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lunedì 19 maggio 2014

Il complotto contro il Cav e la macchina del silenzio

Il complotto contro il Cav e la macchina del silenzio


di Vittorio Feltri



Se il premier silurato fosse stato Prodi o Renzi quale sarebbe stata la reazione dei compagni e dei grillini, quelli che invocano ogni dì il rispetto della legalità?


Un paio di mesi fa Alan Friedman scrive un libro intitolato Ammazziamo il gattopardo in cui racconta i retroscena - documentati con tanto di interviste televisive - della cacciata di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi nel 2011, sostituito da Mario Monti in modo rocambolesco. Vi si legge che Giorgio Napolitano brigò per convincere il professore bocconiano a fare il premier, nominandolo subito senatore a vita per semplificare la pratica. Il docente, pur corteggiato in quel modo dal capo dello Stato, non si fece immediatamente convincere ad accettare l'incarico e si consultò con amici, tra cui Romano Prodi e Carlo De Benedetti. I quali lo spinsero ad accogliere l'offerta.

Nessuno di coloro che ebbero parte nell'intrigo ha smentito una riga di Friedman. Cosa che peraltro sarebbe stata difficile, visto che il giornalista americano aveva registrato le testimonianze raccolte, inclusa quella dello stesso Monti. La pubblicazione del libro, cui seguirono numerosi dibattiti televisivi e la messa in onda di vari filmati in cui i protagonisti del pasticcio confermavano le manovre denunciate, suscitò scalpore per qualche giorno. Poi la vicenda finì nel dimenticatoio. More solito. D'altronde è noto: quando c'è di mezzo il Quirinale, prevale il silenzio sull'esigenza di chiarire i fatti.

Alcuni giorni orsono, nuove indiscrezioni sul siluramento dell'ex Cavaliere. Arrivano dagli Stati Uniti. Parla Timothy Geithner, stretto collaboratore di Barack Obama. Dice che furono la Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a far fuori Silvio, sia pure attraverso «alcuni funzionari europei». La cancelliera e il presidente francese chiesero un aiuto agli Usa per giubilare Berlusconi. Non passano neanche 24 ore e il politologo statunitense Edward Luttwak, mai tenero con il Cavaliere, ammette la trama: andò proprio così. A questo punto ci si aspetta che scoppi uno scandalo. Niente. Lassù, in alto, si cerca semmai di minimizzare. Si smentisce ciò che non si può smentire. Addirittura qualche fessacchiotto al servizio dei potentati di sinistra afferma che si tratta di letteratura, ovviamente di quart'ordine. Trionfa il negazionismo, nonostante le notizie provengano da fonti autorevoli.

Siamo esterrefatti. E ci domandiamo con sgomento come mai, di fronte a certe rivelazioni, l'apparato progressista non abbia il coraggio di fiatare se non per dire e ribadire: «Tutte invenzioni». Solo Il Giornale ha alzato la voce, e da mercoledì manderà in edicola un instant book in cui si narra, punto per punto, l'intera storia, firmato da Renato Brunetta, capogruppo alla Camera (Forza Italia).

In attesa di compulsarlo, ci limitiamo a porre una domanda a lorsignori che insistono nel prendere sottogamba siffatto complotto internazionale: se il premier silurato contro ogni regola democratica, invece che Berlusconi, fosse stato, chessò, Prodi o Renzi, quale sarebbe stata la reazione dei compagni e dei grillini, quelli che invocano ogni dì il rispetto della legalità?

In assenza di risposte, ci tocca immaginare: cortei, comizi, piazze piene, interrogazioni parlamentari, sommosse, violenze, occupazioni e chi più ne ha più ne metta. Poiché, viceversa, in questo caso le scorrettezze (eufemismo) sono state commesse contro l'odiato uomo di Arcore, tutto va bene - anche ridurre a strame la Costituzione tanto amata - madama la marchesa.

