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venerdì 25 aprile 2014

Caivano (Na): Dal circolo culturale Pierino Pepe rose rosse per festeggiare il secolo di vita dell’anziana concittadina

Caivano, 100 anni per nonna Giuseppina


di Antonio Parrella


CAIVANO - Cento rose  rosse per Giuseppina Atico dal circolo culturale “Pierino Pepe” del presidente Gaetano Di Mauro per festeggiare i “primi” 100 anni dell’anziana concittadina. E così lo scorso 13 aprile la nonnina centenaria, circondata e coccolata dal figlio Salvatore De Vita, da amici e parenti, ha spento in una cornice festosa e suggestiva le decine di candeline per il suo compleanno. Oltre al patron Di Mauro, presenti all’evento anche i componenti della commissione cultura del circolo Pepe, presieduta dall’avvocato Roberto Russo, che di buon mattino si sono recati a casa della nonnina di Caivano. Giuseppina, vedova di Giuseppe, ha perso negli anni scorsi anche la figlia Anna (gemella di Salvatore) e ha lavorato duramente ben 50 anni in un’azienda tessile. Dunque una vita dedicata al lavoro, ma anche all’amore intenso per i figli e per il marito. “Per noi è un momento di grande gioia - ha sottolineato con emozione il presidente Di Mauro - festeggiare un proprio concittadino per questa veneranda età ci riempie di orgoglio. Auguriamo a Giuseppina altri cento di questi bellissimi giorni, naturalmente da festeggiare ogni anno sempre tutti insieme!”. E in questa Terra dei Fuochi, martoriata dal degrado e dall’aumento di neoplasie, ecco che arriva la ricetta dell’anziana Giuseppina per l’elisir di lunga vita. Un consiglio che lei ci spiega con infinita dolcezza e tanta lucidità. “Il segreto della mia longevità  - dice Giuseppina - è quello di non esagerare mai nel cibo e di bere un buon bicchiere di vino rosso ai pasti. Ma il vero toccasana è soprattutto quello di pensare sempre positivo anche nei momenti più difficili. La sola battaglia che non si vince è quella che non si vuole combattere”. E come non darle ragione! Auguri nonna Giuseppina, auguri di cuore. Per aspera ad astra!



Maurizio Belpietro contro Sandro Bondi: "Vi spiego io chi è veramente il maggiordomo di Silvio"

Maurizio Belpietro contro Sandro Bondi: "Vi spiego io chi è veramente il maggiordomo di Silvio"

di Maurizio Belpietro 



La prima volta che l’ho incontrato, Sandro Bondi usciva da una piccola porta che separava la sala da pranzo di Villa San Martino dalla cucina e, immagino, da un qualche ufficio nascosto nelle retrovie del quartier generale di Silvio Berlusconi. Entrò tremolante, stringendo un foglio di carta, e dopo aver chiesto scusa e salutato con deferenza eccessiva gli ospiti, porse al Cavaliere il dispaccio d’agenzia, rimanendo in attesa come un maggiordomo. Ecco, che un tipo così potesse diventare un giorno il coordinatore nazionale del partito di maggioranza non l’avrei mai immaginato. E infatti Sandro Bondi coordinatore di Forza Italia non lo è stato neppure per un secondo: ne ha solo ricoperto l’incarico, firmando se necessario i bilanci e gli ordini di servizio, ma di fatto non ha mai deciso nulla. La linea politica per definizione era ed è demandata al principale, mentre delle questioni organizzative si occupava e si occupa Denis Verdini, che di Bondi è concittadino essendo nati entrambi a Fivizzano, sull’Appennino tosco emiliano. A lui, all’ex segretario di Berlusconi, era affidata semmai la difesa accorata del capo. Sue sono le parole più adoranti e devote. Sarà per questo che Vittorio Feltri, uno che si fa vanto di prenderci spesso, nel suo ultimo libro si scappella, definendolo l’unico che non ha mai dissentito, il solo coerente con le idee del Cavaliere anche dopo che il titolare le ha cambiate, rinnegate, capovolte.

