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lunedì 6 ottobre 2014

L'intervista - La confessione di Oscar Giannino: "Ecco perché ho mentito sulle lauree"

Giannino confessa: "Mi sono inventato le lauree per un complesso di inferiorità"

Intervista a cura di Giancarlo Perna 


«Perché perdi tempo con me che non conto nulla?», dice Oscar Giannino che, per precauzione, si cosparge in anticipo il capo di cenere. È nel suo ufficietto milanese dell’Istituto Bruno Leoni, il think-tank liberista che ha continuato a dargli fiducia nonostante l’incresciosa vicenda dei titoli di studio inventati. La stanzina, tipo piccionaia, è una muraglia di libri e carte. Su un versante sto io, dall’altro la testa di Oscar che, essendo il suo busto nascosto dalla pila di scartoffie sullo scrittoio, sembra un viso che galleggia per aria. Ha un aspetto meno bizzarro del personaggio che un tempo imperversava in tv. Ha la solita barbetta, il cranio lucido e pantaloni rossi. Ma è senza il bastone che nei talk show roteava minaccioso quando gli saltava la mosca al naso. «Sto meglio di salute e l’appoggio non mi serve più», spiega, con voce dolce e contrita.

Il cinquantatreenne Giannino è il valente giornalista economico che i lettori di Libero e de il Notiziario conoscono meglio di chiunque essendo stato (2007-2009) direttore del supplemento finanziario LiberoMercato. Si è fatto le ossa nel Pri al fianco dei due La Malfa e calibri così. Entrò nel partito nel 1975, a 13 anni, e l’ha lasciato nel 1994. Da allora ha fatto il giornalista. Ha avuto successo e conquistato fan. Soprattutto al Nord Italia, intere folle restavano appese alle sue torrenziali prediche economico-liberiste, a colpi di «Stato ladro», «somari», «sciocchi», «ergo», «soberrimo». Quando Oscar capì che gli aficionados si aggiravano sul milione, fondò un movimento, Fare per fermare il declino, per gareggiare alle politiche 2013. Vi aderirono imprenditori, professionisti e delusi vari. Fiori all’occhiello erano due economisti, pieni di sé ma di grido: Nicola Zingales e Michele Boldrin, docenti in Usa. Giannino fu candidato premier. Il patatrac accadde la settimana prima delle elezioni con la rivelazione che Oscar, il quale da anni si vantava di avere preso un master alla Chicago University, a Chicago non aveva nemmeno messo piede. A denunciare l’inghippo fu proprio l’amico Zingales, che in quella università insegna. Sull’onda, emerse che neanche era laureato mentre diceva di esserlo in Legge ed Economia. Il terremoto espulse Fare dalla lizza elettorale e Oscar dal mondo dei rispettabili.

«Smettila di fare il Cireneo» dico a Giannino che, dovendo ancora capire le mie intenzioni, gioca la carta del compunto. «È passato un anno e mezzo. Ti sarai fatto l’esame di coscienza». «Non ho fatto altro», dice con umiltà che stride con l’antico personaggio.

Perché hai cominciato a raccontare favole su di te?

«Un grave errore dovuto a un complesso di inferiorità che ho inconsciamente covato nel Pri. Era un mondo di élite, pieno di persone con titoli accademici a bizzeffe».

E te li sei attribuiti a tua volta.

«Finché ero ragazzo di bottega, no. Poi vennero i riconoscimenti per il mio lavoro. La gente cominciò a elogiarmi, ad appiopparmi titoli. Prima dottore, poi anche di più. Li ho accettati per vanità, poi ci ho messo del mio».

Quando la bomba è scoppiata?

«Sono rimasto di peste per la delusione che davo a centinaia di migliaia di persone e per la sofferenza di mia madre e mia moglie che non se lo aspettavano. Quanto a me, mi sono chiesto se avessi perso per sempre qualsiasi credibilità». 

Hai avuto insulti?

«Tanti e non ho mai polemizzato. Ho detto: è giusto». 

Non ti fai sconti.

«So che fino all’ultimo giorno della mia vita rischio che qualcuno mi dica: “Stai zitto buffone”».

Ti sei sentito tradito da Zingales?