Prostitute e usura: il figlio inguaia il giudice D'Isa

Prostitute e usura: il figlio inguaia il giudice D'Isa


di Giacomo Amadori 



«Le strane relazioni del giudice che ha condannato Berlusconi». Con questo titolo in prima pagina cinque giorni fa Libero ha puntato i riflettori sui rapporti pericolosi del consigliere della Corte Suprema di Cassazione Claudio D’Isa, una delle cinque toghe che l’1 agosto 2013 ha condannato in via definitiva l’ex premier Silvio Berlusconi a quattro anni di carcere per una frode fiscale da 3 milioni di euro. I rapporti a cui abbiamo fatto riferimento sono quelli con la famiglia Terenzio, imprenditori di Cassino (Frosinone), e in particolare con Gabriele Vincenzo, 62 anni, e con il figlio Luigi, 41. I due sono stati colpiti da un misura di prevenzione patrimoniale da 150 milioni di euro, confermata nel luglio 2013 dalla Corte d’appello di Roma, e sono imputati per associazione per delinquere aggravata dalle modalità mafiose in secondo grado nella cosiddetta inchiesta Grande Muraglia (in primo grado sono stati assolti). I giudici gli contestano consolidati rapporti con la criminalità organizzata campana e laziale.

Claudio D’Isa e il figlio Dario, avvocato trentasettenne del foro di Torre Annunziata (Napoli) il 4 maggio scorso, come documentato da Libero con numerose foto, sono stati ospiti d’onore alla Prima comunione della figlia di Luigi Terenzio e il giudici è stato commensale al "tavolo numero 1", quello dei due plurinquisiti. Ma non sono solo queste le “relazioni pericolose" che stanno emergendo in questi giorni. Per esempio nell’ambito di un’inchiesta su una banda di usurai della procura di Torre Annunziata (Napoli) e dei carabinieri di Piano di Sorrento è coinvolto Dario D’Isa. Inizialmente Il Mattino parla di «un giovane rampollo della Sorrento bene» al quale magistrati e forze dell’ordine riconoscono un «ruolo particolarmente attivo» nella vicenda. Il Fatto quotidiano, dopo lo scoop di Libero approfondisce l’inchiesta e scopre che ci sono 9 intercettazioni tra Dario e Claudio D’Isa («che non è indagato» puntualizza il cronista). La parte più interessante riguarda 7 mila euro che un ristoratore avrebbe consegnato a Dario D’Isa affinché si interessasse di una causa pendente in Cassazione. Gli inquirenti sostengono che D’Isa jr sarebbe stato sollecitato «affinché intercedesse con il padre per la vicenda giudiziaria». In una telefonata Claudio D’Isa avrebbe chiesto le motivazioni di primo grado e d’appello con questa giustificazione: «Altrimenti io non capisco niente». Il 9 novembre 2013 D’Isa chiama il padre per domandargli se abbia visto «quella sentenza là». Il giudice tranquillizza il figlio: «Ora la guardo». Dario insiste e tre giorni dopo chiede al padre: «Puoi fare quel controllo su quel V. D. Terza sezione (della Cassazione ndr) eventualmente così poi glielo dico». Il magistrato, che fa parte della Quarta sezione penale, spiega di essere impossibilitato perché «le cancellerie stanno chiuse».