Eppure anche per Bondi, il poeta che da ministro venne giù da solo come le mura di Pompei su cui avrebbe dovuto vigilare, è giunta l’ora di voltare le spalle. Intendiamoci, lui che è un timido, un mezzo prete che viene dal Pci, lo fa di tre quarti. Il suo è un tradimento ma appena appena. Mica se ne va come Paolo Bonaiuti, l’uomo che per quasi vent’anni è stato l’ombra televisiva di Berlusconi, che si faceva riprendere ogni giorno alle sue spalle, al punto che dopo un po’ il Cavaliere di quell’incombenza tv risultò perfino infastidito. No, Bondi non è un Bonaiuti qualsiasi e non lascia in cerca di un posto: lui prende solo le distanze. Si congeda, ma lo fa arretrando piano piano, passetto dopo passetto, proprio come quando usciva dalla stanza dopo aver deposto il lancio Ansa nelle mani del principale. Certo, questa volta il saluto non avviene nel salone un po’ scuro di Arcore, ma sulla prima pagina della Stampa di Torino e dunque non può passare inosservato.

Che scrive il pio Bondi? Semplicemente che Forza Italia ha fallito (notare la finezza: Forza Italia, mica il suo fondatore) e che vent’anni di storia politica del centrodestra sono da buttare nel cesso. Come l’ex ministro della Cultura del governo Berlusconi sia giunto a tale conclusione è presto detto: ha letto un libro del politologo Pietro Ignazi in cui si fa a pezzi il berlusconismo e si sostiene che ha fallito non riuscendo a modernizzare il paese, a fare la rivoluzione liberale che si era prefisso e neppure a costituire un grande partito liberal-conservatore. Insomma, Ignazi liquida gli ultimi due decenni come un disastro e Bondi sottoscrive.

Naturalmente si può discutere dei molti errori che il centrodestra ha compiuto e probabilmente si può convenire anche sul mancato raggiungimento degli obiettivi che Silvio Berlusconi si era posto il giorno della sua discesa in campo. Tuttavia ciò che sorprende è l’individuazione dei responsabili del fallimento. Bondi infatti indica come colpevoli Fini, Casini, La Russa e Bossi, definendoli tutto fuor che liberali. Sul banco degli imputati il mite ex coordinatore di Forza Italia fa salire anche Giulio Tremonti, indimenticato ministro dell’Economia di tutti i governi di centrodestra. Ovviamente, Bondi tiene al riparo da qualsiasi responsabilità il capo e perfino se stesso. Lui stava alla destra del padre e alla sinistra di La Russa, si era accorto che quest’ultimo non era un vero liberale e però invece di dirglielo, di espellerlo o di convincerlo, l’ex segretario del Cavaliere glielo ha scritto con vent’anni di ritardo.

Non c’era bisogno di aspettare Ignazi per accorgersi che Casini era un democristiano scampato alla mattanza di Mani pulite, Fini un voltagabbana in camicia nera e cravatta rosa, Bossi un leghista da balera e La Russa un ex fascista risciacquato nell’acqua di Fiuggi. Né serviva un libro del Mulino per mettere in discussione le teorie di Tremonti. E però fino a che le cose sono andate bene, fino a quando il Cavaliere era in auge, nessuno - neanche Bondi - ha fiatato. Ma ora che tutto va a gambe all’aria, ora che Berlusconi è affidato ai servizi sociali e la baracca rischia di cadere in testa a chi per un quinto di secolo vi ha trovato rifugio, il timido Sandrino che fa? Non si rimbocca le maniche, non dà un aiuto al principale impegnato nella sua più difficile campagna elettorale, nemmeno gli scrive una poesia: si limita a vergare un articolo alla vigilia delle elezioni per dire che Forza Italia ha fallito ed è meglio arrendersi. A chi? Ma è ovvio, a Matteo Renzi, il Tony Blair de’ noantri, perché se Berlusconi è la nostra Thatcher senza gonna, il rottamatore non può che essere il suo erede laburista. In pratica, per salvarsi il berlusconismo si dovrebbe convertire al renzismo, che come ogni movimento politico destinato a passare alla storia ha già il suo cantore, Bondi Sandro da Fivizzano ovviamente. Così l’uomo che sussurrava al Cavaliere, vorrebbe ora sussurrare al nuovo Principe. Come è sempre accaduto in tutte le corti e a tutti i cortigiani.

