Lavoro, ecco il bluff di Matteo sui disoccupati
di Franco Bechis
Il colloquio è avvenuto venerdì sera sull’Isola Tiberina, dove si sta svolgendo la festa di Atreju 2014 organizzata da Giorgia Meloni. Al dibattito del pomeriggio c’era anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Quando ha terminato l’ha atteso in un angolo Guido Crosetto, che qualche settimana fa ha lasciato la politica per diventare presidente di Aiad, l’associazione delle imprese aerospaziali. Crosetto da sempre è uno dei politici più esperti di finanza pubblica, e che fosse in maggioranza, all’opposizione o perfino fuori dal Parlamento, ha sempre offerto la sua consulenza gratuita al governo di turno. Dopo qualche minuto con Delrio si è arrivati subito a uno dei temi del momento, il Job act. «Lo sai Graziano che il vostro disegno di legge delega non ha copertura sui sussidi di disoccupazione?».
Delrio ha allargato le braccia: «Lo so bene. Infatti non abbiamo presentato relazione tecnica per finanziarlo. Decideremo di volta in volta con i decreti delegati». Crosetto lo ferma: «Questo si poteva fare un tempo. Ora non più: anche i disegni di legge delega debbono avere copertura secondo il nuovo testo dell’articolo 81 della Costituzione che ha introdotto un ferreo pareggio di bilancio». Delrio ha sospirato: «Ma non abbiamo altra strada...». In effetti il governo sa benissimo di camminare sui carboni ardenti con il Job act. Già nel giugno scorso il servizio Bilancio del Senato aveva messo in guardia l’esecutivo: guardate che dovete indicare le coperture della riforma del lavoro subito, perché così è stabilito dalla Costituzione. Non farlo serve a poco, perché basterebbe la più banale contestazione su uno dei decreti delegati per farlo impugnare richiamando l’incostituzionalità della delega. E allora la riforma del lavoro non vedrà mai la luce.
Delrio ha allargato le braccia: «Lo so bene. Infatti non abbiamo presentato relazione tecnica per finanziarlo. Decideremo di volta in volta con i decreti delegati». Crosetto lo ferma: «Questo si poteva fare un tempo. Ora non più: anche i disegni di legge delega debbono avere copertura secondo il nuovo testo dell’articolo 81 della Costituzione che ha introdotto un ferreo pareggio di bilancio». Delrio ha sospirato: «Ma non abbiamo altra strada...». In effetti il governo sa benissimo di camminare sui carboni ardenti con il Job act. Già nel giugno scorso il servizio Bilancio del Senato aveva messo in guardia l’esecutivo: guardate che dovete indicare le coperture della riforma del lavoro subito, perché così è stabilito dalla Costituzione. Non farlo serve a poco, perché basterebbe la più banale contestazione su uno dei decreti delegati per farlo impugnare richiamando l’incostituzionalità della delega. E allora la riforma del lavoro non vedrà mai la luce.
Nonostante questa consapevolezza, Renzi ha deciso di impugnare quel testo di riforma che non entrerà mai in vigore come un’arma per combattere altri tipi di battaglie, politiche e culturali. Il premier sembra più interessato a regolare i conti con la minoranza del Pd e quella Cgil che ne è strettamente connessa che a fare svoltare davvero il mercato del lavoro in Italia ristrutturando profondamente anche il sistema di protezione sociale.
Sotto questo profilo il Jobs act di Renzi ha mutuato modelli di protezione di altri paesi, puntando ad estendere il sussidio di disoccupazione (il suo slogan era “mille euro a tutti”) anche a chi oggi non lo prende, riducendo però altre protezioni ormai invecchiate (la cassa integrazione straordinaria e quella in deroga) e legando il sussidio allo stesso mercato del lavoro, con l’idea di legarne la durata e anche la brusca sospensione alle offerte di lavoro che il disoccupato dovesse ricevere dal sistema di protezione sociale riformato.