Alla fine la sentenza di condanna per V. D. viene confermata e l’uomo pretende la restituzione dei suoi soldi. D’Isa jr, sempre secondo quanto riportato dal Fatto, non ci sta: «L’avevo detto che la cosa poteva non andare in porto...». Qualcuno obietterà che questa consulenza a pagamento potrebbe essere stata prestata all’insaputa dell’alto magistrato e che Claudio D’Isa alla fine dell’anno scorso potesse essere all’oscuro dei rapporti pericolosi del figlio con i presunti usurai. Ma le cose sono certo cambiate a marzo, quando lo studio e l’appartamento di Dario D’Isa sono stati perquisiti e a onor del vero sono almeno nove anni che il giudice conosce le cattive frequentazioni del figlio. Infatti Dario D’Isa è stato arrestato nel 2005 per associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione. Il motivo? Gli «incontri ravvicinati» che si svolgevano al Bora Bora, locale di lap-dance di Bastia Umbra (Perugia). Per gli inquirenti là dentro veniva esercitato il più antico mestiere del mondo e nei privé «le donne si lasciavano accarezzare e baciare i seni, i glutei, le cosce e la vagina» si legge nell’ordinanza. I magistrati scrivono inoltre che «l’attività in questione è di proprietà dell’Omonima srl le cui quote fanno capo alla Dial srl, amministratore unico della quale risulta essere il D’Isa Dario». Tanto che in un’intercettazione, riassunta dagli investigatori, «lo stesso, parlando con il proprio interlocutore ammette che i suoi genitori non sanno che tipo di locale gestisca e che cosa avvenga lì, tanto da preoccuparsi, sapendo che i predetti, partendo da Napoli, sono arrivati a Bastia Umbra per cercare di individuare dove sia detto locale e di cosa si tratti». Sembra di vederli, il giudice e la consorte, mentre entrano al Bora Bora e si trovano di fronte le fanciulle nude come mamma le ha fatte. E se anche non individuarono il night, dopo pochi mesi, scoprirono la vera attività imprenditoriale del figliolo quando venne spedito agli arresti domiciliari. Dopo diversi anni Dario D’Isa è stato rinviato a giudizio e il processo è ancora in corso. Questo quadretto non ha persuaso il padre a diffidare degli amici del figlio. Compresi Vincenzo e Luigi Terenzio, approdati sulla penisola sorrentina come clienti dello studio D’Isa e in attesa di almeno tre pronunciamenti in Cassazione (per la confisca dei beni, per un’accusa di bancarotta e per l’imputazione di associazione per delinquere). Anche a loro Dario D’Isa ha chiesto denaro per interessarsi delle loro pratiche presso la Suprema Corte? Lo ignoriamo. Quello di cui siamo certi è che l’alto magistrato con Libero ha ammesso di essere stato informato dall’erede dei guai dei Terenzio e che per questo ha «evitato contatti». Ma ha mentito. Infatti il 4 maggio, dopo un viaggio di 900 chilometri, si è presentato alla festa degli imprenditori di Cassino a Lugano. Una scampagnata che gli è costata l’apertura di un fascicolo a suo carico presso il Consiglio superiore della magistratura.

Berlusconi sfida il governo: "Pensioni minime a mille euro". Il Cav all'attacco di Renzi: "alza le tasse". E su Grillo: "Sarebbe una jattura"

Berlusconi sfida il governo: "Pensioni minime a mille euro". Il Cav all'attacco di Renzi: "alza le tasse". E su Grillo: "Sarebbe una jattura"


di Sabrina Cottone 


Il Cav all'attacco: "Renzi fa cose di sinistra, alza le tasse. L'esecutivo sa solo galleggiare". Su Grillo: "Sarebbe una jattura se i nostri giovani disperati votassero per lui"



Milano - Tanto per cominciare un invito a chiudere con le sigarette, almeno per un po'. «Dovete fate tutti esercizio e resistere per molte ore senza fumare. Non potete lasciare mai le operazioni di scrutinio perché lorsignori sono bravissimi nei giochi di prestigio...» dice Silvio Berlusconi ai difensori del voto riuniti all'Unione del Commercio di Milano. In tempi di intrighi internazionali svelati da ministri e politologi, l'attenzione è rivolta anche a possibili brogli elettorali, come quelli che Forza Italia denunciò alle politiche del 2006 e che Berlusconi ricorda alla platea.

Fondamentale l'accertamento delle «manovre di altri Stati contro l'Italia» e del ruolo del Quirinale. «Noi pretendiamo si faccia luce su questa vicenda. Per questo abbiamo chiesto alla Camera una commissione d'inchiesta per sapere che cosa sia successo veramente. Vogliamo tornare a essere una democrazia». Passaggi centrali di una lunga telefonata, quarantacinque minuti che arrivano dopo un altro intervento in collegamento con un convegno di Forza Italia a Napoli.

Berlusconi parla di «una pensione da mille euro per le casalinghe», di «portare a mille euro le pensioni» che adesso sono a quota ottocento, di «eliminare le tasse sulla casa» e ridurre l'Iva dal 22 al 20 per cento». Sembrano ipotesi lontane ora che si va al voto per le Europee. Sono il segno di come il leader di Forza Italia consideri le elezioni per Strasburgo anche un'occasione per proporre una politica economica alternativa a quella del governo. «Non facciamoci incantare da Renzi - dice - È un presidente di sinistra che fa cose di sinistra. Ha alzato le tasse sulla casa e sul risparmio per fare una ridistribuzione della ricchezza a favore degli elettori di sinistra». E ancora: «Si nasconde dietro una faccia simpatica ma è la sinistra di prima e di sempre. Il pericolo dei comunisti al potere esiste ancora».

