Filippo Facci: valanga virtuale e cattiveria umana hanno travolto la vita di Tiziana Cantone
di Filippo Facci
Tiziana Cantone, allora 29enne, nel tardo aprile 2015 vive a Casalnuovo di Napoli, nell'hinterland napoletano. È di buona famiglia - l'espressione ha ancora un senso, lì - e ha la postura "aggressive" di moltissime ragazze come lei: alta, magra ma non troppo, occhi intensi e cerchiati di trucco, sopracciglia ridisegnate, nasino forse rimodellato, labbra fillerate, rossetti lucidi, look scuro o zebrato o maculato, un po' pantera ma non volgare, una donna che vuole piacere agli uomini e non ha problemi a riuscirci. Ha una specie di fidanzato, ma - non è chiaro se sia per qualche ripicca - sta di fatto che decide di fare sesso con altri, anche con due alla volta; e non si oppone a che il fidanzato, nel mentre, venga sfottuto con tanto di corna immortalate in sei diversi video. È lei a definirlo per prima «cornuto» e a dire «stai facendo un video? Bravo», cioè la frase tormentone che la ucciderà. Poi non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l'espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video, uno dei quali, peraltro, è ambientato per strada. Ma pare che a diffonderli sia stata anche lei, benché a non più di cinque persone. A riceverli sono dapprima due fratelli che vivono in Romagna, poi un utente di Facebook di cui è noto solo il "nickname" e, ancora, un terzo soggetto maschile.
Pochi giorni dopo c'è il salto di qualità: è il 25 aprile 2015 quando un primo video finisce su un portale hard, in attesa degli altri. Il 30 aprile il video è già popolarissimo soprattutto nel napoletano, ma è solo l'inizio.
La diffusione diventa capillare, dapprima, tramite whatsapp (altri social network non consentono la diffusione di roba porno) e a contribuire al successo c'è che lei è riconoscibile con nome e cognome, spesso compare nel titolo, si vede bene in volto: ma a spopolare è in particolare quello che in gergo si chiama "meme", ossia la frase di lei «stai facendo un video? Bravo». Che sta succedendo?
Qualcuno parla di "revenge porn", categoria dei video hard messi in rete come vendetta contro un ex partner; altri, vista l'apparente disinvoltura e lo straordinario successo di tutta l'operazione, ipotizzano l'efficace piano di marketing di una futura pornostar. In realtà, per capire che sta succedendo, più che un processo alla rete servirebbe un processo alla natura umana, alle dinamiche di massa, alla mostrificazione di cui milioni di internauti si rendono capaci soprattutto quando scagliare il sasso è facilissimo e la mano è ben nascosta dietro una tastiera. Niente di molto diverso, forse, dal sangue invocato nelle arene, dalle pietre scagliate durante una lapidazione, da un compiaciuto linciaggio del Far West: un meccanismo che peraltro è anche ipocrita descrivere o denunciare, ora, perché neutralizzarlo a dovere implicherebbe non scrivere questo articolo, non fare nomi, non dettagliare le vicende, dunque non entrare - come questo scritto farà, nel suo piccolo - nel centrifugatore di Google o di Facebook, nell'automatismo per cui anche i più seriosi quotidiani scaraventano in rete video voyeuristici sulla base dei "click" che probabilmente faranno. Tiziana Cantone, per una dolosa ingenuità d'origine, entrò così in un inferno senza ritorno e che neppure la morte in queste ore potrà fermare. Nel maggio successivo, sempre 2015, la sua vita pubblica e privata diventa un videogioco al pari delle sue amicizie, del suo passato, dei dettagli più intimi, cose vere o false, non importa. Diventa l'icona di pagine Facebook, vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze, gadget: qualche cronista si scatena alla ricerca del fidanzato cornuto, il "meme" tra Tiziana e il suo amante compare nel video della canzoncina "Fuori c'è il sole" di Lorenzo Fragola (20 milioni di visualizzazioni) e la presenza dei video di Tiziana non è neppure più necessaria. In ogni caso i video puoi trovarli direttamente su qualche sito porno. Anche i quotidiani online danno conto del fenomeno esploso intorno al suo nome. Che sta succedendo?
Niente, tutto: è qui che il confine tra fenomeno di costume e cronaca giudiziaria si fa impalpabile, è qui che, per ritrovarlo, serve al minimo un'impiccagione, un suicidio. I tempi precisi di tutta la storia, da quel maggio in poi, hanno scarsa importanza. Il punto è che Tiziana non può letteralmente più uscire di casa, e, quando lo farà, sarà per scappare. Non può lavorare neppure nel locale di cui i genitori sono titolari. Lascia il napoletano e passa qualche mese in Toscana lontano perlomeno da conoscenti e amici, gente in grado di associarla immediatamente a quel video. Va in depressione e dintorni, ovvio.
Qualche crisi di panico. Ottiene di poter cambiare il cognome. La prima denuncia dei suoi legali parla anche di un primo tentativo di suicidio: non è chiaro se prima o dopo la decisione di tornare a vivere nel napoletano in un' altra cittadina, Mugnano, da una zia, neanche lontano da dove stava prima. Va detto che, dal punto di vista giudiziario, ha fatto quello che ha potuto. Ormai devastata, si mette nelle mani della civilista Roberta Foglia Manzillo e chiede una serie di provvedimenti "d'urgenza", i quali, ovviamente, cozzano contro i tempi della giustizia italiana.
La denuncia è rivolta sia ai primi diffusori materiali dei video - quelli che hanno oltrepassato un passaggio one-to-one, e che, cioè, li hanno messi sui social network - e sia, in un secondo momento, contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti sono infiniti: tra questi Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas. Comunque il tribunale di Napoli Nord le dà ragione - un sacco di tempo dopo - e, con un provvedimento "ex articolo 700", riconosce la lesione del diritto alla privacy e contesta ai social di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma a complicare le cose - e qui si capisce perché internet è un inferno - c'è che molti social network, per esempio Facebook, non contenevano i video: contenevano solo il loro cascame, il prodotto ormai deformato che avevano originato. A ogni modo, le pagine vengono eliminate, e così i post, i commenti, tutto. I social network pagheranno le spese legali - si legge - ma Tiziana dovrà pagare 3.645 euro a carico di quei social network che le varie pagine, intanto, le avevano già rimosse. Senza farla lunga: i dare e gli avere alla fine si sono equivalsi.
Ma non è finita. Il diritto all'oblio le è stato negato: «Presupposto fondamentale perché l'interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all'oblio - si legge ancora, - è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo». Siamo al paradosso definitivo. Abbiamo i tempi di internet, che in 24 ore possono distruggere una persona. Abbiamo i tempi della giustizia italiana, che per metterci un'inutile pezza impiegano un anno e mezzo. E abbiamo, in aggiunta, i tempi del diritto all'oblio, secondo i quali un anno e mezzo non basta per non figurare come una zoccola sul web. Perché c'è ancora l'attualità della "notizia". Non è finita ancora. Mentre i più seriosi quotidiani non hanno riportato la sentenza - neanche quelli che contribuirono allo sputtanamento - il paradosso è che in rete qualcosa è ricircolato, e la storia ha ripreso vigore. Non sapremo mai se il suicidio, di poco successivo, sia collegato a questo. Ma, a proposito di tempi, è dopo di questo che Tiziana è scesa nello scantinato e si è impiccata con un foulard. Ci consoleremo con un fondamentale fascicolo della Procura di Napoli per istigazione al suicidio: imputata, presumiamo, tutta la cattiveria umana.