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mercoledì 9 novembre 2016

Bersani-Baffino, sondaggio horror: ecco quanti punti vale il loro partito

Sinistra Pd, i sondaggisti: il partito di Bersani e D'Alema vale il 5%


di Tommaso Montesano



Se la «ditta» di Pier Luigi Bersani dovesse effettivamente rompere con Matteo Renzi e correre da sola, in questo momento conquisterebbe sul mercato elettorale circa il 5%. Vale a dire quanto pesa, nelle attuali intenzioni di voto, tutta la galassia a sinistra del Pd renziano (Sinistra italiana, Sel, Rifondazione comunista). Un dato non esaltante, ma che comunque un danno ai dem lo provocherebbe. Con l’attuale legge elettorale, quell’Italicum in perenne odore di modifica, un 5% che cambia padrone a sinistra potrebbe mescolare le carte in tavola in ottica ballottaggio. Indebolendo il Pd, che scenderebbe al 25%, e indirettamente favorendo, data la prevalenza del M5S nei sondaggi (oltre il 31% secondo gli ultimi rilevamenti), il centrodestra unito, che con il suo 27% avrebbe la possibilità di sorpassare i democrat.

Discorsi teorici, avvertono i sondaggisti, visto che il destino della legge elettorale è appeso a quanto accadrà dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre. Fatto sta che negli istituti di ricerca l’analisi su quanto potrebbe incidere, e a favore di chi, l’eventuale scissione nel Pd è già in corso. Un dato è certo: il maggiore beneficiario, almeno come primo impatto, sarebbe il movimento di Beppe Grillo, che aumenterebbe il proprio vantaggio sul Pd. E anche il centrodestra, qualora trovasse una sintesi, per lo meno a livello numerico potrebbe tornare competitivo. La minoranza del Pd, infatti, è accreditata nei report che circolano negli istituti demoscopici di un consenso che oscilla tra il 5 e il 6%.

E qui entra in ballo la salute dell’area bersaniana. Nel 2013, in base ai dati delle primarie che incoronarono Renzi alla guida del Pd, la “ditta” controllava circa un terzo del partito. Una fetta corrispondente, certificò Ilvo Diamanti, a quanti nel Pd «esprimono molta-moltissima fiducia nella Cgil». Da qui, visti i numeri raccolti dai democratici alle Europee dell’anno successivo, la conclusione: il peso elettorale della minoranza si attesta «intorno al 10%» degli elettori.

Da allora, tuttavia, ne è passata di acqua sotto i ponti. Il consenso del Pd, e di Renzi, è diminuito. Ma la “ditta” non ne ha tratto vantaggio. Al punto che dalle rilevazioni sul gradimento, tra gli elettori democratici, delle misure nel frattempo adottate dal governo, l’area critica si è nel corso del tempo assottigliata, attestandosi tra il 15 e il 20% del partito. Dai cinque ai dieci punti in meno rispetto al 2013. Da qui la stima sull’attuale forza elettorale intorno al 5% di Bersani e soci.

A sfavore della minoranza dem gioca il precedente, tutt’altro che positivo, di Sinistra italiana, fondata da altri fuoriusciti del Pd, che finora non è riuscita a rendersi riconoscibile dall’elettorato. «Il tema della diseguaglianza, da solo, non basta più. Anche a sinistra, gli elettori vogliano altro. Non certo il ritorno di Massimo D’Alema...», si lascia sfuggiare il direttore di un istituto di ricerca che lavora spesso con il centrosinistra. «Non a caso la scissione, spesso annunciata, finora non è mai avvenuta. Vedremo se questa sarà la volta buona...».

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