«Capisco il suo punto di vista. Io, come candidato, ero molto esposto e lui, come docente della Chicago Uni, si è sentito chiamato direttamente in causa. Da allora, non ci siamo più sentiti».

Perdesti tutte le collaborazioni giornalistiche.

«All’inizio, sì. Né io mi sono più fatto vivo. Nel tempo, invece, molte più persone di quante immaginassi hanno continuato a darmi fiducia e stima. Oggi, ho ripreso tutti i lavori che avevo: Radio 24 (la radio del Sole 24 ore-Confindustria, ndr), il Messaggero e i giornali del gruppo Caltagirone, Panorama. E a farsi vivi, questo mi ha colpito, sono stati loro».

Come liberista, avresti dovuto ripudiare i titoli di studio, invece che desiderarli.

«È infatti un’aggravante. Come liberale non posso che dirmi contrario al valore legale dei titoli di studio. Argomento che oggi, per decenza, neanche tocco nei dibattiti».

Risvolti positivi scaturiti dal guaio?

«Tre. Prima di dire una cosa, ci penso due volte. So che, avendo nell’armadio lo scheletro della mia bugia, parto con un handicap e che gli altri hanno un vantaggio iniziale su di me. Mi sforzo continuamente di dare a chi mi è più vicino la certezza che, almeno nei valori di fondo, sono di una coerenza assoluta». 

Ti presenti come un dandy. 

«Per anni, non avendo una lira, mi sono accontentato di due giacche e due cravatte. Appena ho avuto due soldi, mi sono sbizzarrito. L’amore per stoffe, colori, abbinamenti, ce l’ho dentro».

A cosa ti ispiri?

«Agli anglosassoni. Il formalismo italiano la dice lunga sulla nostra classe dirigente. Hanno armadi pieni di abiti uguali: dieci gessati, dieci vestiti scuri, ecc. Gli angloamericani, invece, con responsabilità finanziarie e imprenditoriali triple, sono pieni di fantasia: tight, bombette, papillon, ghette».

Perché questa differenza?

«I nostri si sentono credibili solo in veste da pompe funebri. Gli inglesi, più liberi, si prendono bonariamente in giro. Quando io vado in giro con gilet e cravatte di mia invenzione, gioco e mi diverto con me stesso».

Ti consideri di centrodestra?

«La destra mi ha deluso. Sono libertario-liberista. Lo Stato, per com’è in Italia, è una follia unica in Occidente. Un Fisco che, solo per aprire un contenzioso - solo per sederti a discutere - pretende che versi un terzo della sua pretesa erariale, è da spararsi».

Perché nelle elezioni del 2013 ti sei presentato dichiaratamente contro Berlusconi liberale pure lui?

«Pensavo, come penso, che il suo ciclo come leader in prima persona fosse finito. Essendoci, da quella parte, molti voti in libertà, voleva marcare la differenza tra noi e il Cav».

Monti e Letta non hanno fatto meglio di Berlusconi.

«Monti ha fatto solo la riforma pensionistica. Poi si è sgonfiato. Letta è stato vischioso, lento e indeciso. Molto deludente». 

Renzi?

«Distanza siderale tra annunci e ciò che fa».

Un imbonitore?

«Il suo obiettivo primario è gettare alle ortiche la vecchia identità post comunista del Pd per garantirgli stabilmente la maggioranza attuale del 40 per cento. Vent’anni di egemonia per sé e i suoi». 

E i problemi italiani?

«Il resto viene dopo».

Uscire dall’euro?

«L’uscita unilaterale non è prevista dai trattati. Se agiamo da soli, finiamo come l’Argentina. Però, anche andare avanti come adesso, non è pensabile».

Fare come la Francia che ha alzato la voce?

«La Francia da sola non va da nessuna parte. Meglio sarebbe stato che Italia-Francia si fossero accordate per una proposta congiunta e chiara, alla quale altri si potevano accodare. Sono necessarie posizioni esplicite, a viso aperto».

Ristrutturare il nostro enorme debito pubblico - 2.200 miliardi - ricontrattando i pagamenti?

«Una follia. È l’uscita dal consorzio delle grandi Nazioni. Inoltre, poiché i tre quarti del debito è in mano alle famiglie italiane, toccherebbe a loro accollarselo. Ci impoveriremmo per generazioni». 