Conti correnti, sale l'aliquota al 26%: ecco quanto pagheremo. Taglio Irap, occhio alla stangata

Conti correnti, sale l'aliquota al 26%: ecco quanto pagheremo. Taglio Irap, occhio alla stangata


Sui conti correnti governo e Pd non riescono proprio a mettersi d'accordo. "Nessuna tassa", spiega Palazzo Chigi a margine del decreto Irpef, che prevede per il 2014 un gettito di circa 588 milioni di euro provenienti dall'innalzamento dell'aliquota dal 20 al 26% su depositi bancari o postali (dal 2015 dovrebbe essere di 3 miliardi). Il responsabile economico dei dem, il renziano Filippo Taddei, qualcosa in più lo dice: al 92,8% degli italiani che hanno conti correnti, libretti postali o certificati di deposito la manovra costerà "meno di un caffè al mese". Insomma, tassa o non tassa, spenderemo di più. 

Chi e quanto paga - Detto che il rincaro al 26% interesserà, oltre agli interessi sui conti correnti e depositi postali, anche le cosiddette rendite finanziarie (dividendi, plusvalenze di azioni e fondi) ed escluderà invece titoli di Stato come Bot e Btp, la Cgia di Mestre ha realizzato per Repubblica uno studio per capire quanto dovremo sborsare sui conti correnti. Fino a 10mila euro, in effetti, l'incidenza è minima visto che la tassazione passerà da 3,10 a 4,03 euro (93 centesimi in più). Più si sale coi conti, però, è più l'aliquota incide. Tra i 10mila e i 50mila euro, per esempio, l'onere aggiuntivo è di 2,3 euro l'anno, mentre tra i 50mila e i 250mila l'aumento è di 26,1 euro (da 87 a 113,1 euro). I più stangati, naturalmente, sono i più "ricchi": chi ha conti correnti oltre i 250mila euro dovrà pagare 169,2 euro in più, dagli attuali 564 a 733 euro fissati dalla nuova aliquota.

La tagliola dell'Irap - La misura, secondo il governo, dovrebbe coprire il taglio del 10% dell'Irap. Secondo Francesco Forte sul Giornale, però, anche qui il governo ha pronto l'inghippo. L'articolo 2 del decreto varato con la firma del presidente Giorgio Napolitano prevederebbe un'aliquota ordinaria ridotta dal 3,90 al 3,50 per cento. Aliquota ordinaria che, secondo quanto stabilisce la legge del 2001, le Regioni possono alzare o diminuire di un punto percentuale, portandola dunque al 4,90 o al 2,90 per cento. Secondo il nuovo decreto, le variazioni (in su e in giù) dovranno diminuire della stessa percentuale di cui viene diminuita l'aliquota ordinaria. Al momento, sono pochissime le regioni che applicano l'aliquota ordinaria alzata di un punto: Campania e Calabria (4,97), Lazio e Sicilia (4,82). Molte altre (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Friuli Venezia Giulia) applicano invece l'aliquota ordinaria al 3,90, ma dal 2015 potranno arrivare comunque, in caso di emergenza finanziaria (sempre molto probabile) fino al 4,50 per cento. Una beffa dietro l'angolo che per ora il governo, impegnato a decantare il miracoloso taglio dell'Irap, non ha saputo scongiurare.

