Con il Parmigianino la Menarini ritrova le sue radici partenopee
di Maria Rita Montebelli
Da Sinistra: Ennio Troiano, Pier Luigi Leone de Castris e Alessandro Tosi |
60 anni di volumi d’arte e 120 anni di presenza in Italia sono i traguardi tagliati nel 2016 da Menarini. Che per la sessantesima monografia dei libri d’arte, testimonianza di una consolidata vocazione artistica, sceglie un artista dalla fama complessa, come Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino (1503-1540), maestro della ‘maniera moderna’. “Menarini ama l’arte - commenta Ennio Troiano, direttore HR Corporate del Gruppo Menarini - e per la presentazione del suo sessantesimo volume d’arte ha scelto Napoli, tornando così anche alle sue radici. Menarini nasce infatti a Napoli nel 1866 dalla Farmacia Internazionale, che preparava farmaci per tutti i migranti italiani in partenza per le Americhe, e che era stata aperta dal bolognese Archimede Menarini in via Calabritto. Poi la sede fu spostata a Firenze, dove siamo oggi una multinazionale attiva in oltre 130 Paesi al mondo, impegnata nella ricerca, prevalentemente in ambito oncologico, e con la concreta speranza di offrire nuove cure per patologie ancora irrisolte. L’arte e la bellezza italiana accompagnano da sempre Menarini, che cura con particolare attenzione la propria collana di volumi d’arte da 60 anni. Quest’anno abbiamo deciso di coniugare la presentazione del volume dedicato al Parmigianino alla visita a Capodimonte, che custodisce una eccezionale testimonianza del suo genio artistico. Un modo per tornare a Napoli ed alle nostre origini”.
Per la presentazione dello splendido volume dedicato al Parmigianino la scelta è dunque caduta su Napoli, la città di Dio come la chiamava il drammaturgo francese Jean Cocteau, in antitesi e quasi ‘dispetto’ a Roma, la città dei papi. E le ragioni sono ben due. La prima è che la storia delle collezioni Farnese, dicotomizzate in epoca moderna tra la pinacoteca del Museo di Capodimonte e la superba collezione di arte antica del Museo Archeologico (Mann) di Napoli, è legata a filo doppio con la storia del ducato di Parma e Piacenza. La seconda è che a Capodimonte si conservano ben 4 meravigliose opere del Parmigianino, tre delle quali (l’Antea, il ritratto di Galeazzo Sanvitale, Sacra Famiglia con San Giovannino) illustrate dal professor Alessando Tosi nella monografia Menarini dedicata all’autore (edizioni Pacini). E queste 4 opere (la quarta, che per qualche ragione non trova spazio nella monografia, è la Lucrezia Romana) fanno parte dei 28 dipinti delle cosiddette collezioni farnesiane (il cui primo nucleo si deve a papa Paolo III, Alessandro Farnese) trasferite dal ducato di Parma e Piacenza a Napoli, nel 1734 da Carlo di Borbone (figlio di Elisabetta, ultima discendente dei Farnese) nel ‘suo’ museo di Capodimonte. “Sono incontri che non si possono dimenticare – asserisce Tosi – quelli con le opere del Parmigiano, siano esse quadri, disegni o incisioni”.
Dopo essersi ispirato e abbeverato allo stile puro e sovrano del Correggio, nella Parma del ‘500, il Parmigianino approda nella Roma di Raffaello, in un incontro che plasma il suo linguaggio, fatto anche di pazzia magica e magnetica. Un autore difficile, anche nelle attribuzioni, controverso e dalla storia personale poco leggibile, che culmina in un furore alchemico, per spegnersi a soli 37 anni. Poco noto al grande pubblico fino all’inizio di questo secolo, la sua fama ha subito un’accelerazione a partire dalla mostra del 2003, divisa tra Parma e Vienna, per approdare poi alla mostra allestita presso le Scuderie del Quirinale a Roma lo scorso anno, in un incredibile turbinio di pubblicazioni (sono addirittura 45 le monografie a lui dedicate dall’inizio degli anni 2000). Un dandy contemporaneo che - secondo una boutade dello Sgarbi - mutatis mutandis potrebbe ambire a rappresentare l’emblema del gay pride, oltre a diventare un mito di massa come il Caravaggio. Ma Parmigianino, pittore, suonatore di liuto e da ultimo alchimista è ben più che questo e per apprezzarlo appieno - scrive il Tosi - bisognerebbe essere un poeta, o uno scienziato o un medico, o un farmacista. O ancora un musicista, un maestro di liuto (strumento che Francesco padroneggiava realmente) un filosofo, un letterato o uno studioso di testi religiosi. Perché la sua arte, la sua ‘maniera moderna’, è ineffabile e inafferrabile proprio come le eleganti e curatissime mani inanellate dei suoi soggetti che sembrano appena sfiorare, senza mai toccare, gli oggetti.