Ma il rischio principale per la democrazia, insiste, si chiama Grillo. «Una jattura» se i tanti «giovani disperati, rassegnati o incavolati» per i fallimenti economici dei governi che si sono succeduti in questi anni decideranno di votare i 5 Stelle. «Grillo e il suo movimento sono un'ipotesi terribile per il nostro Paese. Il suo disegno è di arrivare a una dittatura, distruggere il Parlamento e i partiti e avere un sistema di delegati dal web che manderebbero al governo lui e Casaleggio». Ripete che i discorsi di Hitler del 1933 sono talmente simili a quelli di Grillo da poter essere confusi e che anche «inconsciamente» il comico lascia comprendere le sue reali intenzioni. «Ha detto: se saremo il primo partito, marceremo su Roma». E invece «saremo noi» a marciare, però in modo democratico, dice Berlusconi.

Il caso Dudù non è archiviato. «Ha detto che il povero Dudù era da consegnare per la vivisezione degli animali» ricorda il leader di Forza Italia, che non considera una semplice boutade le parole di Grillo sul barboncino di casa Berlusconi. Al contrario, un'uscita crudele che tradisce una disposizione dell'animo: «Sapete come ha chiamato il suo cane? Delirio! C'è una grandissima coerenza nel suo disegno distruttivo».

Un ampio capitolo naturalmente è dedicato ai temi europei. A partire dalla moneta unica. «Bisogna svalutare l'euro» dice, sottolineando come il rapporto di forze falsato con il dollaro penalizzi le esportazioni italiane. Chiede di imitare le politiche antirecessive di Usa e Giappone, che hanno stampato moneta per sostenere l'economia e sono usciti dalla crisi. Cosa possibile solo se la Bce diverrà una vera banca centrale. Conclusione: «Se ciò non accadrà, non saremo noi a voler uscire dall'euro, ma la realtà economica a costringerci a farlo».

E poi le riforme, indispensabili ma accidentate. «La sinistra vuol trasformare il Senato in un dopolavoro per sindaci rossi» accusa. Da qui la proposta definitiva: «Abolizione totale del Senato».

domenica 18 maggio 2014

Caso Expo, non toccava a Ilda: ecco la prova

Caso Expo, non toccava a Ilda: ecco la prova

di Luca Fazzo



Spunta il documento che dimostra che Ilda Boccassini si è appropriata dell'inchiesta col placet del procuratore capo. Bruti è sempre più in bilico: potrebbe andare in pensione a ottobre


Milano - Non c'era traccia di mafia nell'inchiesta Expo, finita al centro di una furibonda lite tra i magistrati milanesi. A dirlo non è Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che ha denunciato al Csm di essere stato praticamente scippato dell'inchiesta dal procuratore Edmondo Bruti Liberati. A metterlo nero su bianco è Ilda Boccassini, anche lei procuratore aggiunto, che dell'indagine su Expo ha tenuto le briglia fino alla fine. La Boccassini è a capo del pool antimafia della Procura milanese, e ha sempre rivendicato il suo diritto a gestire il caso per le contiguità con indagini sul crimine organizzato.

Ma ecco, nel carteggio ormai voluminoso in mano al Consiglio superiore della magistratura, spuntare una carta firmata dalla stessa Boccassini il 16 aprile 2012. È una lettera su carta intestata della Procura, inviata dalla Boccassini a Bruti. É in parte omissata, perché contiene dettagli che fino al giorno della retata di Expo erano coperti da segreto. Quanto si legge è però chiaro: «Poiché allo stato non risultano contatti con esponenti della criminalità organizzata, si ritiene doveroso segnalare la vicenda in quanto sarebbe auspicabile un coordinamento con il dipartimento Pubblica Amministrazione», cioè il pool guidato da Robledo. Il giorno stesso, Bruti con un appunto in calce alla lettera trasmette la lettera a Robledo, che designa uno dei suoi sostituti, Antonio D'Alessio, a seguire la pratica. Come va a finire, è noto: Robledo viene estromesso dall'inchiesta a causa della «non condivisione» delle scelte investigative e processuali. E a tenere il timone rimane da sola la Boccassini.