Silvio Berlusconi contro Matteo Renzi: "Simpatico tassatore, gli 80 euro mancia elettorale"

Silvio Berlusconi contro Matteo Renzi: "Simpatico tassatore, gli 80 euro mancia elettorale"

Renzi il simpatico (PD)
Da "simpatico rottamatore" a "simpatico tassatore". Silvio Berlusconi usa l'ironia per massacrare, per la prima volta in maniera aperta, il premier Matteo Renzi. Ospite di Porta a Porta per il suo gran ritorno televisivo, il leader di Forza Italia lancia qualche colpo pesante all'indirizzo di quell'avversario che, unico a sinistra, gli aveva ispirato un po' di fiducia. "Finora nei provvedimenti del governo ci sono solo tasse. Renzi finora ha aumentato il prelievo fiscale dal 20 al 27% e, quindi, con una mano dà 80 euro al mese in più, ma con l'altra mano toglie la quattordicesima che ha dato e per tutti gli italiani di fatto sparisce la tredicesima". "Per dare 80 euro deve trovare dei soldi - spiega Berlusconi -, sono 830 milioni di euro al mese. Per trovarli ha mantenuto la tassa sulla casa e il prossimo anno gli italiani pagheranno 32 miliardi". Quegli 80 euro in più in busta paga, dunque, altro non sono se non una "mancia elettorale".

Sì alle riforme, ma l'Italicum... - Se il giudizio su Renzi è sarcastico, rimane l'appoggio incondizionato sulla strada delle riforme. "Il Paese non è riuscito dal ’48 a darsi un assetto istituzionale che lo renda governabile e mi sembra che debba cercare ancora una volta di cercare questo risultato nell'interesse del mio Paese. Io non ho un'ambizione politica, non ne ho mai avute, scesi in politica per evitare la vittoria della sinistra e ora guardo a un risultato importante". "La legge elettorale per il momento è spiaggiata al Senato e se va avanti la riforma del Senato, credo che difficilmente questa legge di riordino del sistema di voto potrà essere costituzionale", è poi il giudizio, minaccioso, sull'Italicum.

"La bordata di Berlusconi": "Napolitano disse a Fini di farmi cadere, gli promise di nominarlo premier"

Berlusconi: "Napolitano disse a Fini di farmi cadere, gli promise di nominarlo premier"



"Fini ha fatto ciò che ha fatto perché convinto dal Capo dello Stato che avrebbe formato il nuovo governo e ci sono testimoni che hanno sentito la telefonata di Fini, messa in vivavoce, che garantiva di avere le spalle coperte". Silvio Berlusconi attende la seconda metà di Porta a porta, teatro del grande ritorno in tv, per lanciare una bomba clamorosa sul grande nemico Gianfranco Fini, passato alla storia del Pdl come il "traditore" per antonomasia, ma soprattutto sul Quirinale. Quei mesi tumultuosi che chiusero il 2010, quando Fini lasciò Berlusconi per fondare Futuro e Libertà e sfiduciare il governo di centrodestra, sono ancora vivissimi nella mente del Cavaliere e dei suoi fedelissimi. E come un anno dopo, quando a Palazzo Chigi arrivò Mario Monti, secondo l'ex premier la regia fu di Giorgio Napolitano anche allora, quando molti a sinistra si illusero di poter dare una spallata al Cav puntando sul suo ex delfino. Illusione, appunto, anche se parlando di "complotti" forse non avrebbero dovuto attendere a lungo. Nel novembre 2011, dopo la caldissima estate dello spread, arrivò la manina dei grandi centri di potere economico-finanziari internazionali. Come detto, allora Fini era già acqua passata e il nuovo cavallo era il Professore. Come andò a finire, lo sanno tutti.

giovedì 24 aprile 2014

Che errore pensare che Renzi sia un liberale

Che errore pensare che Renzi sia un liberale

di Carlo Lottieri 



Lettere a Sandro Bondi. Dal premier le solite ricette di sinistra: tasse, finte riforme e zero tagli. Ma al Paese serve una cura da cavallo


