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lunedì 18 aprile 2016

Marchionne scatena un altro terremoto: "Chi arriva in Formula 1" (non è l'Alfa)

Marchionne scatena un altro terremoto: "Chi arriva in Formula 1" (non è l'Alfa)



Dopo il Gp di Cina, col tentato suicidio al via di Sebasitan Vettel e Kimi Raikkonen (che poi hanno raddrizzato una gara che avrebbe potuto essere ben più gloriosa), parla il presidentissimo Ferrari, mister Sergio Marchionne. "Che dire...una cosa molto non Ferrari...imbarazzante. Erano molto più imbarazzati di me", ha affermato sui piloti. Comunque, il manager, si è mostrato insolitamente conciliante: "È stata una svista, credo, che sfortunatamente ci è costata un bel po' durante la gara. Detto questo, quello che ha fatto Vettel, e anche Raikkonen contro Hamilton, alla fine è stato un capolavoro".

Ma dopo le considerazione sul Cavallino, Marchionne cambia target e obiettivi. Nel mirino ci finisce, ancora, il padre-padrone del circus, Bernie Ecclestone: "È molto bravo nelle trattative ma prima o poi tutti dobbiamo andare in pensione - afferma sibillino -. E quando sarà, dovremo ripensare tutto, costruire una F1 più solida. Con una vera struttura". E il candidato per la rifondazione, va da sé, è lui. Ma è quando si parla dell'arrivo di nuovi competitor in Formula 1 che all'uomo in pullover sfugge una frase interessante: "Mi auguro che arrivino. Audi? Sarebbe perfetta". Insomma, nel circus potrebbero arrivare altri tedeschi. E quando gli ricordano che i tedeschi, si pensi alla Mercedes, sono bravi a fare auto, Marchionne risponde così: "La Ferrari il proprio mito l'ha costruito confrontandosi con i migliori. Battere la Manor non serve a costruire nessun mito".

Infine, si parla di Alfa Romeo. Gli si chiede se quella del ritorno della scuderia in F1 fosse una boutade, e lui risponde: "No. È un progetto vero. Ma prima dobbiamo farci qualche soldo, con l'Alfa, poi proveremo ad entrare. Cavolo, abbiamo più titoli noi con quel marchio lì di molta altra gente che sta qua".

Salvini rivela quello sfregio subìto: "Ecco cosa mi combina Berlusconi"

Salvini rivela lo sfregio subito: "Ecco cosa mi fa Silvio Berlusconi"



A meno di due mesi dalle elezioni, Matteo Salvini ribadisce di non sapere "cosa faranno gli altri partiti", ma per lui una cosa è certa, dice in una intervista al Messaggero: "Irene Pivetti sarà capolista e dopo di lei ci saranno altri nomi importanti. Saranno delle belle liste e saranno in appoggio al candidato sindaco Giorgia Meloni". Punto. Sull'ipotesi di un appoggio del centrodestra ad Alfio Marchini non vuole nemmeno parlare. Sarà per questo forse che con Silvio Berlusconi "è un po' di tempo che non ci sentiamo. E non mi risulta che siano previsti incontri nei prossimi giorni con il Cavaliere". Non che il leader della Lega non voglia vedere il Cavaliere: "L'esatto contrario. Io mi sono reso disponibile, anche recentemente, ma non posso certo autoinvitarmi a casa altrui se la mia presenza non è gradita".

Secondo Salvini in questo momento "vincere significa una sola cosa", che "anche altri decidano di puntare su Giorgia Meloni. La quale a detta di tutti, ma proprio tutti i sondaggi, è di gran lunga quella che nell'area del centrodestra raccoglie più consensi". Non solo: "A un mese e mezzo dalle elezioni nessuno ha ancora parlato di programmi solo per stare dietro a queste beghe. Adesso basta: noi partiamo con la raccolta firme e cominciamo a parlare coi romani dei problemi della loro città. E' l'unica cosa che conta. Il passato è passato".