Perché, se nell'inchiesta non si parlava di contatti mafiosi, la dottoressa - anziché spogliarsi del fascicolo e trasmetterlo al pool di Robledo - chiede che sia «coordinato» trai due dipartimenti? E perché il procuratore acconsente? Anche di questo dovrà occuparsi il Csm, quando nei prossimi giorni tirerà le somme della battaglia in corso a Milano. E la lettera firmata dalla Boccassini rischia di mandare anche il caso Expo a fare compagnia all'affare Ruby nell'elenco delle indagini condotte dalla Procura milanese in violazione delle regole di competenza. Sono, bisogna ricordarlo, violazioni che non inficiano la validità delle prove raccolte durante le inchieste di questi anni. Ma potrebbero convincere il Csm che Bruti non è stato un capo imparziale, e che la sua permanenza al vertice della Procura milanese non è opportuna.

Non è mai successo, neanche ai tempi della Prima Repubblica, quando ne accadevano in silenzio di tutti i colori, che un capo della Procura milanese venisse rimosso. Bruti Liberati ne è consapevole, e di certo non ambisce a essere il primo a subire un trattamento del genere. Se capirà che la maggioranza del nuovo Csm si prepara a dichiararlo inadatto a restare al suo posto, potrebbe giocare d'anticipo e scegliere di andare in pensione al compimento del settantesimo anno, il prossimo ottobre. Se invece il Csm sceglierà di chiudere la partita Bruti-Robledo senza vincitori né vinti, insabbiando i veleni milanesi sotto la ragion di Stato, Bruti Liberati resterà al suo posto, ma non per questo spariranno le tensioni che attraversano uno degli uffici inquirenti più delicati d'Italia. E il clima si farà ancora più pesante se Ilda Boccassini manterrà la promessa di denunciare Robledo per falso: un processo che rischierebbe di diventare il processo a una Procura che, francamente, non lo merita.

Sondaggio Usa: "Gli italiani i più euroscettici"

Sondaggio Usa: "Gli italiani i più euroscettici"



Gli italiani sono i più euroscettici d’Europa. Perfino più dei greci che hanno “pagato” il loro ingresso nell’Unione con una crisi senza precedenti. E’ il risultato di un sondaggio realizzato dal centro demoscopico americani Pew Resaerch Center e pubblicato dal Fattoquotidiano.it. Il sondaggio arriva a pochi giorni dalle elezioni europee e fotografa dei sentimenti di grande distacco da Bruxelles nel nostro Paese proprio mentre nel resto d’Europa, invece, si registra una timida ripresa. Il nostro Paese è sostalziamente l’unico a “flirtare” con l’idea “di lasciare l’euro”.

Il sondaggio è stato realizzato in sette Paesi dell’Unione europea (Francia, Gran Bretagna, Germania,Polonia, Spagna, Grecia e Italia): dai dati emerge che in media il 52% degli europei intervistati ha un’opinione favorevole della Ue, con un più 6% rispetto al 2013. Iil 71%, che ritiene che la propria voce non venga ascoltata dalle istituzioni europee che non comprendono le esigenze dei cittadini (65%), violano la loro privacy (63%) e sono inefficienti (57%). I numeri sulla ripresa del sentimento di fiducia, vedono al primo posto la Francia con un più 13% e la Spagna con più 4%. Solo in Italia la fiducia è crollata del 12% rispetto allo scorso anno. Non solo: il 74% degli italiani crede, stando a questo sondaggio, che l’integrazione economica europea ci abbia indeboliti. Solo il 9% sarebbe convinto del contrario, mentre anche su questo fronte il sentimento degli altri europei sembra orientato verso un trend più positivo