Quello di Renzi è un modello ideale, sostenuto da molti teorici dello Stato sociale liberale e moderno. Ma naturalmente costa. Siccome i confini attuali sono piuttosto generici, è difficile fare dall’esterno quella relazione tecnica che il governo ha omesso di presentare. Un ex ministro - quella Elsa Fornero, gran teorica, ma che non ha certo brillato quando è stata messa all’opera - aveva calcolato in 30 miliardi il costo di una protezione sociale estesa a tutti i senza lavoro con una base di mille euro al mese netti. Altri studi più dettagliati - quelli di Tito Boeri e Pietro Garibaldi per lavoce.info - avevano ipotizzato un costo di 19 miliardi di euro però con un tasso di disoccupazione intorno al 10%. Altre stime di altri centri studi (dalla Cgil a Pagina 99) oscillano fra un costo minimo di 15,5 miliardi di euro a uno massimo di 24 miliardi di euro. Con quali forme di finanziamento? I vari sussidi sociali esclusa la Cassa integrazione ammontano oggi a circa 9-10 miliardi di euro.
Il costo per le casse dello Stato delle casse integrazioni atipiche è di circa 3,5 miliardi di euro l’anno. Facendo morire la protezione sociale esistente si ricavano quindi circa 13 miliardi. Per realizzare la protezione indicata nel Jobs act ne servirebbero altri 6-7. E il governo non indica dove prenderli. Renzi ha fatto filtrare da Palazzo Chigi a La Stampa la possibilità di allargare la protezione rispetto all’esistente inserendo in legge di stabilità un apposito fondo «disoccupazione per chi non ce l’ha» da 1,5-2 miliardi. Ma non ne ha indicato alcuna caratteristica. Per cui, se disoccupazione e cassa integrazione restano le stesse di prima e si aggiungono 1,5-2 miliardi per dare sussidi a chi non ce li ha, si estende sicuramente la protezione sociale attraverso una robusta mancia governativa, ma non si riforma nulla del sistema. Con quali risorse, peraltro, è un mistero. Se invece quegli 1,5-2 miliardi ventilati dovessero arrivare dal de-finanziamento della cassa integrazione in deroga, non solo non si riformerebbe nulla (quindi il Job act resterebbe solo un’arma ideologica), ma neppure si estenderebbe la protezione sociale, perché si tratterebbe solo di cosmetica per sostituire la cassa in deroga con analogo assegno di disoccupazione.
Il costo per le casse dello Stato delle casse integrazioni atipiche è di circa 3,5 miliardi di euro l’anno. Facendo morire la protezione sociale esistente si ricavano quindi circa 13 miliardi. Per realizzare la protezione indicata nel Jobs act ne servirebbero altri 6-7. E il governo non indica dove prenderli. Renzi ha fatto filtrare da Palazzo Chigi a La Stampa la possibilità di allargare la protezione rispetto all’esistente inserendo in legge di stabilità un apposito fondo «disoccupazione per chi non ce l’ha» da 1,5-2 miliardi. Ma non ne ha indicato alcuna caratteristica. Per cui, se disoccupazione e cassa integrazione restano le stesse di prima e si aggiungono 1,5-2 miliardi per dare sussidi a chi non ce li ha, si estende sicuramente la protezione sociale attraverso una robusta mancia governativa, ma non si riforma nulla del sistema. Con quali risorse, peraltro, è un mistero. Se invece quegli 1,5-2 miliardi ventilati dovessero arrivare dal de-finanziamento della cassa integrazione in deroga, non solo non si riformerebbe nulla (quindi il Job act resterebbe solo un’arma ideologica), ma neppure si estenderebbe la protezione sociale, perché si tratterebbe solo di cosmetica per sostituire la cassa in deroga con analogo assegno di disoccupazione.
Cambierebbe il nome, non la sostanza, e nemmeno la platea dei beneficiari. Il sospetto che questa soluzione sia la più probabile viene peraltro da quel che ha appena fatto il governo in tema di protezione sociale nel decreto legge sblocca Italia. Lì si sono inseriti circa 790 milioni di rifinanziamento di cig in deroga e di protezione degli esodati. Ma a costo zero: i fondi usati per la copertura sono proprio quelli della protezione sociale: semplicemente si sono tolte risorse ai fondi che proteggevano i giovani disoccupati per dirottarle sui lavoratori in difficoltà più anziani. Non è cambiata la situazione complessiva, né la torta a disposizione dei meno fortunati.