VOLANO INSULTI NEL PD Caos dopo il referendum: parole grosse, chi si scanna

Il referendum fallisce, il Pd anche. Volano gli insulti: ecco chi si scanna


di Fausto Carioti


Due opposizioni da reinventare. Anzi tre, contando pure la Cosa rossa che potrebbe (avrebbe potuto?) coagularsi attorno al corpaccione del governatore pugliese Michele Emiliano, almeno sino a ieri aspirante rivale di Matteo Renzi alla leadership del Pd. Alla fine ha votato un terzo degli elettori, ben meno del quorum del 50% richiesto dalla Costituzione per rendere valido il risultato. Eppure sulla carta i rivali di Renzi avevano i numeri per metterlo alle corde. A favore del referendum si erano pronunciati innanzitutto i grillini, che i sondaggi accreditano di percentuali attorno al 26%. Stessa cosa aveva fatto la Lega, collocata sul 14%. Se solo gli elettori di questi due partiti avessero seguito le indicazioni, ieri si sarebbe presentato ai seggi il 40% degli italiani. Al conto vanno poi aggiunti i Fratelli d’Italia (5%), Sinistra Italiana (4%), altri cespugli di sinistra (2% circa) e ovviamente una parte non definita, ma comunque ampia, di Forza Italia, partito tuttora quotato attorno al 13-14%, nonché una fetta di quel Pd che Renzi ha schierato ufficialmente per l’astensione, ma che governa in sette delle nove regioni che hanno promosso il quesito. Per i Cinque Stelle e i partiti a sinistra del Pd il no alle trivelle (e ai combustibili fossili e alle multinazionali depredatrici ecc. ecc.) doveva inoltre essere un tema “identitario”, capace di far mobilitare gli elettori con uno schiocco di dita, per ricavarne a gioco concluso un bel dividendo elettorale. E invece.

Alla fine, più di tutto questo, ha pesato la scelta di Renzi di ridurre al minimo l’informazione sul referendum, di non accorpare il voto con le elezioni amministrative di giugno e di tenere i seggi aperti per un solo giorno: lussi che può permettersi solo chi sta al governo. Così il quorum è rimasto lontano e il premier può pensare alle sfide che per lui saranno decisive: le Comunali, appunto, e il referendum sulla riforma costituzionale di ottobre, appuntamenti ai quali conta di presentarsi portando in omaggio agli italiani sconti fiscali e altre prelibatezze elettorali. Il governo sta lavorando a un taglio dell’Irpef per i lavoratori dipendenti, al calo della pressione fiscale sulla previdenza complementare, a una riduzione degli oneri contributivi sul costo del lavoro e a un bonus bebè per il secondo figlio: tutte cose da annunciare nell’imminenza delle prossime chiamate ai seggi.

È contro questo Renzi pronto a creare deficit pur di vincere, e ripartendo da un risultato come quello di ieri, che le opposizioni devono trovare un modo per contendere al Pd il governo del Paese. Anche ieri i Cinque Stelle hanno confermato tutti i loro limiti: bravissimi a fare caciara, inadeguati quando si tratta di convincere la maggioranza degli italiani della bontà delle loro proposte. La scomparsa di Gianroberto Casaleggio, l’unico tra loro dotato della cultura necessaria a maneggiare le categorie della politica, rischia di essere letale per il “movimento”. La vittoria alle Comunali di Roma sarebbe un ottimo ricostituente, ma se dovesse andare male nella capitale (a Milano e a Napoli grosse possibilità non se ne vedono) il mito grillino della crescita felice sino alla conquista del potere subirebbe un brutto colpo.

Per il centrodestra la lezione del voto di ieri è che inseguire i Cinque Stelle e la Cgil su temi come il contrasto alla modernità e all’impresa non paga. La buona notizia è che Stefano Parisi, che contende al pd Beppe Sala la guida di palazzo Marino, rappresenta l’esatto opposto di quello che volevano i promotori del referendum: è da lui e dal suo approccio pro-mercato che la coalizione riparte, non solo a Milano.

L’impressione è che a Renzi, ancora per qualche tempo, i problemi maggiori continueranno a crearglieli a sinistra. Emiliano, che per tutto il pomeriggio è andato in giro a dire che il quorum era a portata di mano, dopo il voto di ieri rappresenta un pericolo ancora minore di quanto fosse alla vigilia. Ma anziché compattare il Pd sulla linea vincente del segretario-premier, la vittoria ha approfondito la spaccatura tra le due anime del partito.

I seggi erano ancora aperti e già volavano gli insulti. In prima fila l’ultrà renziano Ernesto Carbone, che dopo la diffusione dei dati sull’affluenza alle 19 ha pensato di sfottere con un tweet i referendari, iniziando dai compagni di partito: «Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l’importante è partecipare #ciaone». Il bersaniano Miguel Gotor, decisamente uno dei più educati a rispondergli, lo accusa di «atteggiamento irresponsabile» e gli fa presente che «esaltare la scelta dell’astensione alla vigilia di importanti elezioni amministrative e pochi mesi prima del referendum sulla Costituzione rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang per lo stesso Partito democratico». Questo mentre lo staff di Palazzo Chigi accusava Emiliano di «retwittare chi odia il Pd», nientemeno. La resa dei conti di Renzi con i suoi avversari culminerà nel referendum di ottobre, ma è iniziata ieri sera.