Addio euro - Nel nostro Paese il 44% degli italiani esprime il desiderio di tornare alla lira il sostegno alla moneta unica è crollato del 19% in un anno mentre. Negli altri Paesi invece, l’attaccamento alla moneta unica è altissimo. Al primo posto ci sono i tedeschi con una percentuale del 72% e Francia 64% ma anche in Paesi travolti dalla crisi come la Grecia (69%), la Spagna (68%)m, alto il consenso anche in Francia (64%) . Per quanto riguarda gli scheramenti politici rispetto alle elezioni del prossimo 25 maggio, dal sondaggio emerge che mentre in Italia, Gran Bretagna, Polonia e Germania sono gli elettori vicini alla destra ad essere euroscettici, in Spagna e Grecia le critiche arrivano maggiormente da elettori di sinistra. Molto interessanti i dati sull’andamento dell’economia. In generale solo il 10% delgi europei ritiene che l’economia vada bene, in Germania sono l’85% a crederlo. E in Italia, invece, il 96% ritiene che l’economia vada male.

Indagati i vertici Manutencoop: "Finanziamenti per il Pd". E spunta D'Alema

Coop rosse, affari sporchi anche in Puglia


di Paolo Bracalini-Massimo Malpica


Indagati i vertici Manutencoop: "Finanziamenti per il Pd". E spunta D'Alema


Stessi nomi, stesse coop, stessi affari. Appalti assegnati - secondo l'informativa dei carabinieri - per «ottenere finanziamenti illeciti al partito»: Ds prima e Pd poi. C'è un «Expo-bis» alle cime di rapa le cui radici affondano nella rossa terra di Puglia, ben strette intorno ai gangli del potere targato coop e centrosinistra.
Dalle carte dell'inchiesta «Mercadet» della procura di Brindisi salta fuori, per dire, il bersaniano presidente di Manutencoop Claudio Levorato, fresco indagato a Milano e coinvolto da anni nell'indagine salentina, tanto che solo un «no» del gip ne ha impedito l'arresto a novembre scorso.

L'8 maggio scorso anche il capo del colosso delle coop rosse, però, ha ricevuto da Brindisi l'avviso di conclusione indagini insieme a una cinquantina di persone degli oltre 130 indagati originari. Chi si è salvato? I politici, tanti, coinvolti nell'inchiesta. Avviata nell'ormai lontano 2007 e trascinata con tempi salvacasta, fino a lasciar prescrivere i reati per cui erano stati indagati. Se l'inchiesta fosse stata più spedita, tra l'altro, il sistema della malasanità pugliese sarebbe stato scoperchiato molto prima. Già dal 2007, per dirne una, Brindisi indagava sull'ex assessore regionale alla Sanità, poi senatore del Pd, Alberto Tedesco, e sul suo «avversario in affari» della sanità Giampi Tarantini. Tedesco fu costretto alle dimissioni solo due anni più tardi, quando fu Bari a indagare su di lui.

Tornando al rossissimo filo che lega Milano a Brindisi, la Manutencoop di Levorato era apparsa nel fascicolo già dall'alba dell'inchiesta. Si era aggiudicata l'appalto in «global service» della Asl di Brindisi - un bando da 40 milioni di euro - prima dell'inizio delle indagini eppure, annotavano i carabinieri del Nas, «è emerso un connubio tra gli esponenti politici, gli amministratori della ASL e la Società che lasciava intendere, senza ombra di dubbio, che a monte ci fosse un accordo corruttivo». La cui contropartita, prosegue il Nas, consisteva nelle «continue richieste di assunzione di personale» e nell'«affidamento di sub appalti a ditte molto vicine ai politici e alla dirigenza della Asl».

Tant'è che, insieme a Levorato, tra i personaggi «coinvolti nella vicenda» - e salvati dalla prescrizione - ci sono l'attuale capogruppo del Pd in regione Puglia, Pino Romano, e l'ex vicepresidente del consiglio regionale Carmine Dipietrangelo, associati tra loro e con altri, secondo il Nas, «al fine di commettere delitti di turbativa d'asta, abusi d'ufficio, falsi in atto pubblico, corruzione e rivelazione di segreto di ufficio». Tutto per assicurare alla Manutencoop l'aggiudicazione di appalti «tagliati su misura» per l'azienda di Levorato. Quest'ultimo, in cambio del flusso di informazioni (illecite) sui bandi, ricambiava con «vantaggi di natura patrimoniale o comunque economicamente valutabili (denaro, viaggi, assunzione di manodopera e simili)».