Torniamo a te. Vero che, dopo esserti sposato civilmente, vuoi ora farlo anche in chiesa?

«Il progetto c’è. Da giovane, repubblicano e laico, sono stato fieramente ateo. Non la penso più come allora. Anche se non mi definirei un vero credente, mi ci avvicino».

Ti vedremo un giorno in tv in abiti cardinalizi?

«Non sono cose su cui posso scherzare. Ho uno zio, fratello di mia madre, monsignor Luigi Travaglino, che è un eminente personaggio della Segreteria di Stato vaticana».

Vestito da penitente?

«Mi sono già cosparso di cenere in questa intervista. Che vuoi di più?».

Il Papa come Gesù nel Tempio Adesso processa i Vescovi: “Siete..."

Papa Francesco al sinodo straordinario sulla famiglia: “No a cupidigia dei cattivi pastori”




"Anche per noi ci può essere la tentazione di ‘impadronirci’ della vigna, a causa della cupidigia che non manca mai in noi essere umani”, “cupidigia di denaro e di potere. E per saziare questa cupidigia i cattivi pastori caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito”. Papa Francesco non usa mezzi termini e ammonisce gli uomini di Chiesa al Sino straordinario dei Vescovi che vedrà per due settimane 253 partecipanti discutere anche dei matrimoni gay e della riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati.

Incontro storico - Un sinodo a tappe con una prima sessione che si concluderà il 19 ottobre prossimo con la beatificazione, in piazza San Pietro, di Paolo VI, e con una seconda assise che si terrà nell’ottobre del 2015 e dalla quale dovranno uscire le risposte ai tanti interrogativi dei fedeli di tutto il mondo sempre più lontani nella pratica dalla dottrina sul matrimonio e sulla sessualità della Chiesa cattolica. Un metodo collegiale, quello scelto da Bergoglio, che richiama moltissimo quello del Concilio Ecumenico Vaticano II. 

I conflitti tra Vescovi - "Dobbiamo prestare orecchio ai battiti di questo tempo e percepire l’odore’ degli uomini d’oggi” perché altrimenti “il nostro edificio resterebbe solo un castello di carte e i pastori si ridurrebbero a chierici di stato”. Bergoglio non ha voluto nemmeno nascondere il confronto aspro della vigilia tra cardinali “conservatori” e “progressisti” sull’apertura ai divorziati risposati. “Le assemblee sinodali – ha spiegato il Papa – non servono per discutere idee belle e originali, o per vedere chi è più intelligente. Servono per coltivare e custodire meglio la vigna del Signore, per cooperare al suo sogno, al suo progetto d’amore sul suo popolo. In questo caso, il Signore ci chiede di prenderci cura della famiglia, che fin dalle origini è parte integrante del suo disegno d’amore per l’umanità. Ma sia nell’antica profezia, sia nella parabola di Gesù, – ha aggiunto Francesco – il sogno di Dio viene frustrato. Isaia dice che la vigna, tanto amata e curata, ha prodotto acini acerbi, mentre Dio si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi. Nel vangelo, invece, sono i contadini a rovinare il progetto del Signore: essi non fanno il loro lavoro, ma pensano ai loro interessi”.

domenica 5 ottobre 2014

Lavoro, uno su tre si ammala di lunedì La "hit" dei lavoratori più cagionevoli

Lavoro, un certificato medico su 3 arriva di lunedì




Oltre il 30% dei certificati medici che attestano l’impossibilità di recarsi sul posto di lavoro vengono presentati di lunedì. In pratica un lavoratore dipendente su 3 si ammala di lunedì, una percentuale molto alta, che rafforza il sospetto che si tratti di una pratica utilizzata per allungare i weekend. La Calabria detiene il record dei giorni medi di malattia all’anno, che sono 34,6 e che salgono addirittura a 41,8 nel settore privato. È quanto emerge da una ricerca effettuata dall’Ufficio studi della Cgia, nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione), in cui sono stati 6 milioni i lavoratori dipendenti italiani che hanno registrato almeno un evento di malattia. 