CUPE PREVISIONI Viene giù tutto, ciao pensioni L'anno: quando spariranno

Nel 2030 troppi pensionati: assegni a rischio



Nel 2030 il sistema pensionistico italiano potrebbe implodere. Il 2030 non è una data a caso: è l' anno in cui andranno in pensione i figli del baby boom del biennio 1964-65, quando l' Italia nel pieno miracolo economico partorì oltre un milione di bambini. Quei bambini, al compimento dei 66-67 anni, busseranno alla porta dell' Inps. Un picco di richieste che si tradurrà in uno choc, soprattutto se la crescita economica rimarrà modesta. Il periodo più critico arriva fino al 2035. Poi, se le casse dell' Inps reggeranno, anno dopo anno la situazione dovrebbe migliorare per stabilizzarsi tra il 2048 e il 2060. All' Inps,come riporta il quotidiano La Stampa, ammettono che "qualche problema potrebbe esserci fino al 2032, quando il sistema sarà tutto contributivo".

Gian Carlo Blangiardo, ordinario di Demografia all' Università Bicocca di Milano, Ha appena rielaborato i dati Istat in uno scenario che svela un processo di invecchiamento inarrestabile: "Il rapporto tra la popolazione attiva (20-65 anni) e i pensionati raddoppierà nel giro di una generazione. La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040. Questo significa: il doppio del carico previdenziale. A parità di condizioni, in pratica, servirebbe raddoppiare la produttività. I 16 milioni di pensionati di oggi aumenteranno fino a 20 milioni, in meno di 25 anni. "Tra i nuovi pensionati e chi muore, cioè tra chi entra e chi esce dal sistema previdenziale, c' è uno sbilancio che oggi è nell' ordine delle 150 mila unità. Nel 2030 salirà a 300 mila e resterà tale fino a circa il 2038". Non resta che tenere le dita incrociate.

"Siete solo ipocriti, falsi e ladri" Renzi vince e sfotte: ecco chi

Renzi vince il referendum e parte all'attacco degli sconfitti: "Ipocriti, falsi e rubasoldi"



Qualche minuto appena e poi, dopo aver appreso i dati sull'affluenza alle urne per il referendum sulle trivelle, Matteo Renzi è apparso in diretta tv. Lui, che aveva liquidato la consultazione come "una bufala" senza rilievo politico, è passato all'incasso e i primi passaggi del suo intervento sono stati incendiari. Dopo ave invitato gli italiani che lavorano a brindare per la difesa compita di 11mila posti di lavoro (quelli connessi alle trivelle), il presidente del Consiglio è partito lancia in resta contro le Regioni, vere promotrici del referendum definendo i loro presidenti (il pugliese Emiliano, suo concorrente per la leadership nel Pd in primis) "Ipocriti", "falsi", "spreca soldi". "Si riempiono la bocca di mare pulito e poi sono i primi ad avere poca cura dei loro mari perchè non fanni i depuratori". E sul costo del referendum ha parlato di "300 milioni di euro buttati l vento: 300 milioni coi quali si sarebbero porute acquistare 350 carrozze per nuovi treni, per il trasporto pulito".

domenica 17 aprile 2016

ADESSO È TERRORE PURO Renzi a casa? Occhio ai dati: l'affluenza al referendum

ADESSO È TERRORE PURO Renzi a casa? Occhio ai dati: l'affluenza al referendum




Arriva il primo dato sull'affluenza al referendum sulle trivelle. Secondo i dati diffusi dal ministero dell'Interno, intorno alle 12 si è recato alle urne circa l'8% (il dato è relativo a 5.617 comuni su 8mila totali). Nel dettaglio, è la Basilicata la regione in cui si sta verificando l'affluenza più alta, con oltre l'11 per cento; segue la Puglia al 10 per cento. Al Nord spicca il Veneto, tra i nove enti promotori della consultazione, con affluenza al 9,90 per cento. Le regioni che votano di meno, invece, sono Sicilia e Calabria, con affluenza sotto al 6 per cento.

Il dato sull'affluenza preoccupa Matteo Renzi: l'8%, infatti, non è un dato basso (si consideri che ai referendum del 2011 si parlò di "affluenza-boom" perché alle 12 del primo giorno si recò alle urne l'11% degli aventi diritto). Nonostante tutte le voci che affermavano il contrario, il raggiungimento del quorum ora è possibile. Come detto, una pessima notizia per il governo: de facto, più che sulle trivelle, questo è un referendum sul governo Renzi (e, in caso di raggiungimento del quorum, è piuttosto scontata la vittoria dei "sì", ovvero un "no" alle trivelle e all'esecutivo). Resta però l'incertezza, perché a questo referendum si può votare soltanto oggi, domenica 17 aprile.

