Augusto Minzolini: "Ho toccato Giorgio Napolitano, ora rischio la galera"
Intervista a cura di Giancarlo Perna
Dopo la sentenza di Cassazione di una settimana fa, Augusto Minzolini si è definitivamente beccato due anni e mezzo, come un brigante incallito. La condanna è per peculato, il "furto" del pubblico ufficiale e tale era il Minzolini direttore del Tg1. Poiché il predetto - direbbe un cancelliere - è un illustre giornalista, la condanna è singolare. Come l’intera vicenda.
Riassumo. Minzolini fu nominato direttore del Tg1 nel giugno 2009 con la spinta del Cav, allora premier. La Rai gli dette, com’è prassi, la carta di credito aziendale. In diciotto mesi, spese 65 mila euro che giustificò con le ricevute di pranzi e simili. L’amministrazione, per un anno e mezzo, non ebbe nulla da ridire. Poi, tra i meandri Rai, cominciarono a serpeggiare pettegolezzi. Alle polemiche giornalistiche si aggiunsero quelle amministrative che puntarono sulle spese sostenute dal futuro pregiudicato. Gli si contestò che non avesse indicato negli scontrini i nomi degli invitati ai pranzi di lavoro. Dai mormorii si passò alle carte bollate. Intervennero la Corte dei Conti, il giudice del lavoro, le procure, le sentenze contraddittorie -di assoluzione e di condanna- fino alla pietra tombale della Cassazione.
Le cose adesso stanno così. Minzolini, che nel frattempo è stato eletto senatore di Fi (2013), è condannato a due anni e sei mesi, pena così elevata da fare scattare la Legge Severino. Ergo, se il Senato deciderà di applicarla - come ha già fatto nell’unico precedente, quello del Berlusca - il Minzo perde lo scudo dell’immunità e va in galera. Oppure ai domiciliari o finirà, se gli va bene, ai servizi sociali. Perde inoltre l’indennità senatoria e anche il futuro vitalizio perché non potrà concludere la legislatura. Infine, essendogli stata appioppata l’interdizione ai pubblici uffici sfuma pure il suo posto in Rai dove era in aspettativa e resta senza lavoro. Nudo alla meta.
Con l’idea di vederci chiaro, incontro Minzolini nel suo ufficietto di senatore. Esordisce, adrenalinico come sempre: «Se potessi scusarmi mi sentirei meglio. Il pentimento sarebbe rigenerativo. Ma non ho nulla di cui pentirmi. Sono a posto con la mia coscienza. Ti parlerò solo dei fatti. Non voglio dare giudizi».
Hai imbrogliato?
«Dovresti conoscermi. Ho usato la carta di credito solo per pranzi di lavoro. Di colpo, mi hanno contestato di non avere detto i nomi degli invitati. Clemente Mimun, mio predecessore al Tg1, ha testimoniato che nessun direttore lo aveva mai fatto».
Hai fatto spese assurde?
«I mutandoni verdi? No. Se da direttore sono legittimato a spendere centomila euro per avere un’intervista, non vedo lo scandalo di pagare 150 euro per un pranzo con informatori. Un mio predecessore mise in conto una gita a cavallo in Sicilia senza problemi».
So che avevi restituito i 65 mila euro alla Rai.
«Quando montarono le polemiche, per tagliare la testa al toro e prima di ogni avviso di garanzia, dissi: “Vi restituisco i 65 mila euro con riserva e mi rivolgerò al giudice del lavoro”. Pagai con due assegni».
E il giudice del lavoro?
«Disse che avevo usato legittimamente la carta di credito e ordinò alla Rai di restituirmi i soldi».
A quel punto la faccenda era chiusa. Non capisco il seguito.
«Siamo in Italia. Il giudice penale agì egualmente perchè c’era stato in precedenza un esposto di Antonio Di Pietro in base a carte uscite per vie traverse dalla Rai. Il solito tranello».
Al processo però ti assolvono.
«I giudici di primo grado erano tre giovani, post-ideologici che fecero con puntiglio l’istruttoria, ascoltando i testi e me. Cosa non più avvenuta negli altri gradi di giudizio. Testimoniò imbarazzato il direttore generale Rai dicendo di non avere dubbi sulla mia buona fede. Il pm chiese due anni. Fui assolto perché il fatto non costituisce reato».
Era il 14 febbraio 2013. Nell’ottobre del 2014, il giudice d’Appello ti condannò a due anni e mezzo. Che successe nel frattempo che spieghi il ribaltone?
«Ero entrato in politica, diventando senatore di Fi. In questa veste ho puntato il dito su Giorgio Napolitano. Per le ambiguità nell’avvicendamento tra Berlusconi e Monti. Perché, in una Repubblica fondata sulle intercettazioni, la sola cancellata è stata la sua nella vicenda Stato-Mafia. Infine, ho votato contro la riforma del Senato da lui appoggiata».