La malattia - Secondo la Cgia mediamente ciascun lavoratore dipendente italiano si è ammalato 2,23 volte ed è rimasto a casa 17,71 giorni: complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l’anno. Nel pubblico ci si ammala più spesso, ma mediamente si perdono meno giorni di lavoro che nel settore privato. Sempre nel 2012,i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08).  La Cgia sottolinea che la malattia di un lavoratore viene considerata come unico evento anche nel caso di più certificati tra i quali intercorra un intervallo di tempo non superiore a 2 giorni di calendario. Inoltre, viene segnalato che questi dati sono stati estratti dall’Osservatorio sulla certificazione di malattia dei lavoratori dipendenti privati e pubblici dell’Inps, avviato nel 2011. Il motivo della mancanza di una serie storica più lunga deriva dal fatto che la trasmissione telematica dei certificati di malattia da parte dei medici di famiglia è andata a regime nel 2011. 

Il fine settimana - Su oltre 13 milioni e 365mila eventi di malattia registrati due anni fa, oltre 4 milioni (pari al 30,7 per cento del totale) sono stati denunciati a inizio settimana. "I dati - spiega Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia - vanno letti con grande attenzione. Sarebbe ingiusto e sbagliato strumentalizzare alcuni risultati che emergono da questa ricerca. Al netto dei casi limite, le nostre imprese possono contare sull’affidabilità di impiegati e operai che sono considerati tra i migliori lavoratori al mondo". Dunque, perché i lavoratori dipendenti si ammalano soprattutto di lunedì?  "Nel fine settimana - secondo Bortolussi - si concentrano le attività conviviali e quelle legate al tempo libero. Con l’avvento della crisi, inoltre, sono sempre di più coloro che per risparmiare eseguono piccoli lavori di manutenzione nel proprio giardino o nell’abitazione in cui vivono. Iniziative che, in qualche modo, contribuiscono ad aumentare gli acciacchi degli italiani. Tenendo conto che molti medici di base il sabato e la domenica non svolgono la normale attività ambulatoriale, l’elevato numero di certificati che si riscontra al lunedì è in gran parte riconducibile a queste situazioni".

A livello territoriale «spiccano» i risultati della Calabria. A causa delle precarie condizioni di salute, nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabro è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. Tra i lavoratori dipendenti più «cagionevoli» troviamo anche i siciliani (con 19,9 giorni medi di malattia all’anno), i campani (con 19,4) e i pugliesi (con 18,8). Gli operai e gli impiegati più «robusti», invece, li troviamo a Nordest. Se i lavoratori dipendenti dell’Emilia Romagna rimangono a casa mediamente 16,3 giorni all’anno, in Veneto le assenze per malattia scendono a 15,5 per toccare il punto più basso nel Trentino Alto Adige, con 15,3 giorni.

Ovviamente, i lavoratori anziani sono più a rischio dei giovani. Dalla rilevazione emerge che le assenze aumentano in misura corrispondente al crescere dell’età. Se fino a 29 anni il numero medio di giorni di malattia per lavoratore è pari a 13,2, nella classe di età tra i 30 e i 39 anni sale a 14,9, per toccare il valore massimo sopra i 60 anni, con 27,4 giorni medi di assenza all’anno. La durata media degli eventi di malattia è, comunque, relativamente breve. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico. 

Grillo, i conti del M5S non tornano E' giallo sui soldi per il raduno di Roma...

Italia 5 stelle: buio totale su soldi e responsabili formali dell'evento




Comincia col piede sbagliato Italia5Stelle, il mega raduno dei grillini previsto al Circo Massimo di Roma. Come racconta l'Huffingtonpost una piccola nota in calce al fund raising lanciato per Italia 5 stelle, la manifestazione che si terrà al Circo Massimo dal 10 al 12 ottobre prossimo, recita così: "Il residuo dei fondi raccolti per la campagna delle elezioni europee 2014 è stato interamente devoluto per finanziare l'evento Italia5Stelle". Una postilla che lascia parecchi dubbi. Quando Beppe Grillo chiese soldi per portare avanti la campagna elettorale europea, promise: "Ogni spesa sarà rendicontata e gli iscritti al MoVimento decideranno come destinare l'eventuale residuo". Peccato che gli attivisti non abbiano toccato palla, e che la decisione di come impiegare quei soldi sia stata presa unilateralmente tra Milano e Genova. Ma guardando bene tra i conti pentastellati sull'ammontare del tesoretto da destinare alla kermesse romana vige il silenzio più totale. Nessuno tra i parlamentari sembra essere a conoscenza delle cifre, e se qualcuno ha in mano i dati tiene la bocca cucita.