RENZI, MOSSA DISPERATA Cambia la legge all'ultimo: obiettivo, non andare a casa

La mossa disperata di Renzi: all'ultimo secondo cambia la legge (per non andare a casa)


di Elisa Caleffi


Anche in queste ore, tra gli ultimi appelli contro e pro trivelle, Matteo Renzi ha in mente solo una scadenza: il referendum costituzionale in autunno. Tutto il resto, il quesito su cui si vota oggi e persino le elezioni amministrative, li vede come passaggi più o meno complicati, ma gestibili. Per quanto riguarda il referendum di oggi, a Palazzo Chigi sono convinti che il quorum non sarà raggiunto. La partita, si dice, si giocherà sulla percentuale della partecipazione. I fautori del “sì” hanno posto l’asticella sul 40%. Se si raggiungerà, diranno che è un successo. «Dieci punti in meno del quorum», si nota tra i fedelissimi del premier. Ma tant’è. Più l’affluenza si avvicinerà al 40%, più benzina avranno gli avversari del governo, più si avvicinerà al 30%, meno ne avranno. In ogni caso, l’eventualità che il referendum sia valido è ritenuta remota.

Per quanto riguarda le Amministrative, negli ultimi giorni c’è grande preoccupazione, tra i colloboratori del premier, per Milano: la forbice tra Beppe Sala e Stefano Parisi diminuisce ogni giorno, ieri un sondaggio di Nando Pagnoncelli fissava la distanza a poco più di un punto (38,1% contro 37,1%). Ma la corsa è ancora lunga. E comunque, si dice, se si arriva al ballottaggio, poi è un’altra partita.

Resta la sfida delle sfide: il referendum costituzionale. Il punto è che Renzi deve arrivarci bene, non con l’acqua alla gola di una ripresa anemica e di inchieste vaganti. Per questo ha immaginato due step. Fondati su una regola aurea: gli elettori votano con il portafoglio. La parola d’ordine è valorizzare l’azione del governo nel tagliare le tasse. Il primo passaggio, come ha anticipato ieri al Qn, sarà celebrare il 16 giugno l’abolizione della tassa sulla prima casa: «Il 16 giugno in mille piazze d’Italia il Pd organizzerà la Festa dell’Imu», ha detto. Idea che ricorda il No Tax Day berlusconiano, lanciato nel novembre 2014. Ma Renzi non se ne cura, anzi. Ha sempre teorizzato che per vincere bisogna andare oltre il recinto della sinistra. E questo è tanto più vero in una consultazione come il referendum costituzionale, dove contro di lui si coalizzerà un fronte molto ampio.

Certo, si ammette tra i suoi, non è casuale il fatto che il 16 giugno sia tre giorni prima dei ballottaggi. Se ora Renzi si tiene alla larga dalle Amministrative, è probabile che dopo il primo turno dia una mano ai candidati del Pd impegnati nel secondo turno. Soprattutto a Roma o a Milano. «A quel punto l’alternativa sarà Renzi contro Grillo o Renzi contro Berlusconi», si dice tra i suoi. La festa dell’Imu, però, è solo una trovata comunicativa. La “ciccia” sarà un provvedimento fiscale che riguardi le famiglie. Sulla falsariga degli 80 euro, che non a caso vennero annunciati poco prima delle elezioni europee. Quelle nelle quali il Pd raggiunse il record del 40%. Anche di questo ha parlato ieri al Qn, dopo averne accennato nell’ultima e-news: «Pensavamo di intervenire sull’Ires nel 2017 e sulle famiglie nel 2018, ma tutti, anche gli imprenditori, mi dicono che è urgente mettere più soldi nelle mani delle famiglie». Il cronoprogramma prevedeva nel 2016 la cancellazione della Tasi e dell’Imu agricola, nel 2017 il taglio dell’Ires (dal 27,5% al 24%), nel 2018 un intervento sull’Irpef.

L’idea è di anticipare all’anno prossimo, quindi inserendolo nella legge di stabilità che si voterà alla fine di quest’anno, una misura che incida sul reddito delle famiglie. Si stanno studiando varie ipotesi. Una è di anticipare l’intervento sulle aliquote Irpef, quello previsto per il 2018. Un’altra è di lavorare sulle detrazioni fisacli e sugli assegni familiari, quindi sulla parte imponibile del reddito. Questa via ha il vantaggio che potrebbe essere anticipata rispetto alla legge di stabilità. Si potrebbe sfruttare, si dice, il lavoro che si sta facendo nella delega fiscale e in quella contro la povertà sul riordino delle tax expenditures, ossia la montagna di detrazioni fiscali arrivate a 799 per oltre 300 miliardi. Renzi vuole annunciare questa misura già a giugno. Per inserirla, successivamente, in un decreto o nella legge di stabilità. Del resto, che sia questa la ricetta, lo dicono ormai tutti. «Se si vuole stimolare la domanda e i consumi», spiegano i suoi collaboratori, «bisogna mettere soldi nelle tasche degli italiani, ce lo chiedono anche gli imprenditori». Con quale formula è un affare che dovranno definire Nannicini e i tecnici del Mef.