Non vedo l’incidenza. Resta che ti hanno fatto il pacco.
«Il Pm, come in primo grado, chiese due anni. Il collegio, invece, aggiunse altri sei mesi per fare scattare la Severino e cacciarmi dalla politica, appioppandomi pure l’interdizione dai pubblici uffici che mi espelle dalla Rai. Questo, mentre il giudice del lavoro mi aveva nel frattempo dato ragione».
Membro del collegio, Giannicola Sinisi, già deputato dell’Ulivo, tornato in toga dopo dodici anni in Parlamento (1996-2008). Gli avevi fatto sgarbi da cronista politico?
«Non saprei. Se dovessi ragionare sugli sgarbi, starei fresco. Erano i tempi dei ribaltoni: del Cav nel ’94 e di Prodi nel ’98 nel 2008. Anni difficili».
Meraviglia che i tuoi difensori non abbiano ricusato un ex politico avverso alla tua parte.
«Avevo fiducia nella magistratura e non ci ho pensato. Solo riflettendo sull’accanimento, ho fatto una ricerca poco prima della sentenza di Cassazione e mi sono accorto di Sinisi nel collegio di Appello. I miei legali sono rimasti basiti».
Ora che farai?
«Mi appellerò alla Corte europea perché i giudici non hanno rispettato un suo principio: se si ribalta una sentenza assolutoria, si deve rinnovare l’istruttoria riascoltando testi e imputati. Nulla di tutto ciò è avvenuto».
Intendevo: che farai tra minaccia del carcere e disoccupazione a 57 anni?
«Non lo so. So solo questo: o vivi e rischi o metti la testa nella sabbia. Se vuoi vivere il tuo tempo, azzardi. L’ho fatto da giornalista e da politico. La nostra, per dirla con Eugenio Scalfari, è una Democratura. Una dittatura truccata da democrazia».
Perché dici questo?
«Mi chiedo se, partendo dal tipo di accusa, ci si possa trovare a terra come me. Ho avuto solo due mesi meno di chi ha patteggiato per milioni nel caso Mose».
Galan, tanto per non a fare nomi.
«Già. Per non parlare degli scontrini secretati del premier e dei mille altri due pesi e due misure».
Ripenso a Sinisi. Nel ’96, era sottosegretario di Prodi al Viminale quando ministro era Giorgio Napolitano, il tuo ultimo bersaglio. Che ci sia connessione?
«Non voglio fare questo tipo di valutazioni. Nemmeno dire che quella d’Appello sia stata una sentenza politica. Certo ha avuto conseguenze politiche, annullando il voto dei miei elettori».
Inquieta che un giudice che ha fatto politica possa indossare di nuovo la toga.
«Parliamo di persona che è stata più in politica che in magistratura: dieci anni nei tribunali, tre sindaco di Andria, dodici in Parlamento, incarichi all’estero».
Più che magistrati politicizzati, politici magistraturizzati.
«Appunto».
Però, la Cassazione ha confermato. Che tu sappia, ci sono state, come per il Cav, rotazioni sospette?
«Sapevo dai miei difensori che era stato designato un presidente ma all’ultimo è stato cambiato, mantenendo lo stesso collegio. Questo ha suscitato interrogativi nei miei legali».
Mi dispiace Augusto. Ti considero un giornalista integro, non ti vedo come peculatore.
«Non mi ci sento. Un mascalzone si prepara e calcola il rischio. Io, non essendolo, non mi sono messo al riparo dal rischio. E ora lo corro grosso».
È ancora in ballo il processo di abuso d’ufficio per la conduttrice, Tiziana Ferrario. Il pm ha chiesto per te quattro mesi.
«Ho assunto diciotto precari e rifatto l’immagine del Tg1. Tiziana conduceva da lustri. L’ho tolta e offerto il grado di caporedattore effettivo. Oggi, è a New York come corrispondente. Di che demensionamento parliamo? Chi rottama è in auge e chi rinnova va in galera?».
Torneresti al Tg1?
«Mai. Non puoi fare il direttore. Puoi solo tagliare nastri».
Come stai a soldi dopo le spese legali?
«Non me ne parlare».
Anche il tuo partito ha votato la Severino...
«Non è il solo errore: ha appoggiato Monti, votato il Fiscal compact, la Severino, la riconferma di Napolitano, le riforme istituzionali».
Ti converrà schierarti con Renzi che della Severino si fa un baffo.
«Gli unici e esserci incappati siamo Berlusconi e io. Quelli del Pd - De Magistris e De Luca - l’hanno scampata».
Polemizzi?
«Constato».
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