Un sodalizio così rodato che «la dirigenza della Asl tenta invano di far vincere alla Manutencoop» anche l'appalto per le pulizie negli ospedali «Perrino» e «Di Summa» di Brindisi, che valevano 3 milioni l'anno. Manutencoop arriva terza, la cricca riesce a escludere una delle ditte che l'avevano preceduta per offerta anomala e prova di tutto per fare lo stesso con la società di Bolzano che si aggiudica il bando. Ma fallisce. Questo non impedirà di chiedere alla ditta bolzanina le assunzioni «politiche» di rito, per le quali - spiega il piddino Romano a un dirigente dell'Asl - la ditta si sarebbe dovuta rivolgere a lui stesso e al compagno di partito (e consigliere regionale) Vincenzo Cappellini: «Alla Markas gli devi dire Cappellini e il Romano ...va bene?».

Fuori dall'inchiesta, ma citati nelle intercettazioni, anche nomi eccellenti del Pd nazionale. In un'intercettazione ambientale il direttore amministrativo della Asl di Brindisi Alfredo Rampino chiede a un imprenditore un'assunzione per conto di un politico. A margine, l'imprenditore racconta «come ha fatto a vincere la gara di Brindisi anni prima, e cioè per il tramite di De Santis Roberto, uomo di fiducia di Massimo D'Alema in Puglia che lo indirizzò verso Dipietrangelo». Rampino, nell'occasione, snocciola qualche nome: «Allora c'è... il Presidente D'Alema, poi inizi in Puglia, poi c'è De Santis e poi ci sono Dipietrangelo, Frisullo, Maniglio è capogruppo ma è più per la politica, Latorre, in Puglia, anche se a Roma è il suo». Quelli «che contano».

sabato 17 maggio 2014

Grillo e l'accusa dell'impresario: "Ha incassato 60 milioni in nero"

Grillo e l'accusa dell'impresario: "Ha incassato 60 milioni in nero"



Il rapporto tra Beppe Grillo e il Fisco è ambiguo. Il Movimento Cinque Stelle usa piazze, microfoni e web per lanciare la campagna contro l'evasione fiscale. I toni di Beppe quando c'è di mezzo il fisco si fanno duri: "Sono contro l'evasione fiscale e ritengo che gli evasori vadano perseguiti, in particolare i grandi evasori", ha affermato in uno dei suoi comizi in giro per l'Italia alle Europee. Ma a pesare sull'immagine di Grillo è il suo passato. Infatti Beppe più di una volta è finito nella bufera per aver percepito alcuni pagamenti in nero. Nell'agosto di due anni fa, come racconta il Giornale, Giovanni Guerisoli, fondatore della Rete del Sociale e del Lavoro del Pd e fino al 2002 segretario amministrativo della Cisl, durante La Zanzara affermò di avergli consegnato 10 milioni di vecchie lire cash, senza fattura, per un intervento durante un comizio della Cisl. La notizia fece rumore. Dopo le minacce di querela, fu Raffaele Bonanni in persona a scusarsi mostrando le ricevute dei pagamenti. 

Il caso del compenso in nero - La casistica, però, non si chiude qui. Infatti un articolo pubblicato dal Secolo XIX due anni fa da Renato Tortarolo, racconta la storia dell'impresario Lello Liguori che ebbe a che fare con Grillo nel corso della sua vita pre-politica. Va detto che Beppe finora è uscito sempre indenne da queste accuse. Ma certo qualche ombra resta. Le accuse di Tortarolo sul Secolo e quelle di Liguori non sono mai state smentite da Grillo. L'impresario affermava: "Detesto Grillo perchè va in giro a fare il politico a sputtanare tutti quanti, ma quando veniva da me, carte alla mano, si faceva dare 70 milioni, dieci in assegno e sessanta in nero. Ho i testimoni". A queste accuse non è mai seguita una querela da parte di Grillo e Liguori svela il perchè del silenzio: "Non lo farebbe mai, per lui sarebbe un autogol". Insomma, forse prima di fare il moralista sul Fisco, Beppe farebbe bene a guardare dentro le sue tasche. Qualche ricevuta e qualche fattura deve averla persa per strada...