La protesta degli «indignati» riporta nuovamente all'attenzione il tema spinoso della condizione giovanile. Mancanza di opportunità, disoccupazione, precarietà, bassi redditi e poco welfare: i problemi sono noti da tempo, la crisi li sta aggravando ma le risposte della politica tardano ad arrivare. Un confronto con i giovani indignati (e non solo loro) deve proporre un'agenda e individuare le risorse.
Il mercato del lavoro, innanzitutto. Qui è urgentissimo cambiare finalmente le regole contrattuali per facilitare la transizione scuola-lavoro e per la stabilizzazione dei precari. Altrettanto importante è investire nella scuola. Fra il 2007 e il 2010 la disoccupazione è cresciuta moltissimo (più di otto punti percentuali) fra i giovani con bassi livelli di istruzione. Buona scuola, che porta a una buona occupazione, che porta a una buona pensione: questo è il circolo virtuoso che dobbiamo attivare.Serve anche più welfare: sostegni per chi esce dalla casa dei genitori, assegni per i figli e servizi per la prima infanzia, ammortizzatori sociali calibrati sui lavori dei giovani. Dobbiamo uscire dal «pensionismo» e chiedere prestazioni migliori per le fasi della vita che precedono il ritiro dal lavoro: su questo versante siamo molto lontani dagli standard europei. Ma le risorse? Gli indignati rivolgono i propri strali contro banche e finanza e c'è molta rabbia nei confronti della politica, della sua indisponibilità a farsi più sobria.Tagliare i costi della politica (personale, stipendi, rendite, uffici) è doveroso. Per finanziare adeguatamente le riforme occorre però agire su due altri fronti. Il recupero dell'evasione, innanzitutto: rapido, severo, senza sconti o condoni. Non solo per «fare cassa» ma anche per fornire ai cittadini un metro condiviso ed affidabile sul dare e l'avere nei loro rapporti con lo Stato. E per sradicare quell'alibi che scatta automaticamente di fronte ad ogni tentativo di razionalizzazione distributiva: «È ingiusto togliere a quelli come me perché ci sono tantissimi evasori».
Fra le tante sfide sul tappeto conviene partire da quella del welfare: qui c'è infatti una novità che merita attenta riflessione. Sappiamo che una delle maggiori preoccupazioni dei nostri giovani è il rischio di avere pensioni da fame. Ebbene, la novità è che forse queste preoccupazioni sono esagerate: stiamo guardando nella direzione sbagliata. Uno studio di Stefano Patriarca (già illustrato sul Corriere del 9 ottobre da Enrico Marro) indica che le pensioni dei figli non saranno tanto più basse di quelle dei loro padri. Nel 2046 un lavoratore con quarant'anni di contributi avrà diritto a una prestazione netta pari a circa il 78% della retribuzione. Nell'ipotesi più nera (40 anni di lavoro parasubordinato) la percentuale sarebbe, è vero, più bassa: circa il 62%. Ma qual è il livello «adeguato» di una pensione? Altri Paesi Ue considerano il 62% una percentuale più che adeguata: Germania, Regno Unito e Svezia pagheranno anzi in futuro pensioni molto più modeste.
CRS
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