Bellissime quelle di Galeazzo Sanvitale che con la mano guantata esibisce misterioso una moneta col numero 72, probabile riferimento cabalistico di Dio, mentre le sue vesti di alta sartoria italiana dialogano col bagliore da flash stampato su un’armatura e con una natura rigogliosa di fronde e fogliame maestoso che prorompe dalla finestra alle sue spalle. Sublimi nella loro nonchalance anche quelle dell’Antea che ti guarda fissa negli occhi, facendosi perdonare la deforme torsione del corpo, appesantito da abiti sontuosi e congelato in una posa innaturale, di ‘maniera’. Una bellezza algida che si declama attraverso i dettagli della raffinata acconciatura, dei gioielli preziosi ma delicati, delle vesti dai bagliori dorati, con la pelle di martora, adagiata sulla spalla, che sembra voler mordere la mano guantata. “Il Parmigianino - ricorda il professor Pierluigi Leone de Castris, ordinario di storia dell'arte moderna Università Suor Orsola Benincasa, Napoli - è uno dei più grandi esponenti della ‘maniera moderna’; le figure non devono necessariamente esprimere bellezza, ma grazia, attraverso la torsione del busto, del corpo. Sono intrecci di braccia, di gambe, di mani, in una ricerca sofisticata e intellettuale del movimento. Il volume - prosegue de Castris - anche grazie alle sue splendide foto e alla sua impeccabile veste editoriale, aiuterà senz'altro ad avvicinare il grande pubblico alla figura di Parmigianino. L'idea poi di presentare il volume stesso a Napoli, oltre a ricordare felicemente le origini della Menarini, consente di legare l'iniziativa allo straordinario nucleo di opere del pittore presenti nel Museo di Capodimonte, che ne rappresenta una sorta di efficace sintesi quasi monografica, dal felice esito giovanile del Galeazzo Sanvitale ai dipinti della maturità fra Roma e l'Emilia, come la Sacra Famiglia e l'Antea, e al prezioso manierismo della Lucrezia, ultimo quadro del pittore”.
Una fama ‘smarrita’ per anni quella di Parmigianino, a causa del suo spirito inquieto e della follia alchemica che lo travolge nei suoi ultimi anni, fino a farlo uscire di senno. “E avesse voluto Dio - scrive il Vasari - ch’egli avesse seguitato gli studi della pittura, e non fosse andato dietro ai ghiribizzi di congelare mercurio per farsi più ricco di quello che l’aveva dotato la natura e il cielo!” Fama che adesso Menarini, con la sua preziosa monografia, ha contribuito a riportare, come merita, sotto la luce dei riflettori. “Con questo volume abbiamo scoperto un artista straordinario - conclude Lucia Aleotti, presidente del Gruppo Menarini - che ha arricchito la nostra preziosa collana di volumi d’arte che abbiamo iniziato nel 1956 e che comprende artisti da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Bronzino a Tiziano”.
Per la presentazione dello splendido volume dedicato al Parmigianino la scelta è dunque caduta su Napoli, la città di Dio come la chiamava il drammaturgo francese Jean Cocteau, in antitesi e quasi ‘dispetto’ a Roma, la città dei papi. E le ragioni sono ben due. La prima è che la storia delle collezioni Farnese, dicotomizzate in epoca moderna tra la pinacoteca del Museo di Capodimonte e la superba collezione di arte antica del Museo Archeologico (Mann) di Napoli, è legata a filo doppio con la storia del ducato di Parma e Piacenza. La seconda è che a Capodimonte si conservano ben 4 meravigliose opere del Parmigianino, tre delle quali (l’Antea, il ritratto di Galeazzo Sanvitale, Sacra Famiglia con San Giovannino) illustrate dal professor Alessando Tosi nella monografia Menarini dedicata all’autore (edizioni Pacini). E queste 4 opere (la quarta, che per qualche ragione non trova spazio nella monografia, è la Lucrezia Romana) fanno parte dei 28 dipinti delle cosiddette collezioni farnesiane (il cui primo nucleo si deve a papa Paolo III, Alessandro Farnese) trasferite dal ducato di Parma e Piacenza a Napoli, nel 1734 da Carlo di Borbone (figlio di Elisabetta, ultima discendente dei Farnese) nel ‘suo’ museo di Capodimonte. “Sono incontri che non si possono dimenticare – asserisce Tosi – quelli con le opere del Parmigiano, siano esse quadri, disegni o incisioni”.
