Pd, Bersani e i suoi hanno già depositato i simboli della scissione: "Italia bene comune"
di Elisa Calessi
L’idea è tutta sua. E giura che no, non c’è dietro lo zampino di Pier Luigi Bersani. Il quale, però, quando lo ha saputo, ha fatto uno di quei suoi sorrisi che servono a nascondere (ma non troppo) quello che pensa. L’idea è di depositare il marchio “Un altro centrosinistra, Italia Bene Comune”. E ad averla, concretizzandola con un atto formale, è stato Giacomo Portas, deputato eletto nelle liste del Pd, molto amico di Bersani,segretario dei Moderati, partito creato nel 2005 e presente in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Sicilia. Di lui si è parlato poco tempo fa per un’intervista in cui, a prova di come la misura degli 80 euro è pensata male, rivelava che sono stati dati anche a sua moglie. Il nome che Portas ha depositato, “Un altro centrosinistra, Italia Bene Comune”, richiama la sigla della coalizione con cui Bersani si presentò alle elezioni politiche del 2013, formata da Pd, Sel, Centro democratico e, appunto, i Moderati. Per tutelarlo si è rivolto alla Jacobacci&Partners, la più grande società italiana specializzata in proprietà intellettuale.
Non che sia in vista una scissione nel Pd. Tutti,almeno, la smentiscono, a cominciare da Bersani. Lo stesso Portas si affretta a spiegare che non c’è alcun progetto, niente di niente. Però non si sa mai. Poniamo si vada a votare prima della fine della legislatura con il Consultellum, che è un proprozionale puro. Poniamo che la frattura interna al Pd si approfondisca, che le remore degli azionisti della “ditta” vengano meno. Chi lo sa. «Intanto il marchio è lì ed è tutelato», dice Portas, con un’espressione furbesca che lascia intendere più di quanto non si dice. Racconta poi che, incontrando Renato Brunetta in un corridoio di Montecitorio, gli ha detto, facendolo ridere: «Ho saputo che volete candidare un moderato. Io, comunque, non sono disponibile». Facendosi serio, spiega a Libero, lui che si definisce un grande amico dell’ex segretario, come vede la situazione: «Bersani e Renzi dovrebbero chiudersi dentro una stanza e darsele finché non trovano una sintesi. Oppure dividersi». Perché questo tirare la corda senza mai spezzarla, ma abbastanza per paralizzare la situazione, non porta a niente. Bersani, ieri, gettava acqua sul fuoco: «La situazione è molto meglio rispetto al 2013. Io non la vedo difficile, non capisco chi la vede male». E le tensioni sull’Italicum non pregiudicano nulla. «Il Quirinale è un’altra partita».
In pochi, però, sono così ottimisti. Al Senato anche ieri sono volati gli stracci tra maggioranza e minoranza. I renziani parlano di «situazione balcanizzata». Soprattutto, come si è visto dalla riunione dell’altro giorno, nella minoranza, divisa in almeno cinque anime con cinque strategie diverse. Il che è un elemento di forza per gli uomini del premier, ma anche di debolezza perché rende più difficile trovare un candidato che tenga unito tutto il Pd. Restano alte le quotazioni di Anna Finocchiaro, per quanto il bersaniano Nico Stumpo, con qualche malizia, ieri notava: «Io la voterei, bisogna vedere se farebbero altrettanto quelli che l’hanno attaccata sull’Ikea», riferendosi ai renziani e alla polemica sulla scorta che accompagnò Finocchiaro a fare spesa. L’ex magistrato, capo dei senatori Pd, non è la prima scelta di Renzi, ma potrebbe farsela andare bene se è il nome capace di raccogliere più voti. E sulla carta così pare. Potrebbe ridurre il dissenso del Pd (è dalemian-bersaniana, è gradita a Napolitano), prendere voti in Fi (da sempre non dispiace a Berlusconi) e persino nella Lega (ha un buon rapporto con Calderoli). Nell’universo renziano ha come sponsor il ministro Boschi, con cui ha un ottimo rapporto. Renzi potrebbe passare sopra i propri dubbi, fregiandosi di essere il primo a mandare sul Colle una donna.
Giovedì, però, un altro nome è ritornato in campo. Quello del sottosegretario Graziano Delrio. Nel pomeriggio Renzi ha fatto il punto a Palazzo Chigi con la delegazione del Pd che si occupa del Quirinale (Debora Serracchiani, Lorenzo Guerini, Matteo Orfini, Luigi Zanda e Roberto Speranza). Ufficialmente si è solo confermato il metodo deciso. Sta di fatto che ieri ai più stretti collaboratori il premier ha chiesto di «vagliare seriamente» le chance di Delrio. Di «sondare», dentro e fuori il Pd, quanti voti avrebbe. Un’operazione, questa, che viene fatta ogni giorno per ciascun nome con contatti informali condotti da Guerini e Lotti. E alla fine Renzi deciderà su chi puntare. Resta il fatto che più ci si avvicina al D-Day, più è rilevante la scelta del nome su cui sondare. Delrio, che ha l’handicap di essere considerato troppo vicino al premier, potrebbe essere quello che gli uomini di Renzi chiamano «il candidato della quinta votazione». Cioè la carta di riserva se quella giocata in prima battuta venisse impallinata. Un’ipotesi che rivela la difficoltà della situazione. Non a caso è possibile che l’assemblea dei grandi elettori sia rinviata di 24 ore e convocata la mattina del 29 (le votazioni iniziano alle 15).
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