I fondi - Dei 774mila euro raccolti per le politiche del 2013, ne furono spesi meno della metà, 348mila. Supponendo che per una campagna elettorale sul territorio nazionale dalle analoghe modalità di svolgimento si sia arrivati a spendere la stessa cifra, nelle casse del M5s dovrebbero essere rimasti circa 100mila euro. Soldi che si vanno a sommare ai 150mila raccolti fino ad oggi per Italia 5 stelle, e che dovrebbero costituire un patrimonio di un quarto di milione di euro. Qualcuno a Roma già si chiede che fine faranno quei soldi, considerando che l'affitto della location costerebbe 10mila euro: "Non vorrei che, una volta pagate bollette e fornitori, finissero per pagare cene e alberghi per i soliti noti", sibila velenoso un parlamentare. A prescindere dalla destinazione, la nebbia che circonda la gestione dei soldi grillini agita la base del Movimento.  Nessuna informazione nemmeno sul fantomatico "Comitato Promotore Incontro Nazionale con i Portavoce del M5S", l'organo al quale effettuare i bonifici per Italia 5 stelle. In parole povere: non c'è nessuna spiegazione (a differenza di quanto successo per le elezioni europee) di chi riceva e gestisca formalmente i soldi, volendo andare più a fondo di un generico "il blog di Grillo".

Sindaci che sprecano da nord a sud Ecco come "usano" i nostri soldi

Comuni spreconi, da nord a sud tutti i paradossi delle spese municipali




Si definiscono "Comuni virtuosi" quelli che spendono meno di quello che dovrebbero. Almeno secondo i criteri utilizzati dalla Sose, una società per azioni controllata dal ministero dell'Economia e dalla Banca d'Italia a cui è stato affidato l'incarico di mettere a punto i fabbisogni standard degli enti locali. Ebbene la Sose dal 2010 sta raccogliendo i dati relativi a 6.702 Comuni e Province delle 15 Regioni a statuto ordinario dove risiedono 51 milioni e mezzo di abitanti pari all'85% della popolazione e fra un mese stilerà la classifica dei municipi di manica larga. Ma, avvertono Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella che oggi sul Corriere hanno pubblicato un'anticipazione dello studio, il non considerare la quantità e la qualità dei servizi offerti può generare disastri. Si rischia, cioè, come ammoniscono Massimo Bordignon e Gilberto Turati della lavoce.info, di identificare tra i risparmiosi quelli che non offrono i servizi e tra gli spendaccioni quelli che invece i servizi li offrono.

Virtuosi, ma senza servizi - Lo dimostra il confronto tra Perugia e Lamezia Terme. Il capoluogo dell'Umbria ha la peggiore performance in assoluto: nel 2010 ha superato del 31% la spesa standard. Lamezia al contrario, nello stesso anno, ha risparmiato il 41% tagliando sulla riscossione dei tributi (35 mila euro contro un fabbisogno di 446 mila), gli asili nido (641 mila euro contro 930 mila) e il sociale: 2 milioni 522 mila contro 7 milioni 439 mila. Scelte imposte dal peso esorbitante di servizi burocratici come l’anagrafe, lo stato civile e il servizio elettorale: 1.162 mila contro un fabbisogno tre volte più basso, 468 mila. Perugia invece ha speso 36,2 milioni contro i 6,2 stimati come fabbisogno standard per l’ambiente, 31,7 milioni contro 22,5 per lo smaltimento dei rifiuti e 25,3 milioni contro 4 per i trasporti pubblici. 