Cosa c'è di liberale nel progetto di Matteo Renzi e in quanto sta facendo il governo? Molto poco, al di là di certe impressioni di superficie. Ieri l'ex coordinatore di Forza Italia, Sandro Bondi, in una lettera alla Stampa ha definito liberale il premier, facendo probabilmente un'equazione che non torna: Renzi è post comunista quindi è liberale. Ecco, non è proprio così. Perché ora non si tratta soltanto di prendere atto che il Pd è il risultato della fusione tra la sinistra democristiana e quello che restava del Pci dopo anni passati ad ammettere fallimenti epocali. Se da un lato questo è lo sfondo culturale da cui proviene la classe dirigente al potere, d'altro lato è chiaro come nelle azioni di ogni giorno l'esecutivo segua logiche che poco hanno a che fare con una visione orientata al mercato. Innanzi tutto, manca ogni consapevolezza del disastro. L'Italia soffre di una malattia gravissima, che non può essere curata con farmaci da banco. Si è proprio fuori strada se si pensa che aggredire la pressione fiscale significhi detassare di 80 euro una fascia limitatissima di persone a basso reddito. Un Paese che muore di tassazione ha bisogno di ben differenti interventi: di un abbassamento massiccio della spesa pubblica e del prelievo tributario, insieme a privatizzazioni e liberalizzazioni.

In altre parole, c'è bisogno di scommettere su quel mondo produttivo (spesso composto da piccole imprese) che in una realtà come il Veneto sta prendendo sul serio l'idea della rivolta fiscale. Il gradualismo di Renzi poteva (forse) andar bene vent'anni fa, ma con l'attuale debito pubblico e pensionistico, con la terribile moria delle imprese e con la fuga all'estero dei giovani ormai ci vuole ben altro per invertire la rotta e salvare una situazione tanto compromessa. Lo stesso decreto sul lavoro ha visto svanire molte speranze. Al di là delle tensioni tra la sinistra Pd e il gruppo di Alfano (un teatrino abbastanza prevedibile, data l'imminenza delle elezioni europee), il topolino partorito dalla montagna rivela quanto sia fragile, per la maggioranza, la possibilità di operare a favore di una più ampia libertà di contrattare.

Difficile dare torto a Oscar Giannino quando, su Leoni blog, rileva come l'attuale presidente del Consiglio vada a rimorchio della sinistra sindacale, e cioè della Cgil. Potrebbe essere diversamente? Difficile dirlo. Oggi Renzi ha molto potere, dato che il Paese è disperato. Se lo volesse, il premier potrebbe incidere con decisione. Ma non è chiaro se egli abbia capito cosa si debba fare e se voglia sul serio provare a realizzarlo, anche a costo di rompere definitivamente con una parte rilevante del partito. D'altra parte, cosa c'è di liberale nella tassazione del capitale finanziario e quindi del risparmio? O nella nostalgia della Cassa del Mezzogiorno, il cui ritorno è stato evocato dal ministro Delrio? O nel progressivo accentramento dei poteri, che svuotando le regioni finirà per rendere ancor meno visibili le spese e allontanerà ancor più ogni concorrenza tra istituzioni? Oppure nell'illusione che l'Italia potrà ripartire se, sposando logiche keynesiane, darà una spinta ai consumi e in tal modo favorirà la crescita delle imprese? È usando questo argomento che il governo ha adottato la strada (essenzialmente populistica) degli 80 euro per i redditi inferiori, ma lo stesso ragionamento è alla base della volontà di Renzi, in Europa, di far saltare il limite del deficit annuo e spendere con sempre più disinvoltura. L'Unione europea è oggi più fonte di problemi che di soluzioni. Lo stesso progetto dell'euro è contestabile, dal momento che perpetua una gestione politica della moneta e riduce la competizione tra valute. Ma l'Italia dovrebbe evitare d'indebitarsi, e anzi tagliare con decisione le spese, anche se l'Europa non esistesse.

