Mps, ecco gli stipendi dei banchieri che finanziavano i bidonisti
di Francesco De Dominicis
È lunga più di 15 anni la strada che ha portato il Monte dei paschi di Siena al crac e quindi, gioco forza, sotto l’ombrello dello Stato. La nazionalizzazione della banca più antica del mondo, avviata col decreto salva risparmio del 23 dicembre, trae origine da una sfilza di operazioni scellerate, tutte riconducibili - di fatto - al periodo 2006-2012: tra l’acquisto di Antonveneta nel 2007 (pagata a peso d’oro ovvero ben 9,5 miliardi nel pieno della crisi dei mutui) e le successive manovre spericolate coi derivati (Santorini e Alexandria). È anche la stagione in cui viene accumulato il grosso delle sofferenze, quei 24 miliardi di crediti deteriorati che ancora oggi pesano sui conti dell’istituto. Per rintracciare il primo «errore fatale», per la verità, bisogna tornare indietro al 2000, quando viene deciso l’acquisto di Banca 121 (pagata 2.500 miliadi di lire).
Ma chi comandava nella ex banca del Partito democratico? Nella fase acuta della «tragedia senese», dopo il 2006, alla presidenza della banca c’era Giuseppe Mussari e nel consiglio di amministrazione, il vicario di Mussari era Ernesto Rabizzi, con Alfredo Monaci (il fratello era un altro esponente del Pd) un altro membro del cda. Il presidente del collegio sindacale era Tommaso Di Tanno. Sono rimasti sul ponte di comando fino al 2012: in totale, facendo un calcolo approssimativo, si sono portati a casa, tra retribuzioni e buonuscite, quasi 20 milioni di euro. Rabizzi aveva un emolumento di 400mila euro annui. Meno generose le «paghe» di Monaci (263mila euro) e del commercialista Di Tanno (240mila). Non era tra i più alti lo stipendio di Mussari (716mila). Più dell’avvocato prestato all’industria bancaria (ha guidato anche l’Abi tra il 2010 e il 2013) guadagnava il dg Vigni: a lui sono andati 1,6 milioni l’anno e quando ha lasciato la sua poltrona a Rocca Salimbeni è stato accompagnato alla porta con un assegno di «liquidazione» pari a 4 milioni. Braccio destro di Vigni era Gianluca Baldassarri: da direttore dell’area finanza comandava la cosiddetta «banda del 5%» ovvero quel nucleo di manager che, stando alle inchieste dei magistrati, faceva la cresta sulle operazioni finanziarie. Baldassarri aveva una paga annua di circa 400mila euro e la sua buonuscita è stata di 800mila euro. Nel 2014 sono arrivate le prime condanne in tribunale. Recentemente sono stati eseguiti sequestri milionari, forse frutto di ricchi «fuori busta».
Questo gruppo dirigente va a casa nel 2012. Vigni è rimpiazzato alla direzione generale da Fabrizio Viola (che assume anche la carica di amministratore delegato), mentre Alessandro Profumo prende il posto di Mussari, rinunciando da subito all’emolumento da 500mila euro: l’ex ad di Unicredit ha percepito solo 62mila euro l’anno, mentre Viola aveva una retribuzione di 1,5 milioni ed è stato liquidato con 3,1 milioni (l’ultimo anno ha versato 250mila euro al fondo di solidarietà della banca). Grosso modo lo stesso stipendio di Viola (oggi a capo di Banca Popolare di Vicenza) è quello percepito dall’attuale ad, Marco Morelli (che in Mps, con i galloni di vicedirettore generale, era già stato tra il 2006 e il 2010). Il quale, dopo aver ricevuto un bonus d’ingresso pari a 300mila euro, ha deciso di devolvere 200mila euro l’anno al fondo di solidarietà; allo stesso fondo, Massimo Tononi ha versato, nella breve parentesi (settembre 2015 - dicembre 2016), tutti i 500mila euro percepiti come presidente. Dallo scorso dicembre il presidente è l’azionista Alessandro Falciai, al quale spetta una paga da 500mila euro l’anno. I manager della «fase 2», quella dei tentativi di risanamento, hanno intascato retribuzioni e premi per circa 10,5 milioni, cifra che porta il totale degli stipendi degli ultimi 10-15 anni anni a una trentina di milioni.
C’è da dire che le responsabilità, a voler seguire l’iter della vicenda giudiziaria, sono legate al trio Mussari, Vigni e Baldassarri. A ottobre del 2014, come accennato, sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi con interdizione dai pubblici uffici. L’accusa, per tutti e tre, era di ostacolo in concorso all’esercizio della vigilanza, cioè la Banca d’Italia, in relazione all’occultamento del contratto stipulato da Mps con la giapponese Nomura per la ristrutturazione del derivato Alexandria.
Dicevamo dello sterminato elenco di magagne. Il botto arriva con l’acquisto di Antonveneta dagli spagnoli del Santander: affare da oltre 17 miliardi complessivi. Nel 2011, al culmine della crisi dell’istituto, il bilancio registra una pedita di 4,6 miliardi. Viola e Profumo cercano di fare pulizia e scoprono, in una cassaforte, i contratti sui derivati con Nomura. Immediata una rettifica del «buco» per altri 730 milioni, ma con una scelta contabile che porterà la Consob, all’inizio dello scorso anno, a imporre la riscrittura di tutti i bilanci a partire dal 2009. Ma è la dimensione degli aumenti di capitale messi in fila negli ultimi anni - in totale 15 miliardi, rivelatisi insufficienti - a certificare l’entità del sostanziale fallimento. Ai manager sono andati comunque grossi stipendi. Ai contribuenti sta per arrivare il conto finale da 6 miliardi e mezzo del salvataggio di Stato.
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