Dopo essersi ispirato e abbeverato allo stile puro e sovrano del Correggio, nella Parma del ‘500, il Parmigianino approda nella Roma di Raffaello, in un incontro che plasma il suo linguaggio, fatto anche di pazzia magica e magnetica. Un autore difficile, anche nelle attribuzioni, controverso e dalla storia personale poco leggibile, che culmina in un furore alchemico, per spegnersi a soli 37 anni. Poco noto al grande pubblico fino all’inizio di questo secolo, la sua fama ha subito un’accelerazione a partire dalla mostra del 2003, divisa tra Parma e Vienna, per approdare poi alla mostra allestita presso le Scuderie del Quirinale a Roma lo scorso anno, in un incredibile turbinio di pubblicazioni (sono addirittura 45 le monografie a lui dedicate dall’inizio degli anni 2000). Un dandy contemporaneo che - secondo una boutade dello Sgarbi - mutatis mutandis potrebbe ambire a rappresentare l’emblema del gay pride, oltre a diventare un mito di massa come il Caravaggio. Ma Parmigianino, pittore, suonatore di liuto e da ultimo alchimista è ben più che questo e per apprezzarlo appieno - scrive il Tosi - bisognerebbe essere un poeta, o uno scienziato o un medico, o un farmacista. O ancora un musicista, un maestro di liuto (strumento che Francesco padroneggiava realmente) un filosofo, un letterato o uno studioso di testi religiosi. Perché la sua arte, la sua ‘maniera moderna’, è ineffabile e inafferrabile proprio come le eleganti e curatissime mani inanellate dei suoi soggetti che sembrano appena sfiorare, senza mai toccare, gli oggetti.
Bellissime quelle di Galeazzo Sanvitale che con la mano guantata esibisce misterioso una moneta col numero 72, probabile riferimento cabalistico di Dio, mentre le sue vesti di alta sartoria italiana dialogano col bagliore da flash stampato su un’armatura e con una natura rigogliosa di fronde e fogliame maestoso che prorompe dalla finestra alle sue spalle. Sublimi nella loro nonchalance anche quelle dell’Antea che ti guarda fissa negli occhi, facendosi perdonare la deforme torsione del corpo, appesantito da abiti sontuosi e congelato in una posa innaturale, di ‘maniera’. Una bellezza algida che si declama attraverso i dettagli della raffinata acconciatura, dei gioielli preziosi ma delicati, delle vesti dai bagliori dorati, con la pelle di martora, adagiata sulla spalla, che sembra voler mordere la mano guantata. “Il Parmigianino - ricorda il professor Pierluigi Leone de Castris, ordinario di storia dell'arte moderna Università Suor Orsola Benincasa, Napoli - è uno dei più grandi esponenti della ‘maniera moderna’; le figure non devono necessariamente esprimere bellezza, ma grazia, attraverso la torsione del busto, del corpo. Sono intrecci di braccia, di gambe, di mani, in una ricerca sofisticata e intellettuale del movimento. Il volume - prosegue de Castris - anche grazie alle sue splendide foto e alla sua impeccabile veste editoriale, aiuterà senz'altro ad avvicinare il grande pubblico alla figura di Parmigianino. L'idea poi di presentare il volume stesso a Napoli, oltre a ricordare felicemente le origini della Menarini, consente di legare l'iniziativa allo straordinario nucleo di opere del pittore presenti nel Museo di Capodimonte, che ne rappresenta una sorta di efficace sintesi quasi monografica, dal felice esito giovanile del Galeazzo Sanvitale ai dipinti della maturità fra Roma e l'Emilia, come la Sacra Famiglia e l'Antea, e al prezioso manierismo della Lucrezia, ultimo quadro del pittore”.
Una fama ‘smarrita’ per anni quella di Parmigianino, a causa del suo spirito inquieto e della follia alchemica che lo travolge nei suoi ultimi anni, fino a farlo uscire di senno. “E avesse voluto Dio - scrive il Vasari - ch’egli avesse seguitato gli studi della pittura, e non fosse andato dietro ai ghiribizzi di congelare mercurio per farsi più ricco di quello che l’aveva dotato la natura e il cielo!” Fama che adesso Menarini, con la sua preziosa monografia, ha contribuito a riportare, come merita, sotto la luce dei riflettori. “Con questo volume abbiamo scoperto un artista straordinario - conclude Lucia Aleotti, presidente del Gruppo Menarini - che ha arricchito la nostra preziosa collana di volumi d’arte che abbiamo iniziato nel 1956 e che comprende artisti da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Bronzino a Tiziano”.
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