Esiste insomma una maniera liberale di essere «rottamatori» a Roma come a Bruxelles, ma in quanto fa Renzi c'è ben poco di tale impostazione.

Alfano (Ncd), il meno amato dagli italiani

Alfano (Ncd), il meno amato dagli italiani


di Gian Maria De Francesco 


Silvio Berlusconi aveva ragione. Ad Angelino Alfano manca il quid. Lo dimostrano anche i sondaggi: il ministro dell'Interno è il meno amato tra tutti i ministri del gabinetto di Matteo Renzi


Silvio Berlusconi aveva ragione. Ad Angelino Alfano manca il quid. Lo dimostra anche il sondaggio dell'Istituto Piepoli pubblicato ieri dalla Stampa. Il ministro dell'Interno nonché creatore del Nuovo centrodestra nonché ex delfino del Cavaliere è il meno amato tra tutti i ministri del gabinetto di Matteo Renzi. Solo il 42% del campione intervistato ha espresso gradimento per il titolare del Viminale relegandolo all'ultimo posto della classifica guidata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio e uomo ombra del premier, Graziano Delrio (64%).

Tutta la visibilità mediatica che gli ha «regalato» l'indefesso sostegno a un esecutivo di centrosinistra non è bastata a creare empatia con l'opinione pubblica. Probabilmente gli intervistati di centrosinistra vedono in Alfano ancora un ex berlusconiano, mentre quelli di centrodestra un «transfuga». L'ipotesi è suffragata dal fatto che in terzultima posizione c'è un altro esponente di Ncd: il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. L'opposizione decisa ai tagli lineari sulla sanità, ventilati da Renzi e dal ministro Padoan per finanziare il bonus da 80 euro, ha invece premiato il ministro Beatrice Lorenzin che con il 57% tallona Maria Elena Boschi, personaggio sempre più popolare (59%).

Sui risultati del sondaggio, realizzato il 21 aprile, ha probabilmente influito anche la vicenda della lettera inviata dai senatori Ncd «scontenti» al loro leader. L'immagine dell'ennesimo partitino nato in Parlamento e destinato a frantumarsi alle prime difficoltà non giova mediaticamente. Così come non ha giovato il malessere dei senatori per la candidatura di Giuseppe Scopelliti nella circoscrizione Sud alle Europee. La condanna riportata in primo grado dal governatore per il crac del Comune di Reggio Calabria avrebbe suggerito un passo indietro. Ovviamente, in una formazione di stampo neodemocristiano quale Ncd, una simile presa di posizione avrebbe sbloccato un altro posto al sole.

Solo che Scopelliti, vero ras del Nuovo centrodestra in Calabria, a fare passi indietro non ci pensa proprio. Tant'è vero che le sue dimissioni da governatore della Regione sono ancora da presentare. In realtà per il 30 aprile prossimo è stata fissata la conferenza dei capigruppo che dovrà calendarizzare la discussione nell'aula del consiglio regionale della rinunzia del governatore.

Secondo fonti bene informate, però, si starebbe pensando a una soluzione-ponte. Scopelliti potrebbe rimettere il mandato nelle mani della vicepresidente della giunta Antonella Stasi, anch'essa di Ncd. Quest'ultima, forte di tutte le deleghe, sarebbe in condizione di prolungare la consiliatura fino alla scadenza naturale del 2015. Per i 50 consiglieri regionali calabresi una botta di vita (e anche di indennità e rimborsi confermati) e soprattutto uno stress da rielezione risparmiato.

Ai consiglieri di Ncd e agli alleati dell'Udc resterebbe solo una cosa da fare per restare a Catanzaro (capoluogo della Regione) ancora un altro anno: adoperarsi per consentire a Scopelliti di raggranellare quei 90mila voti che sono la soglia di eleggibilità per il seggio a Bruxelles. Il 42% di gradimento di Alfano si spiega anche così.