Altro esempio riportato da Rizzo e Stella è quello di Casal di Principe, la cittadina della "terra dei fuochi" tenuta in ostaggio per decenni dai Casalesi. Anche Casal di Principe risulta tra i comuni più virtusosi della Campania: nel 2010 ha speso il 41,6% in meno del fabbisogno standard. Ma andando a vedere come spendeva quell’anno i denari pubblici, viene fuori che che per gli uffici preposti a raccogliere le tasse comunali, c’erano briciole. Fabbisogno stimato da Sose: 113.242 euro. Euro impiegati: 167. Cioè 678 volte di meno. Quanto all’ambiente, devastato dai veleni scaricati perfino nel cortile della ludoteca, il fabbisogno stimato era di 445.949: ne spesero un quarto. I denari servivano per la burocrazia municipale. Costosissima.

Roma, Napoli, Milano - Costosissima come quella di Roma: nel 2010 ogni cittadino spendeva per i servizi fondamentali 1.695 euro, dei quali 400 per mantenere i dipendenti municipali. A Milano 1.830: 441 per il personale. A Napoli 1.416 euro: per i "comunali" 477. Entrando nel dettaglio delle spese di questi tre capoluoghi, Rizzo e Stella, mettono in evidenza i costi della polizia locale. Il fabbisogno standard di Roma è fissato in 323 milioni: nel 2010 spese il 14,5% in più. All’opposto Milano, che sborsò per i vigili il 38,3% in meno ma anche Napoli, che "risparmiò" il 29%. Eppure il Campidoglio, in quel 2010 preso in esame, fornisce ai cittadini in qualità e quantità molto meno di Palazzo Marino. Lo dimostrano i dati delle multe stradali: i 5.998 vigili di Roma elevavano manualmente 929.442 contravvenzioni (154 a testa: tre a settimana), i 3.179 colleghi milanesi 1.178.780: 370 pro capite, più di una al giorno. Per non parlare delle 79.870 sanzioni di diverso genere fatte a Milano contro le 27.990 di Roma e le appena 963 di Napoli. O dei 255 arresti effettuati dai «ghisa» ambrosiani a fronte dei 110 dei pizzardoni capitolini e dei 64 dei «caschi bianchi» partenopei. 

Non va meglio per quanto riguarda gli affitti. Nonostante sia proprietario di 59mila immobili il Comune di Roma in mano a Gianni Alemanno, pagava nel 2010 per i locali occupati dalla polizia municipale canoni per tre milioni e mezzo contro i 30.017 euro di Milano: 117 volte di più. Una spesa mostruosa. Che costringeva il Campidoglio a risparmiare su tutto il resto.

Tfr anticipato, Squinzi contro Renzi: "Sarà un vantaggio solo per il Fisco Chiuderanno tante piccole imprese"

Tfr, Squinzi contro Renzi: "Ne beneficia solo il Fisco. Spariranno 12 miliardi delle piccole imprese"




Tornano ad allontanarsi le strade di Confindustria e Governo. Dopo un lungo corteggiamento, gli industriali voltano le spalle a Matteo Renzi tutto d’un colpo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso pare sia stata la notizia apparsa sul 'Corriere della sera', secondo cui il Governo intenderebbe far uscire dall’associazione degli industriali Enel, Eni, Poste e Finmeccanica. Se a questo carico da novanta che per viale dell’Astronomia vale 25 milioni, si aggiungono l’intervento su Tfr e la nuova modifica al job act, oltre al possibile aumento dell’Iva, era logico aspettarsi da Giorgio Squinzi un attacco al Governo. Che oggi è puntualmente arrivato dal palco napoletano del Forum della piccola industria, la categoria più colpita dall’intervento sul trattamento di fine rapporto. «Per quel poco che si è capito finora dall’annuncio di un intervento sul Tfr, l’unico reale beneficiario di questa operazione sarebbe il Fisco - ha detto Squinzi nel suo intervento alla Città della Scienza - l’ipotesi sul tfr fa sparire con un solo colpo di penna circa 10-12 miliardi per le imprese italiane, se questa è la strada che s’intende seguire la risposta è semplice. Ce l’ho già oggi: è no».

