Maurizio Belpietro: "Napolitano tira i fili pure a Renzi"
di Maurizio Belpietro
Quando il 14 gennaio di un anno fa Giorgio Napolitano firmò la lettera di dimissioni e lasciò il Quirinale, tirai un respiro di sollievo. Finalmente usciva di scena uno dei peggiori presidenti della Repubblica che la storia ci avesse riservato e per giunta quello che più a lungo era riuscito a restare in sella. Con lui sul Colle si arrivò là dove nessun capo dello Stato si era mai spinto, non solo per il doppio mandato, ma anche per una supplenza che di fatto lo aveva trasformato nel monarca di una Repubblica presidenziale. Un sovrano non eletto dal popolo, che pur senza avere alcun mandato degli elettori agiva e si comportava come se lo avesse e come se disponesse di pieni poteri, compresi quelli di fare e disfare governi. Dunque, quando Napolitano lasciò, salutai l’addio festeggiando con un brindisi. Purtroppo mi sbagliavo. E non perché il suo successore si sia rivelato peggio di lui (così non è stato). E nemmeno perché Sergio Mattarella si sia dimostrato l’opposto del predecessore, ossia talmente poco presidenzialista da apparire più simile a un fantasma che a un presidente. No, la ragione per cui mi sbagliavo è che Napolitano pur dimettendosi dall’incarico di fatto non se ne è mai andato.
Altro che presidente emerito: l’ex inquilino del Quirinale è un presidente nel merito. Sì, sul Colle c’è quell’altro, ma in campo resta sempre lui, il nonno della Repubblica, il quale pur avendo mollato la poltrona, si è tenuto stretto tutto il resto, intrighi compresi. È lui che briga, traffica, suggerisce e incoraggia il Parlamento. Legge elettorale, riforma del Senato, Unioni civili. Nonostante non abbia alcun ruolo ufficiale, li esercita tutti per indirizzare le cose secondo il suo volere. Colloqui, interviste, indicazioni: la sua pressione si fa sentire ovunque. Una moral suasion che ai miei occhi è quanto di più immorale e poco democratico ci sia. Che il vecchio comunista non si sia fatto da parte, ritirandosi a vita privata, lo dimostra non tanto il fatto che stazioni perennemente nell’aula del Senato, tanto perennemente da dimenticarsi la tessera per votare inserita anche quando lui non c’è, ma che il suo zampone sia spuntato anche nella polemica che nei giorni scorsi ha visto fronteggiarsi l’attuale presidente del Consiglio con quello passato. Non mi riferisco ovviamente a Enrico Letta, che dopo essere stato defenestrato da Palazzo Chigi ha fatto perdere le proprie tracce. No, il richiamo è a Mario Monti, l’ex bocconiano che proprio Napolitano volle alla guida di un governo tecnico nel novembre del 2011. Il professore con un intervento nell’aula di Palazzo Madama ha bocciato la linea del governo sull’Europa e per farsi capire meglio ha anche scritto una lettera al Corriere della Sera. Matteo Renzi ovviamente non l’ha presa bene. Un po’ perché è allergico a qualsiasi critica, anche la più lieve (non a caso si prepara a tappare la bocca ai pochi programmi tv che non esaltano il verbo renziano) e un po’ perché nell’intervento del senatore a vita ha intravisto la mano dell’ex presidente della Repubblica, il quale sui rapporti con l’Europa e sulle relazioni con i cosiddetti partner ha sempre voluto mettere bocca e soprattutto il naso. La nascita del governo Monti e il siluramento di quello Berlusconi del resto sono opera pacificamente riconosciuta di nonno Giorgio, il quale con Angela Merkel aveva (e ha) buoni rapporti e pure con Francois Hollande.
Del resto, che l’uomo non stia in Senato al solo scopo di godersi il vitalizio ma semmai di godere del potere di condizionamento che ancora esercita, lo si è visto anche ieri, quando Jean Claude Juncker, ossia l’arcinemico di Renzi, prima di incontrare il presidente del Consiglio ha voluto far visita all’ex capo dello Stato. E quando mai si è visto un presidente della Ue in visita ufficiale che si attarda per tre quarti d’ora con uno che in teoria non dovrebbe contare più niente? E non dopo essersi recato a Palazzo Chigi o al Quirinale, ma prima, quasi che servisse quell’appuntamento per dissodare il terreno.
Sta di fatto che dopo aver parlato con Napolitano, Juncker ha visto Matteo Renzi e sono state rose e fiori. Altro che fuochi d’artificio, come aveva promesso il nostro capo del governo. L’incontro si è concluso a tarallucci e vino, con una dichiarazione del nostro presidente del Consiglio che è apparsa come un modo per abbassare le penne. «Il governo è dalla parte delle regole, crede nel rispetto delle regole e fa di tutto per essere all’avanguardia». Poi ha aggiunto: «Condividiamo la linea della commissione sulla flessibilità. Per noi il riferimento è quello che ha scritto la Commissione europea sulla flessibilità, non chiediamo di cambiare».
Ma come? Fino a ieri Renzi minacciava sconquassi se non avesse avuto in cambio la flessibilità di bilancio, e ora fa retromarcia? Stai a vedere che con le sue manovre il presidente a riposo ha messo sull’attenti il presidente (del Consiglio) in carica. In tal caso si capirebbe chi è il burattinaio e chi il burattino.