambiamento. Non è una novità. Già nel Pds e nei Ds accadde. La
Campania da troppo tempo non esprime più leader di statura nazionale e, direi,
classe dirigente. Qui torna l’intreccio tra questioni locali e nazionali e il
dato della meridionalizzazione del partito. E’ urgente prendere la questione di
petto, anche perché Renzi e Martina hanno promesso di occuparsi seriamente dei
problemi del partito.
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