Questione fiscale - A poco sono quindi servite le parole del viceministro Carlo Calenda, che dallo stesso palco poco prima di Squinzi aveva rassicurato gli mprenditori che se si toccavano le risorse delle imprese non se ne faceva nulla. L’unica soluzione possibile in tal senso sarebbe usare i fondi della Bce per pagare il Tfr, ma qui era stato già ieri il leader della piccola impresa, Alberto Baban ad opporre un ancora più marcato rifiuto. In realtà però Squinzi le parole più dure al Governo le ha riservate su altri temi. «A chi governa il coraggio non difetta. È una gran dote che apprezzo» ma «il coraggio più utile e degno di fiducia, è quello in grado di stimare il pericolo da affrontare» ha detto il fondatore della Mapei. Squinzi poi ha anche chiarito come anche questo Governo, non mantenga le promesse: «Siamo in zona Cesarini per mettere mano seriamente alla questione fiscale. La delega che pareva essere avviata su un buon cammino si è persa. Approvata a marzo, sulla Gazzetta Ufficiale non è ancora approdato uno, dico un decreto attuativo». Il rischio è che non si faccia nulla anche sul fronte lavoro. Qui Squinzi è stato ancora più chiaro: «I passi fin qui fatti sono assai apprezzabili, per determinazione e coraggio. Non è stato facile, ne siamo consapevoli, ma non regaliamo l’ultimo miglio alla paura». «Non è una legge a creare occupazione. Sappiamo però che una legge malfatta i posti di lavoro può distruggerli» ha proseguito Squinzi ricordando che «la ragionevolezza consiglierebbe dunque di andare in una direzione che renda più facile creare il lavoro e meno costoso quello stabile e di qualità» aggiunge, «se si decide di cambiare come i tempi della crisi ci sollecitano, facciamo davvero, senza mediazioni che tolgano coraggio e senso al provvedimento». Un Governo quindi che sia ancora più deciso del solito, anche perché «non c’è da vincere solo la battaglia sul reintrego o meno, c’è un intera filiera della conservazione da battere, che è molto ben organizzata. Ed è efficiente». «La vera riforma è culturale, ed è convincere la parte del Paese che pensa solo a rivendicare diritti ormai inesigibili» ha aggiunto.

Europa ibrida - Senza contare che poi anche l’Europa sembra aver perso presa ed autorevolezza: «La corda del cieco e ostinato rigore è stata tirata troppo a lungo e così dall’Europa della convergenza si rischia di cadere in quella delle decisioni unilaterali». «La scelta francese apre un potenziale conflitto non solo con i rigoristi - ha aggiunto Squinzi riferendosi al mancato rispetto del patto di stabilità annunciato da Parigi - ma anche con i Paesi che hanno dovuto bere l’amara medicina del rigore e del commissariamento». Un’amarezza inedita verso Bruxelles, che travolge Squinzi: «Oggi facciamo fatica a sentirci europei. Anche un europeista convinto come me comincia a covare dubbi non sull’Europa, ma si come è stata costruita la casa europea finora - ha concluso - oggi abbiamo l’euro e poco altro, troppo poco».

Multe, addio al bollettino postale Ecco come si pagheranno...

Multe: ora si pagheranno pure col bancomat




Novità sul fronte multe: in un futuro molto prossimo potreste pagare le vostre contravvenzioni direttamente col Bancomat. Istantaneamente quindi: sull'onda della nuova norma introdotta dal Decreto del fare (30% di sconto se pagate entro 5 giorni) i Comuni stanno cominciando ad accorciare i tempi e a mandare in pensione anticipata sia il vecchio (e antipatico) blocchetto, sia il bollettino postale.

Lo sconto - Novità introdotta nel comune di Genova, l'innovazione sembra piacere molto ai cittadini liguri che così evitano l'inconveniente del "rimando" e della fila in Posta, risparmiando pure quel beffardo Euro in più. Il periodo di sperimentazione sta quindi dando degli ottimi risultati. L'aspetto su cui si sta puntando molto è semplice ed è quello del risparmio: grazie allo sconto, il divieto di sosta che "vecchia maniera" costava al portafoglio 41 euro, ora comporta l'esborso di "solo" 28,70 euro, che, pagati subito, diventano solo un brutto ricordo. 

Eccezioni - Va da sé che non tutte le contravvenzioni si potranno pagare sul posto e con lo sconto: fanno eccezione tutte quelle per cui non è consentito il pagamento in misura ridotta, o è prevista la confisca del veicolo o la sospensione della patente, come la guida in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di sostanze stupefacenti.